mercoledì 31 dicembre 2008

Obama's Gaza silence condemned

Despite growing pressure on Barack Obama to speak out on the crisis in Gaza, the US president-elect has remained silent on the issue.

Obama, holidaying in Hawaii, has made no public remarks on Israel's unrelenting military assault on the Palestinian territory, which has left more than 380 people there dead.

The former Illinois senator spoke out after last month's attacks in Mumbai and has made detailed statements on the US economic crisis.

But some fear that the US president-elect's reluctance to speak out on the Gaza raids could be sending its own message.

"Silence sounds like complicity," Mark Perry, the Washington Director of the Conflicts Forum group, told Al Jazeera.

"Obama has said that Israel has the right to defend itself from rocket attacks but my question to him is 'does he believe that Palestinians also have the right of self-defence?'"

Support for Israel

Israel says the operation is necessary to prevent Palestinian rocket attacks on the south of the country.

And Obama repeatedly spoke out in support for Israel during his election campaign, describing the country as one of the US' greatest allies and has vowed to ensure its security.

He caused anger in the Arab world when he told a pro-Israel lobby group in June that Jerusalem should remain the undivided capital of Israel.

He also visited Sderot, the Israeli town close to Gaza regularly targeted by Palestinian rocket fire, in July, to show his support for residents.

Ehud Barak, the Israeli defence minister, has cited comments Obama made during that visit in his own justification for launching the assault.

"Obama said that if rockets were being fired at his home while his two daughters were sleeping, he would do everything he could to prevent it," Barak was reported as saying on Monday.

Obama's aides have repeatedly said he is monitoring the situation and continues to receive intelligence briefings but that he is not yet US president.

But George Bush, the current US leader, has also remained silent on Israel's attacks although the White House has offered its support to Israel.

Arabs pessimistic

Many Arabs were cautiously optimistic about Obama's election victory in November, in the belief that a fresh face in the White House would be better than Bush, who invaded Iraq and gave strong support to Israel.

But his choice of a foreign policy team, especially Hillary Clinton as US secretary of state and Rahm Emanuel as his White House chief-of-staff, have raised doubts that much will change.

But some see his see his silence as symptomatic of caution over his own position and the power of the Israel lobby.

"He wants to be cautious and I think he will remain cautious because the Arab-Israeli conflict is not one of his priorities," Hassan Nafaa, an Egyptian political scientist and secretary-general of the Arab Thought Forum in Amman, told Reuters.

"Obama's position is very precarious. The Jewish lobby warned against his election, so he has chosen to remain silent (on Gaza)," added Hilal Khashan, a professor of political science at the American University of Beirut.

Protests demand change

However many in the US have called on Obama to speak out personally on events in Gaza.

Protesters gathered at Obama's transition office in Washington DC on Monday, and outside his holiday residence in Hawaii on Tuesday, to demand he do more.

"The Obama administration is working hand in glove with the Bush administration and...there is no reason that they can't work together to get something done," Mike Reitz, a federal government worker, told Al Jazeera at the transition office protest.

At another protest against Israel's actions in Gaza outside the White House on Tuesday, some were sceptical about Barack Obama's commitment to Middle East peace-making.

"Is this the change that you were talking about?," said Reza Aboosaiedi, a computer specialist from Iran.

"If this is the change, you have a very, very deep problem, because if you add them up with the other economic problems and other problems in America, having this kind of problem in the Middle East, I don't think he can manage it."

But others at the protest still saw some hope that the former Illinois senator could make a difference.

"I would like to think that he would be more active than Bush in trying to push an agenda to bring Israel and Palestine together to have peace talks, but I don't know," said Bob Malone, a lawyer.

"But I'm an optimist, so I hope so."

http://english.aljazeera.net/news/americas/2008/12/2008123101532604810.html

mercoledì 24 dicembre 2008

La loro democrazia uccide

Il documento del Politecnico occupato il 6 dicembre subito dopo l’assassinio di Alexis

