giovedì 25 agosto 2016

Leonardo Da Vinci

Fuggi quello studio del quale la resultante opera more insieme coll'operante d'essa.

Tristo è quel discepolo che non avanza il maestro

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domenica 2 ottobre 2011

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Against Wall Street

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mercoledì 7 settembre 2011

Chinese aircraft carrier ex-Varyag

http://en.wikipedia.org/wiki/Chinese_aircraft_carrier_ex-Varyag

Le catene della legge elettorale

Raul Mordenti


Il berlusconismo sarebbe stato impossibile, anzi semplicemente impensabile, senza il sistema elettorale maggioritario, e oggi una fuoruscita del paese dalla palude fangosa del berlusconismo non è possibile se non ci si libera dalla legge elettorale "porcata" e, prima ancora, dalla cultura politica maggioritaria (fatta di personalizzazione della politica, di culto mediatico del capo, di bipolarismo coatto, di distruzione dei partiti, di soppressione del carattere parlamentare della nostra democrazia affermato dalla Costituzione).
E' quanto emerso dal seminario della Federazione della Sinistra di Roma, svoltosi mercoledì presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso, con la partecipazione del professor Gianni Ferrara, di Franco Russo (dell'"Associazione per la democrazia costituzionale") e di Cesare Salvi (quest'ultimo al suo esordio come presidente della Fds). Si è sottolineata l'amarezza per una grande occasione persa (che si è voluto far perdere) alla democrazia italiana. Tale occasione era rappresentata dal referendum Passigli-Ferrara, che mirava ad abolire il premio di maggioranza, l'anticostituzionale designazione del premier e la designazione dall'alto dei parlamentari (cioè, ha detto Gianni Ferrara, «le tre devastanti caratteristiche» della legge elettorale «peggiore del mondo»).
Attorno a questa ragionevole e realistica proposta, che prometteva di prolungare la vittoriosa stagione dei referendum sul piano istituzionale, si era costruita una credibile coalizione, che univa tutte le firme migliori del costituzionalismo italiano, numerosi intellettuali di grande prestigio, un ampio schieramento di forze sociali, fra cui la Cgil, e la Fds. La nostra pronta e piena adesione al referendum proporzionalista (pure in presenza dello sbarramento del 4%) dimostrava nei fatti che i comunisti sanno mettere al primo posto gli interessi della democrazia e della Costituzione.
La contro-proposta di un secondo referendum mirante a restaurare il fallimentare "mattarellum" (del tutto inammissibile anche dal punto di vista giuridico: Ferrara) mirava soltanto a sbarrare la strada al referendum proporzionalista, complice (come sempre) un'efficace campagna di disinformazione che metteva sullo stesso piano le due proposte referendarie, benché l'una intendesse uscire dal sistema maggioritario-berlusconiano, l'altra invece a ripiombarci dentro, addirittura peggiorandolo. E' assai grave la responsabilità di chi (Passigli) ha messo al primo posto gli interessi di bottega del suo Partito, violando la logica stessa del referendum che consiste nel fare esprimere l'autonomia del popolo, anche - se necessario - contro i ritardi, o gli errori, dei partiti. Ancora più grave la responsabilità dell'amico Vendola, che ha aderito prontamente alla manovra, ricostruendo un mostruoso asse per il maggioritario Veltroni-Parisi-Segni-Panebianco-Vendola.