Sabato 6 dicembre 2008, il compagno Alexandros Grigoropoulos viene assassinato a freddo, colpito da un proiettile nel petto proveniente dall'arma di una guardia speciale, Epaminonda Karconea.
Contrariamente alle dichiarazioni dei politici e dei giornalisti, suoi complici nell'assassinio, non si tratta di un "caso isolato", ma della massima espressione della repressione statale che in modo sistematico e organizzato ha preso di mira chi resiste, chi insorge, gli anarchici-libertari.
E' il culmine del terrorismo statale che si manifesta attraverso una evoluzione del ruolo giocato dai meccanismi repressivi, il loro continuo attrezzarsi e l'aumento della percentuale di violenza, conseguenza del dogma della "tolleranza zero" e della criminalizzazione - diffamazione nei confronti di chi lotta.
Questa situazione prepara il terreno per l'intensificazione della repressione, tentando di ottenere il consenso sociale e armando le mani degli assassini in divisa che ora hanno sulla loro linea di mira chi lotta, i giovani, i "diavoli" che si rivoltano in tutto lo Stato greco.
La violenza assassina nei confronti di chi lotta ha come obiettivo quello di intimidire, terrorizzare e spingere così verso la subordinazione sociale. È il culmine dell'offensiva generalizzata dello Stato e dei padroni nei confronti di tutta la società e impone condizioni di sfruttamento e di sottomissione sempre più dure. Si tratta di un attacco che quotidianamente si ripercuote sulla povertà, produce l'isolamento sociale, spinge verso l'adattamento nel mondo delle differenziazioni sociali e di classe, conduce la guerra ideologica e l'inganno attraverso i meccanismi direzionali dominanti (i Mass media).
Un attacco che colpisce ogni ambito sociale e pretende da ogni sfruttato la divisione e il silenzio. Dalle gabbie scolastiche e universitarie fino agli inferni dello schiavismo salariale,caratterizzati da centinaia di morti, definite "morti sul lavoro", e le condizioni di sopportazione per la grande maggioranza della popolazione, dalle frontiere blindate, i bliz e gli assassini degli immigrati, i "suicidi" dei detenuti nei centri detentivi fino ai "colpi accidentali" nei posti di blocco, la democrazia mostra i suoi denti.
In queste condizioni di sfruttamento e repressione crudele, di fronte all'oppressione e l'esproprio quotidiano che lo Stato e i padroni attuano succhiando la forza operaia, la vita, la dignità e la libertà degli oppressi, l'asfissia sociale accumulata accompagna oggi la rabbia che si sfoga nelle strade e le barricate per l'uccisione di Alexandros.
Dal primo momento in cui si è diffusa la notizia dell'assassinio, cortei spontanei e scontri si verificano nel centro di Atene, viene occupato il Politecnico, la facoltà di Economia (Asoee) e la facoltà di Giurisprudenza, mentre in varie zone della città vengono effettuati attacchi ad obbiettivi statatali repressivi. Cortei e presidi in città come Patrasso, Volos, Hania, Iraklio, Giannena, Komotini, Ksanthi, Serres, Sparti, Alexandroupoli, Mitilini. In Via Patision, ad Atene, gli scontri durano per tutta la notte. Fuori dal Politecnico i cellerini fanno uso di proiettili di plastica.
Domenica 7 dicembre migliaia di persone manifestano verso la centrale di polizia (Gada) attaccando le forze dell'ordine, successivamente seguono scontri di straordinaria intensità per le strade del centro che durano fino a tarda notte. Durante tali eventi molti manifestanti vengono feriti e alcuni arrestati.
Da lunedì mattina 8 dicembre fino ad ora la rivolta si espande. Gli ultimi giorni sono caratterizzati da infiniti eventi sociali: mobilitazioni combattenti studentesche con cortei - a volte sfociate in assalti - nelle stazioni di polizia, ma anche scontri con le guardie, sia nei quartieri della capitale che in tutto il paese, manifestazioni di massa e scontri dei manifestanti con la polizia al centro di Atene durante le quali vengono attaccate banche, grandi magazzini e ministeri, accerchiamenti del parlamento, occupazioni di edifici pubblici, cortei combattenti e assalti ad obiettivi statali- capitalistici in molte città.
L'aggressione ai giovani e in generale a chi lotta, gli arresti, le botte e in alcune situazioni le minacce con armi oppure la collaborazione della polizia con bastardi parastatali - come nel caso di Patrasso in cui le guardie accompagnate dai fascisti hanno attaccato i rivoltosi della città - è la modalità con la quale i cani statali in divisa mettono in atto il dogma della tolleranza zero sotto gli ordini dei padroni politici, per affrontare l'onda rivoltosa lanciata la sera di sabato scorso. Il terrorismo dell'esercito poliziesco viene completato dal modo in cui viene affrontata la questione degli arrestati attraverso dure accuse e detenzioni in attesa di giudizio. A Larissa 8 arrestati verranno giudicati con la legge sull'antiterrorismo e sono in attesa di giudizio accusati per appartenenza ad associazione sovversiva. Le stesse accuse valgono per 25 immigrati arrestati ad Atene. Inoltre, sempre ad Atene, 5 persone fermate sono state chiuse in carcere per gli eventi di lunedi 7, mentre altre 5 persone fermate la notte di mercoledì sono in stato di arresto con accuse penali e lunedì 15 verranno processate.
Allo stesso tempo si diffonde una guerra ingannevole di propaganda criminalizzante nei confronti di chi insorge che spiana la strada alla repressione, la quale ha come scopo unico il ritorno alla normalità dell'ingiustizia sociale e della subordinazione.
Gli eventi che seguirono l'assassinio, hanno scatenato mobilitazioni internazionali in memoria di Alexandros e in solidarietà con i rivoltosi che lottano per le strade, ispirando il contrattacco alla democrazia nel suo insieme. Si sono svolti presidi, cortei, attacchi simbolici ai consolati greci nelle città di Cipro, della Germania, in Spagna, in Danimarca, in Olanda, in Gran Bretagna, in Irlanda, in Svizzera, Australia, Slovacchia, Russia, Bulgaria, Belgio, Italia, Francia, Polonia, Stati uniti, Croazia, Turchia, Argentina,Cile e in altre parti ancora.
Continuamo l'occupazione del Politecnico che è iniziata sabato 6 creando uno spazio per chi lotta e un luogo permanente di resistenza all'interno della città.
Nelle barricate, nelle occupazioni delle facoltà, nei cortei e nelle assemblee teniamo vivo il ricordo di Alexandros, ma anche quello di Mixalis Kaltezas, di Carlo Giuliani, di Mixalis Prekas, di Xristoforos Marinos e di tutti i compagni assassinati dallo Stato. Non dimentichiamo la guerra all'interno della quale i nostri compagni sono caduti dal fuoco della repressione e teniamo aperto il campo del rifiuto collettivo al vecchio mondo del Potere. Le nostre motivazioni sono cellule vive del non conforme, del mondo libero che noi sogniamo senza padroni e schiavi, senza guardie, eserciti, carceri e confini.
I proiettili degli assassini in divisa, le botte e gli arresti dei manifestanti, la guerra chimica con i lacrimogeni, l'attacco ideologico della Democrazia, non solo non riusciranno ad imporre il terrore e il silenzio, ma diventano le cause per cui s'innalzano le grida della lotta per la libertà di fronte al terrorismo repressivo, sono le cause per cui viene abbandonata la paura di incontrarci - sempre in più persone, giovani, studenti medi ed universitari, immigrati, dissocupati e lavoratori - per le strade della rivolta. Affinché trabocchi la rabbia che li seppellirà.
Lo Stato, i padroni e i loro lecchini
ci prendono in giro, ci rubano, ci uccidono!
Organizziamoci per contrattaccare e spezzarli!
Queste notti sono di Alex!
Tutti e tutte al tribunale lunedì 15 dicembre alle 9.
Immediato rilascio degli arrestati
Mandiamo la nostra solidarietà a tutti-e che occupano facoltà, scuole, manifestano e si scontrano con gli assassini di Stato in tutto il paese.
Mandiamo la nostra solidarietà ai compagni che all'estero si stanno mobilitando riportando la nostra voce ovunque! Siamo insieme nella grande lotta mondiale per la liberazione sociale .
Assemblea dell'occupazione ogni giorno alle 20 al Politecnico.


Liberazione (Queer) 21/12/2008, pag 3

venerdì 19 dicembre 2008

TORNANO LE TIGRI ASIATICHE MA QUESTA VOLTA CAVALCANO L’ASSE DELL’ANTICRISI

di Carlo Benedetti

L’Asia torna alla grande sulla scena mondiale avviando una delle trasformazioni strutturali più significative del sistema internazionale moderno dell’era della rivoluzione industriale. Si muovono all’attacco tre paesi: Giappone con i suoi 127.435.000 abitanti; la Cina che ne conta 1.330.503.000 e la Corea del Sud che tocca i 44.044.790. E tre, di conseguenza, i leader in pista per contrastare la globalizzazione occidentale: il Primo ministro di Tokyo Taro Aso; il leader di Pechino Wen Jintao, primo ministro; i coreani Lee Myung-bak, capo di stato e il Capo di governo Han Seung-soo. Si annuncia - come ritengono molti esperti dell’economia asiatica - un processo geopolitico di trasformazione tecnica e scientifica che potrebbe produrre una frattura radicale nell’ordine mondiale rimettendo in questione gli equilibri internazionali contemporanei. E tutto questo anche in riferimento al fatto che l’Asia orientale, che include le regioni più popolate del mondo – i due terzi dell’umanità -, rappresenta un vasto insieme demografico, estremamente diversificato dal punto di vista economico, culturale e politico.

Si è, in pratica, ad un momento di svolta (a Mosca lo sottolinea il quotidiano economico “Kommersant” ) perché la dinamica di sviluppo e modernizzazione regionale ha fatto emergere in Asia orientale e meridionale, nell’arco di pochi decenni, economie industriali spesso altamente avanzate e tecnologicamente intensive, trasformando zone e paesi considerati marginali in attori chiave dell’economia mondiale, sul piano commerciale e finanziario.

Ed ecco che ora la crisi finanziaria ed economica globale spinge le tre potenze dell'Estremo Oriente[1] - Giappone, Cina e Corea del Sud - a organizzare il loro primo vertice trilaterale, autonomo e non agganciato, come in passato, alle riunioni dell'Asean, l'Associazione delle nazioni dell'Asia del sud-est. Si è quindi alla presenza di un radicale cambiamento di strategia. Perché a Fukuoka, nel Giappone meridionale del sud, il primo ministro nipponico, Taro Aso[2], il premier cinese, Wen Jintao, e il presidente sudcoreano, Lee Myung-bak, si incontrano nel pieno delle forti turbolenze internazionali - amplificate dalla recente bocciatura al Senato statunitense del piano di salvataggio del settore automobilistico - nel tentativo di trovare una risposta coordinata. Tutti e tre, quindi, impegnati nel voltare pagina convinti del fatto che nei grandi processi di crisi e di svolta a contare dovrebbero essere le “culture” economiche e non le ideologie.