Sappiamo della forte opposizione di esponenti di Sel alla scelta di Vendola, che si aggiunge a quella importante di Fausto Bertinotti; ma, in attesa che da tale opposizione (su una questione di dirimente portata, essendo in gioco la democrazia) siano tratte da quei compagni di Sel tutte le conseguenze politiche, non possiamo non notare che il maggioritario e il leaderismo sembrano essere aspetti essenziali della proposta di Sel, se è vero come è vero che quel partito presenta addirittura nel suo simbolo il nome del capo e candidato-premier.
E come nel '93 il referendum Segni-Occhetto aprì irresponsabilmente le porte a Berlusconi, così oggi la proposta di legge elettorale avanzata dal Pd, dopo il riuscito stop al referendum proporzionale, apre irresponsabilmente la strada all'incostituzionale "premierato" (sic!), mira a rafforzare il bipolarismo coatto, vuole costringere a "serrare al centro" sopprimendo l'articolazione delle posizioni e, prima di tutto, la rappresentanza parlamentare del conflitto sociale. Tutto questo è frutto del più miope trasferimento degli interessi immediati di quel partito sul piano istituzionale (Franco Russo). Intanto tale proposta del Pd, per la evidente impossibilità di essere approvata da questo Parlamento, garantisce solo che le prossime elezioni si svolgano ancora con la "legge porcata", che forse non è poi tanto sgradita allo stesso Pd, specie per il premio di maggioranza e il bipolarismo coatto (e, non dimentichiamolo, per la possibilità di nominare i parlamentari). Ma proprio questi meccanismi antidemocratici rischiano di consentire a Berlusconi (o a chi per lui) di vincere ancora una volta, ancora una volta conquistando (solo grazie alla legge elettorale!) una forte maggioranza parlamentare pur senza disporre affatto della maggioranza dei consensi delle cittadine e dei cittadini.
E' evidente il legame che c'è fra le proposte maggioritarie e leaderistiche e la crisi in atto: ci troviamo infatti di fronte ad una sorta di «commissariamento della politica» (Salvi), che si è espresso di recente nella istantanea approvazione a scatola chiusa (auspice il Quirinale) del più feroce e antipopolare pacchetto di provvedimenti economici della storia repubblicana: «vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare» (Inf, III, 95-6); e chi può fare tutto ciò che vuole sono oggi i cosiddetti "mercati", cioè, fuor di metafora, i poteri forti del capitale e della finanza, che non tollerano più l'impaccio del parlamentarismo e temono come la peste la possibile espressione della volontà popolare in forma libera ed eguale (come solo la proporzionale può garantire).
Ma c'è di più: come ha chiarito con preoccupazione Cesare Salvi, il micidiale mix fra la devastante crisi economica, la crescente ostilità delle masse verso il deprimente spettacolo della "politica politicante" e l'omologazione programmatica e morale delle forze politiche di centrodestra e centrosinistra, può determinare in Italia un collasso drammatico della stessa democrazia. Si apre insomma la strada a un nuovo possibile fascismo, populista, mediatico e razzista, con basi di massa, che deve enormemente preoccuparci.
Occorre dunque saper trasformare, ancora una volta, l'amarezza (e lo sdegno) in iniziativa politica di massa: occorre non stancarci di seminare (Franco Russo) cultura politica dell'autodeterminazione, dei diritti, della fedeltà alla Costituzione, cioè del proporzionale; occorre evidenziare il nesso forte che c'è fra la difesa del lavoro e la difesa (o la riconquista) della democrazia e incalzare su questo terreno le organizzazioni dei lavoratori (a cominciare dalla Cgil e dalla Fiom, ma non solo), oltre che i movimenti di lotta. Occorre soprattutto far vivere la nostra proposta di una nuova legge elettorale proporzionale dentro la proposta di una più complessiva riforma etico-politica della democrazia. A cominciare da noi stessi.