Ed ecco, di conseguenza, che sono in molti a ritenere che si è alla soglia di un futuro asse privilegiato Tokyo-Pechino-Seul che, pur se denso di implicazioni, può essere sempre un’arma vincente nell’arena della concorrenza mondiale. E questo risulta anche dal comunicato emesso al termine del summit, dove Giappone, Cina e Corea del Sud concordano sul fatto di aver "avviato una nuova era nella partnership tripartita che produrrà pace e sviluppo sostenibile nella regione". Per questo svilupperanno ancora di più la cooperazione negli anni a venire.

I tre leader ritengono, infatti, che le rispettive economie siano dinamiche, resistenti e strettamente correlate tra loro. "Noi - si legge nella dichiarazione - rimarchiamo le responsabilità per la creazione di un futuro pacifico, prosperoso e sostenibile sia per la regione dell'Estremo Oriente, sia per la comunità internazionale". E in questo contesto Tokyo, Pechino e Seul si avventurano sul terreno della sfida globale nei confronti dei mercati finanziari ed economici. A tale proposito - si afferma nella dichiarazione - “siamo determinati a definire una solida cooperazione di carattere politico, economico, sociale e nei settori culturali sia all'interno dell'attività di governo sia al di fuori".

Nel corso del vertice di Fukuoka i “Tre” hanno poi parlato di quel terreno minato relativo all’opera di denuclearizzazione della penisola coreana (con l'esame sulla questione della Corea del Nord), dell'ambiente, del disarmo e della non proliferazione. E poi della riforma dell'Onu. Una nota positiva - che ha smorzato i toni duri assunti dal dibattito - è però venuta con l'annuncio che la Corea del Sud potrà fare affidamento su un forte ampliamento degli accordi di swap valutario (si tratta di operazioni di riporti in divisa con le quali una banca centrale vende una valuta a un altro istituto di emissione per riacquistarlo a termine ad un prezzo determinato, secondo un definito rapporto di cooperazione) e cioè accordi siglati con Cina e Giappone per stabilizzare il proprio sistema finanziario. Quello di Seul con Pechino, ad esempio, sarà portato a circa trenta miliardi di dollari, includendo anche i quattro miliardi di dollari dell'intesa in corso; l'altro raggiunto con il Giappone, invece, consente alla Corea del Sud di aumentare i fondi disponibili da tre a venti miliardi di dollari. E così sommando i trenta miliardi di dollari messi a disposizione dalla Federal Reserve a fine ottobre, Seul potrà tentare di uscire dalle secche che hanno strozzato il suo sistema finanziario, facendo precipitare la sua moneta ufficiale - il won - ai minimi verso il dollaro, anche se le stime di crescita del 2009 sono state tagliate dalla banca centrale a un misero due per cento, il livello più basso degli ultimi undici anni.

Gli altri Paesi, comunque, non se la passano meglio: il Giappone, con il crollo dell'export, è ufficialmente in recessione, mentre la Cina sarà costretta a fronteggiare pesanti squilibri interni e ad abbandonare il prossimo anno il tasso di crescita a due cifre. Negli Stati Uniti, intanto, dopo il mancato accordo al Senato sul piano di salvataggio dell'industria automobilistica, l'amministrazione Bush ha fatto sapere che prenderà in considerazione l'ipotesi di attingere ai fondi del "Tarp" (Troubled Assets Relief Program), il pacchetto di aiuti da 700 miliardi di dollari approvato dal Congresso in autunno contro la crisi finanziaria.

"In condizioni economiche normali - ha detto la portavoce della Casa Bianca, Dana Perino - preferiremmo che fossero i mercati a determinare le sorti delle aziende private, ma, in considerazione dell'attuale stato dell'economia americana, se necessario considereremo altre opzioni".

Intanto gli osservatori diplomatici fanno riferimento ad un altro “vertice” che si è svolto a Pechino dove si sono riuniti i rappresentanti di Cina, Stati Uniti, Russia, Giappone, Corea del Sud e Corea del Nord. Nel corso della riunione si è compreso chiaramente che gli Stati Uniti dovranno riformulare la loro strategia per indurre Pyongyang a smantellare le centrali nucleari in avanzata fase di costruzione. E tutto questo va messo in relazione al fatto che i segnali di sfida lanciati da Pyongyang a Seul e a Tokyo poco prima dell’apertura degli incontri non hanno lasciato spazio a previsioni positive.

La distensione economica è ancora lontana. Ma l’Asia dei “tre” - con Giappone, Cina e Corea del Sud - si appresta ad avere un ruolo sempre più importante in un’epoca tormentata da conflitti ed incertezze di natura, appunto, geoeconomica[3]. E in tal senso l’obiettivo annunciato al vertice di Fukuoka consiste nel dare il via ad una mutazione fondamentale che influenzi e stravolga la struttura del sistema internazionale. Come si vede le tigri asiatiche[4] stanno lasciando, a poco a poco, i recinti del loro zoo[5].


NOTE

[1] Nell’ultimo quarto di secolo, negli ultimi 25 anni, la quota dell’Asia orientale e meridionale nel Prodotto Interno Lordo (PIL) mondiale, a parità di potere d’acquisto, è quasi triplicata, passando dal 12% circa del PIL mondiale nel 1980 al 34% circa del PIL mondiale di oggi. Nello stesso arco di tempo, anche il PIL mondiale ha pressoché triplicato il suo valore (16.059 miliardi di dollari nel 1973, 33.725 miliardi nel 1998, 44.645 miliardi nel 2005). Supponendo che questa tendenza persista nel tempo (supponendo una crescita lineare) ed escludendo l’ipotesi di shock endogeni (crollo dello Stato cinese) o esogeni (una guerra generale, o una guerra regionale con effetti sufficientemente drammatici e catastrofici da rimettere in discussione queste dinamiche) dalle conseguenze sistemiche, l’Asia nel suo insieme potrebbe rappresentare il 40% del PIL mondiale nel 2020 e più del 50% del PIL mondiale nel 2050. Ed è sottinteso che anche la ricchezza globale sarà raddoppiata entro il 2050.

[2] Sulla scia del Giappone – precursore negli anni Sessanta e Settanta, unico paese non occidentale ad essersi appropriato della rivoluzione industriale già nel XIX secolo – i nuovi paesi industrializzati dell’Asia nord orientale (Corea del Sud e Taiwan) e i paesi emergenti del Sud Est asiatico (Singapore, Tailandia, Malesia, Indonesia, ecc.) sono riusciti ad uscire dal "terzo mondo" e, in meno di due generazioni, sono stati raggiunti o stanno per essere raggiunti, successivamente, dalla Cina e dall’India. La Cina e l’India – spazi continentali, immensi spazi demografici – conoscono a loro volta, rispettivamente dagli anni Ottanta e Novanta, una dinamica d’espansione e modernizzazione eccezionale per intensità e durata nel tempo.

[3] Tra gli effetti della mutazione asiatica sull’economia internazionale conviene citare la ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro; la nuova distribuzione territoriale globale dei fattori di produzione, delle manifatture e dei servizi; la deflazione mondiale dei prezzi dei prodotti manifatturieri (su una gamma sempre più vasta di prodotti, che si estende dal tessile agli elettrodomestici ed alla telefonia); la riorganizzazione e la ristrutturazione del capitalismo mondiale – la cosiddetta "globalizzazione". Inoltre, l’ascesa dell’Asia comporta la deindustrializzazione parziale o totale, in Occidente, di settori produttivi come il tessile; un impatto non trascurabile e spesso deleterio sugli equilibri tra capitale e lavoro, a detrimento del lavoro, nei paesi occidentali avanzati; un’alterazione globale dei prezzi delle materie prime, in particolare degli idrocarburi e soprattutto del petrolio; asimmetrie finanziarie internazionali sempre più marcate (il deficit americano, il surplus cinese).

[4] Se si decompone il quadro generale dell’insieme asiatico in termini di specificità nazionali, l’analisi fa emergere lo scenario seguente: il PIL attuale dei tre paesi altamente industrializzati e tecnologicamente intensivi dell’Asia nord orientale - Giappone, Taiwan, Corea del Sud – costituisce il 9,3% del PIL mondiale; quello dei paesi capitalisti del Sud Est asiatico il 3,5%; quello dell’India il 6% e quello della Cina il 14%. Ora, nel 2020 l’economia cinese potrebbe rappresentare circa un quarto del PIL mondiale e l’economia indiana potrebbe rappresentarne circa il 9%, mentre la quota del Giappone dovrebbe mantenersi attorno al 6%.

[5] In conclusione, la mutazione asiatica attualmente in corso nell’ambito della globalizzazione induce uno spostamento del centro, un processo di decentramento e ricentramento grazie al quale la Cina e l’Asia nel suo insieme stanno diventando un cuore del mondo. Benché queste dinamiche non siano destinate a produrre la scomparsa dell’Occidente – né degli Stati Uniti né dell’Europa -, il processo di decentramento e ricentramento in atto costituisce un fenomeno storico di prima importanza e di eccezionale ampiezza.

mercoledì 17 dicembre 2008

Nelle mani della malavita

di Vincenzo Mulè

su Left del 28/11/2008

È boom di bambini stranieri in Italia. L’ 83,6 per cento tra quelli giunti non accompagnati è senza permesso di soggiorno. Provengono da Albania, Marocco e Romania per finire nelle maglie delle organizzazioni criminali

«La sempre più marcata presenza straniera è la vera e più macroscopica dinamica di mutamento nello scenario, altrimenti piuttosto statico, della società italiana». Inizia così il dossier Accoglienza e integrazione dei minori stranieri curato dal Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. Nello studio viene sottolineato come siano proprio i minori la componente in più rapida crescita all’interno dell’incremento della popolazione straniera.