Liberazione 29/07/2011

Eravamo stati buoni, seppur facili, profeti

Nicola Melloni

Eravamo stati buoni, seppur facili, profeti. La scorsa settimana avevamo detto che il secolo americano era finito e dopo neppure due giorni anche Standard&Poor's ci ha dato ragione, declassando per la prima volta in settant'anni il debito pubblico americano. Anche i guardiani del capitalismo mondiale non si fidano più di Washington. A colpire non è però tanto il declassamento quanto piuttosto le motivazioni addotte: la democrazia americana è sostanzialmente incapace di reagire alla crisi, ostaggio di un sistema istituzionale decrepito. Ora anche le agenzie di rating cominciano ad accorgersi che il re è nudo.
Gli elementi dell'egemonia americana sono ormai messi in discussione e così pure, ovviamente, quelli del capitalismo liberale di stampo anglosassone. Negli ultimi trent'anni l'impero americano si era basato sull'esportazione di un modello ben preciso, da una parte il libero mercato che generava tassi di crescita e ricchezza superiori a qualsiasi alternativa, dall'altra la democrazia come valore universale. Certo questa esportazione era anche e soprattutto avvenuta con le guerre e con l'imposizione di programmi economici per mano del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, ma non si può sottovalutare l'attrazione ed il miraggio che il sogno americano rappresentava per milioni di persone in tutto il globo. Con la caduta dell'Unione Sovietica, poi, sembrava venir meno sia la sfida comunista sia il principale rivale geo-politico degli Usa, e si veniva formando dunque un mondo basato sul pensiero unico neo-liberale e sull'unipolarismo americano. In questi quattro anni le cose, però, sono cambiate drammaticamente. Dal punto di vista economico, il libero mercato non sembra in grado di risolvere la crisi da esso stesso generato: il cuore del capitalismo liberale, l'Occidente, è sotto scacco, con un continuo rimbalzare del debito da mani private a mani pubbliche e viceversa, con l'economia incapace di crescere, con la disoccupazione in aumento. Dal punto di vista politico, dopo il sussulto della vittoria di Obama nel 2008, con tutte le speranze ad essa connesse, l'America ha dimostrato di essere incapace di risolvere i suoi problemi, con una classe politica sempre più ostaggio dell'oligarchia finanziaria che ormai governa il paese, indipendentemente dal Presidente che siede alla Casa Bianca. Queste debolezze strutturali hanno naturalmente modificato il quadro geopolitico: il mondo non solo è ormai multi-polare, ma addirittura la Cina si permette anche di dare lezioni (sacrosante) agli Stati Uniti. A Pechino pretendono cambiamenti strutturali per garantire i loro investimenti in titoli del tesoro Usa, del tipo di quelli che Washington ha imposto in giro per l'Asia, l'Africa e l'America Latina negli anni 90. Corsi e ricorsi storici.
Si tratta di un passaggio cruciale. Con la fine dell'egemonia americana si esaurisce anche, naturalmente, la "spinta propulsiva" del capitalismo liberale nella forma in cui lo abbiamo conosciuto sino ad ora. D'altronde ogni epoca storica ed ogni egemonia politica è stata contraddistinta da rapporti di produzione diversi. Le potenze emergenti, a cominciare dalla Cina, hanno sistemi economici sì capitalisti ma assai lontani dal liberalismo anglosassone, economie basate assai più sulla produzione che non sulla finanza ed in cui lo stato conserva spesso un controllo solido se non sui mezzi di produzione quantomeno sulla politica industriale, governando politicamente lo sviluppo economico e non lasciandolo in mano al mercato. Inoltre, anche nei mercati finanziari occidentali avanzano minacciosi i fondi sovrani, longa manu delle economie emergenti che grazie ai proventi delle loro esportazioni (dal petrolio del Quatar all'industria cinese) stanno accumulando capitali vastissimi da re-investire altrove, investimenti che però, essendo decisi dagli stati e non da semplici agenti finanziari, hanno un'inevitabile ricaduta politica. Il pendolo si sta spostando dai paesi occidentali, pieni di debiti, grassi e ingordi, che consumano più di quello che producono, a quelli orientali, solidamente basati sull'industria, parsimoniosi, con tassi di crescita della produzione manifatturiera in continua ascesa. In breve, il privilegio imperiale dell'Occidente, lo sfruttamento delle risorse altrui per accomodare i propri stili di vita, si sta esaurendo. Con conseguenze ancora difficilmente valutabili e potenzialmente drammatiche se pensiamo che, storicamente, la fine delle egemonie è sempre coincisa con il ricorso alla guerra.