Nel nostro Paese la popolazione minorile è passata dalle 128mila unità del 2001 alle 765.481 conteggiate al gennaio del 2008. Secondo gli ultimi rilevamenti, è minorenne uno straniero ogni cinque soggetti che risultano regolarmente iscritti all’anagrafe. Accanto, però, a situazioni molto vicine alla normalità e all’ufficialità, si fa sempre più crescente il peso in questo quadro dei minori stranieri non accompagnati. Al 31 dicembre 2007 risultano segnalati in Italia 7.548 minori stranieri non accompagnati, tre quarti dei quali sprovvisti di un qualunque documento di riconoscimento. Nella sola Sicilia, in soli quattro mesi un terzo dei minori collocati in comunità è scappato. Di loro, ben presto si perdono le tracce. Secondo quanto reso noto dal Comitato per i minori stranieri, l’83,6 per cento dei minori stranieri non accompagnati che giungono in Italia sono senza permesso di soggiorno. Di questi, il 75 per cento provengono da Albania, Marocco e soprattutto Romania. Quest’ultimo Paese, tra l’altro, vive una situazione particolarmente delicata seguita alla chiusura di numerosi istituti e orfanotrofi in cui i ragazzi romeni privi di famiglia venivano accolti.

Le autorità rumene non erano pronte a questo provvedimento, non essendo state predisposte strutture di accoglienza alternative, lasciando questi ragazzi, la maggior parte dei quali provenienti da situazioni di degrado, soli e allo sbando. Molti di loro sono poi divenuti facile oggetto di sfruttamento e reclutamento da parte della malavita. Lo confermano i dati raccolti nei centri di prima accoglienza e negli istituti penali minorili, soprattutto del nord e centro Italia. Proprio con la Romania, che fa registrare tra l’altro il tasso di crescita più alto in fatto di ingressi, l’Italia ha firmato lo scorso giugno un accordo sulla cooperazione per la protezione dei minori romeni non accompagnati che si trovino sul territorio italiano. Un accordo che più di una volta ha fortemente vacillato sotto i colpi della realtà. Di Gratian Gruia, il bambino romeno rimpatriato lo scorso 27 ottobre per disposizione del Tribunale dei minori di Roma, abbiamo già raccontato.

I lettori più attenti ricorderanno la sua vicenda: abbandonato dalla madre e seviziato dal papà e dalla nonna che lo aveva costretto a mendicare per le strade di Roma e poi affidato subito a una casa famiglia. Nel corso del giudizio aperto su richiesta del pm per la declaratoria dello stato di abbandono, la Romania ha chiesto la sua riconsegna, ottenuta l’8 luglio 2008, quando il Tribunale dei Minori ha disposto la consegna del minore alle autorità rumene. La decisione del tribunale e le modalità del rientro - Gratian è stata affidato di nuovo alla nonna, nel frattempo tornata in Romania - hanno fatto alzare più di una voce di protesta, compresa quella del ministro degli Esteri Frattini. Tanto che la commissione per l’infanzia presieduta da Alessandra Mussolini ha fissato al prossimo 16 dicembre una missione in Romania, nel villaggio Sopotul Vechi nella regione del Caras Severin, dove si trova la casa famiglia che ospita il bambino.

Il caso Grutia è «irripetibile» secondo il prefetto Mario Ciclosi, direttore centrale immigrazione e asilo presso il ministero dell’Interno, il quale ha sottolineato come la vicenda del minore si sia svolta attraverso canali esterni all’organismo centrale di raccordo costituito da Italia e Romania per la regolamentazione dei rientri. «L’accordo dello scorso giugno è stato aggiornato a metà novembre - continua il prefetto - e ora è tutto più chiaro. Niente si svolgerà più fuori dalle procedure condivise. Stiamo lavorando duramente - ha concluso Ciclosi - ma sia chiaro che i prossimi saranno rientri strettamente monitorati, per almeno due anni». In questo contesto, emergerebbe un ulteriore elemento di potenziale attrito tra i due Paesi: la Romania, infatti, sarebbe intenzionata a chiedere il rimpatrio solo di bambini molto piccoli, ignorando quasi le altre fasce d’età. «Uno strano comportamento - sottolinea Elisabetta Zamparutti - se si considera la situazione dell’infanzia rumena».

In una lettera indirizzata ad Alessandra Mussolini, presidente della commissione per l’infanzia, la deputata radicale eletta nelle liste del Pd citando fonti non governative sottolinea come nel Paese vivano 72mila bambini abbandonati, la maggior parte dei quali malati di aids. «Dalle fonti ufficiali - continua Zamparutti - vi è il dato che vi sono state nell’anno in corso 2576 attestati di abilità all’adozione e 1294 poi adottati all’interno dello stesso Paese». In Romania, infatti, le adozioni e gli affidi internazionali sono bloccati dal 2001. Osservazioni rispedite al mittente da parte delle autorità rumene, che anzi denunciano la politica di assistenza dei minori stranieri non accompagnati da parte del nostro Paese. «Siamo in attesa di altri 3mila minori di ritorno dall’Italia», fanno sapere da Bucarest. Una cifra ritenuta eccessiva da più parti ma che, se confermata, svelerebbe un quadro molto più drammatico di quanto emerso finora.

I giganti asiatici si uniscono per rispondere alla crisi economica

di Martino Mazzonis

su Liberazione del 14/12/2008

Gli ex nemici Cina, Corea e Giappone: «Più scambi monetari e un piano di stimolo nei prossimi mesi»

Non hanno perso tempo gli asiatici. C'è la crisi e bisogna mettersi d'accordo. Anche tra nemici giurati per storia tradizione come Giappone, Corea del Sud e Cina. In un summit tripartito tenutosi ieri, i tre Paesi hanno «avviato una nuova era nella partnership tripartita che produrrà pace e sviluppo sostenibile nella regione». Per questo, i Paesi svilupperanno più «una cooperazione negli anni a venire, costruendola sui progressi da fare passo dopo passo». Nel primo summit a Fukuoka, in Giappone, il premier giapponese Taro Aso, quello cinese, Wen Jiabao, e il presidente sudcoreano Lee Myung-Bak, ritengono che le rispettive economie siano «dinamiche, resistenti e strettamente correlate tra di loro. Noi - si legge nella dichiarazione - rimarchiamo le visioni e le responsabilità per la creazione di un futuro pacifico, prosperoso e sostenibile sia per la regione dell'estremo Oriente sia della comunità internazionale». Assieme per ritagliarsi uno spazio internazionale. Anche questa è una novità interessante: i Paesi asiatici tendono ad avere un'agenda diplomatica ristretta e molto legata ai loro interessi. In vicende come quella del nucleare coreano hanno però giocato un ruolo cruciale. E sentono di avere diritto e dovere di cominciare a fare qualche passo in più nei luoghi che contano della diplomazia. Lo stesso G20 immediatamente convocato all'esplodere della crisi finanziaria è un segnale in questo senso.
I leader convengono sulla opportunità di cooperare sulla base dei principi «di apertura, trasparenza, reciproca fiducia e comune interesse e rispetto per le nostre diverse culture». Si tratta di parole molto importanti: nei mesi passati Cina e Giappone avevano litigato sulla storia e su qualche isoletta nel mare che divide i due Paesi; tensione c'era stata anche tra Seoul e Tokyo sempre per ragioni legate ai crimini di guerra commessi dai giapponesi durante i conflitti del primo 900. Quanto alle relazioni tra Cina e Corea, il riavvicinamento è un altro pezzo di storia del XX secolo che se ne va.
A Fukuoka si è discusso anche di come affrontare le sfide «nei mercati globali finanziari ed economici». A tale proposito, «siamo determinati a definire una solida cooperazione di carattere politico, economico, sociale».
I tre Paesi decidono di coordinare gli sforzi annunciando un pacchetto di stimolo regionale e prevedendo l'aumento degli scambi di valuta - che significa connettere di più i sistemi finanziari tra loro. Ne hanno bisogno. L'export e l'import cinese hanno conosciuto una flessione per la prima volta in sette anni e l'economia giapponese, che ha conosciuto una crisi feroce negli anni 90, non gira come dovrebbe.

sabato 6 dicembre 2008

La Cina e le guerre del Congo: AFRICOM, il nuovo Comando militare degli Stati Uniti

La Cina e le guerre del Congo: AFRICOM, il nuovo Comando militare degli Stati Uniti

Di F. William Engdahl. Da www.minumir.altervista.it, 30 novembre 2008

A poche settimane dalla costituzione formale, con la firma del Presidente George W. Bush, di un nuovo comando militare dedicato all'Africa, AFRICOM, gli sviluppi recentemente emersi nel continente ricco di risorse suggeriscono che il Presidente di origini keniote Obama dovrà impegnare le risorse statunitensi, militari e non, occupandosi della Repubblica del Congo, del Golfo di Guinea ricco di petrolio, del Darfur (anch'esso ricco di petrolio) nel Sudan meridionale e del crescente “pericolo pirati” che minaccia le rotte marittime nel Mar Rosso e nell'Oceano Indiano. È legittimo chiedersi se il fatto che l'Africa stia proprio ora diventando un nuovo “punto caldo” geopolitico sia una semplice coincidenza o se vi sia un collegamento diretto con l'ufficializzazione di AFRICOM.

Ciò che più colpisce è la tempistica. Mentre AFRICOM diventava operativo, nell'Oceano Indiano e nel Golfo di Aden si verificavano incidenti spettacolari provocati dalla cosiddetta pirateria somala, mentre nella provincia di Kivu, nella Repubblica del Congo, scoppiava un nuovo sanguinario conflitto. Ciò che accomuna questi fatti è la loro rilevanza, insieme al Darfur nel Sudan meridionale, per il futuro flusso di materie prime verso la Cina.

Il conflitto più recente nella parte orientale del Congo (DRC) è scoppiato alla fine di agosto quando i miliziani tutsi appartenenti al Congrès National pour la Défense du Peuple (CNDP, Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo) del Generale Laurent Nkunda hanno costretto le truppe lealiste delle Forces armées de la République démocratique du Congo (FARDC, Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo) a ritirarsi dalle loro posizioni nei pressi del Lago Kivu mettendo in fuga centinaia di migliaia di civili, tanto che il Ministro degli Esterni francese, Bernard Kouchner, ha avvisato del rischio imminente di “enormi massacri”.