Liberazione 10/08/2011

A Milano è tutto uno “schierarsi”. Nutrire l’Expo o staccare la spina

Daniele Nalbone
Tre quesiti sul sito di Repubblica. Insistere? Rivedere? Rinunciare? Il dibattito intorno all'Expo 2015 di Milano sembra limitato a questo sondaggio. Andare avanti comunque, rivedere il progetto «nel senso della sobrietà e del risparmio», oppure prendere atto della «congiuntura internazionale» e delle politiche economiche del governo. E allora, a Milano e dintorni, è tutto uno schierarsi. Da una parte il sindaco Pisapia che un giorno avverte che con i circa cento milioni di euro di tagli che il Comune subirà con la manovra finanziaria «c'è il rischio reale di non avere i fondi per onorare la nostra quota di partecipazione» al Grande Evento, salvo poi ribadire che Expo si farà e che il Comune entrerà nella partita «con una quota paritaria» rispetto alla Regione Lombardia.
Il fatto - politico - sembra quindi essere il seguente. Da una parte la Regione guidata da Roberto Formigoni - e quindi da Comunione e Liberazione - che vede in Expo "La Partita". Dall'altra chi si è trovato con un'Expo da onorare secondo i megaprogetti presentati al Bureau di Parigi salvo scoprire le casse dissanguate e dover affrontare un Tremonti che sembra non avere alcuna intenzione, in tempo di crisi, di perdere tempo e soprattutto denaro con un Grande Evento da un miliardo e 700 milioni di euro.
Facciamo due conti: per mantenere gli impegni presi dall'ex sindaco Letizia Moratti, il Comune di Milano avrebbe già dovuto versare nella società Arexpo qualcosa come 38 milioni di euro. Che non ha. A questi, poi, se ne dovrebbero aggiungere oltre duecento (da versare in Expo Spa) da oggi al 2015, ai quali si dovrebbero sommare altri duecento milioni provenienti dai soci in Expo Spa: Camera di Commercio (che però per statuto può spendere solo in gestione della società e non in infrastrutture ) e dalla Provincia (in rosso come il Comune). Se a ciò aggiungiamo che il Comune difficilmente potrà contare su una deroga al patto di stabilità, è chiaro come, ad oggi, sembra impossibile riuscire a tirar fuori dalla casse di Palazzo Marino quanto richiede il Grande Evento.
E allora? Giuseppe Sala, amministratore delegato di Expo Spa, predica tranquillità e conferma che gli 833 milioni di euro del Governo arriveranno. Roberto Formigoni non cede di un millimetro: la Regione - in Arexpo - ha già anticipato i soldi di Comune e Provincia per acquistare i terreni. La partita per Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere è troppo importante.
Così, mentre il gruppo degli "Exposcettici" non è più limitato solo ai "no global" del Comitato No Expo e ai soliti "comunisti", ecco che l'obiettivo proveniente dalla politica e dall'economia è quello di "Salvare il soldato Expo". Come? «Aumentino l'Iva» la proposta del filosofo ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari, ma guai a far saltare Expo perché sarebbe «il fallimento di un paese». E se il viceministro delle Infrastrutture, Roberto Castelli, si dice propenso per una «revisione del progetto», è ovviamente Roberto Formigoni a stoppare qualsiasi ripensamento della maggioranza di Governo: «Expo va considerata una priorità, un'occasione di crescita e non uno spreco». Dello stesso parere un altro ciellino doc, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, per il quale «i soldi ci sono. Niente alibi». Per Comunione e Liberazione, quindi, è tutto in ordine. E allora la questione è tutta lì: insistere, rivedere o rinunciare? Tre quesiti tra cui scegliere, più il solito "non so" come quarta possibilità. Eppure non è da un giorno ma da alcuni anni che qualcuno sta provando, in ordine a Expo, a mettere al centro della discussione qualcos'altro. «Nutrire il pianeta, Energia per la vita». A 1348 giorni dall'inizio (?) di Expo, chi si è accorto che è questo il tema intorno a cui dovrebbe ruotare l'Esposizione del 2015? Era il 5 febbraio 2009 quando Aldo Bonomi, direttore del consorzio di Agenti di sviluppo del territorio (Aaster) e consulente del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (Cnel), in una conferenza organizzata presso la liberaria Shake di Milano, si "rese conto" che «Nutrire il pianeta, Energia per la vita» in fondo fosse qualcosa in più di un semplice slogan. «Il tema di Expo 2105 ha fatto suo fino in fondo il concetto di limite, che è quello del cibo, dell'alimentazione, della scarsità di queste risorse». Ecco che Expo 2015 dovrebbe significare «aprire un dibattito sul concetto di limite e di sviluppo, sul concetto di crescita e decrescita, su quello della scarsità». La domanda, quindi, è lapidaria: «perché tutti quanti parlano dell'Expo, ma non del tema che andrà affrontato durante l'Expo?». Milano sta vivendo Expo «solo da un punto di vista, quello della rendita. Per Milano il tema non esiste. Per questa città il problema sta solo nella nuova enorme operazione immobiliare che verrà fatta a fianco della fiera di Rho». Così si parlava trenta mesi fa. Trenta mesi dopo, l'unico problema di Expo 2015 è trovare i soldi necessari per costruire. Crisi o non crisi. Manovra o non manovra.


Liberazione 21/08/2011, pag 2