Nkunda, come il suo mentore, il dittatore ruandese appoggiato da Washington, Paul Kagame, è un tutsi che afferma di proteggere la minoranza tutsi da ciò che resta dell'esercito hutu del Ruanda, fuggito in Congo dopo il genocidio ruandese del 1994. I peacekeeper della missione MONUC delle Nazioni Unite non hanno riferito di simili atrocità commesse contro la minoranza tutsi nella regione nordorientale di Kivu. Secondo fonti congolesi gli attacchi contro tutti i gruppi etnici sono all'ordine del giorno nella regione. Le truppe di Laurent Nkunda sono responsabili della maggior parte di questi attacchi, sostengono.

Strane dimissioni
Un ulteriore passo verso il caos politico in Congo è stato fatto a settembre, quando l'83enne Primo Ministro della Repubblica Democratica del Congo, Antoine Gizenga, si è dimesso dopo due anni alla guida del governo. Alla fine di ottobre, con una scelta dei tempi sospetta, il comandante dell'operazione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Congo (MONUC, Missione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite in Congo), il Tenente Generale spagnolo Vicente Diaz de Villegas, si è dimesso dopo meno di due mesi citando una “mancanza di fiducia” nella leadership del Presidente Joseph Kabila. Kabila, il primo Presidente democraticamente eletto del Congo, è stato anche coinvolto nella negoziazione di un accordo commerciale da 9 miliardi di dollari tra la DRC e la Cina, cosa di cui Washington non può ovviamente rallegrarsi.

Nkunda è un vecchio seguace del Presidente ruandese, Kagame, spalleggiato dagli Stati Uniti. Tutti gli indizi fanno pensare a un pesante benché segreto ruolo della CIA nelle ultime uccisioni perpetrate in Congo dagli uomini di Nkunda. Lo stesso Nkunda è un ex ufficiale dell'esercito congolese, insegnante e pastore della Chiesa Avventista del Settimo Giorno. Ma sembra che uccidere sia la cosa che gli riesce meglio.

Buona parte dei soldati di Nkunda, bene equipaggiati e relativamente disciplinati, viene dal vicino Ruanda, e il resto è stato reclutato dalla minoranza tutsi della provincia congolese di Nord Kivu. Il sostegno materiale, politico e finanziario a questo esercito congolese ribelle viene dal Ruanda. Secondo l'American Spectator, “Il Presidente Paul Kagame del Ruanda è un vecchio sostenitore di Nkunda, che era un ufficiale dei servizi all'epoca del rovesciamento a opera del leader ruandese del dispotico governo hutu nel suo paese”.

Come ha riferito il 30 ottobre l'agenzia di informazione congolese, “Alcuni hanno accettato il pretesto di una minoranza tutsi in pericolo in Congo. Non si manca mai di affermare che Laurent Nkunda starebbe combattendo per proteggere 'il suo popolo'. Ma non ci si è chiesti quali siano i suoi veri fini, che consistono nell'occupare la provincia di Nord Kivu, ricchissima di minerali, saccheggiare le sue risorse, e combattere nel Congo orientale per conto del governo ruandese a guida tutsi di Kigali. Kagame vuole un punto d'appoggio nel Congo orientale così che il suo paese possa continuare a beneficiare dei saccheggi e dell'esportazione di minerali come la columbite-tantalite (coltan). Molti esperti oggi concordano sul fatto che le risorse sono il vero motivo per cui Laurent Nkunda continua a creare caos nella regione con l'aiuto di Paul Kagame”.

Il ruolo degli Stati Uniti e AFRICOM
Secondo prove presentate in un tribunale francese e rese pubbliche nel 2006, Kagame organizzò l'abbattimento dell'aereo su cui volava il Presidente hutu del Ruanda, Juvénal Habyarimana, nell'aprile del 1994, fatto che scatenò l'uccisione indiscriminata di centinaia di migliaia di hutu e tutsi.

Il risultato finale dell'eccidio, nel quale morì forse un milione di africani, fu che Paul Kagame – spietato dittatore addestrato alla scuola militare di Fort Leavenworth, nel Kansas, e spalleggiato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito – si ritrovò saldamente al potere come dittatore del Ruanda. Da allora ha sempre segretamente appoggiato le ripetute incursioni militari del generale Nkunda nella ricca regione di Kivu con il pretesto di difendere una piccola minoranza tutsi. Kagame aveva più volte respinto i tentativi di rimpatriare quei profughi tutsi in Ruanda, temendo evidentemente di poter perdere un prezioso pretesto per occupare il ricco Kivu.

Almeno fin dal 2001, secondo fonti congolesi, l'esercito statunitense ha una base a Cyangugu, in Ruanda, naturalmente costruita dalla vecchia compagnia di Dick Cheney, la Halliburton, e comodamente vicina al confine con la regione di Kivu.

Il massacro di civili hutu e tutsi del 1994 fu, come l'ha descritta il ricercatore canadese Michel Chossudovsky, “una guerra non dichiarata tra la Francia e l'America. Sostenendo il rafforzamento degli eserciti ugandese e ruandese e intervenendo direttamente nella guerra civile congolese, Washington ha anche la responsabilità diretta dei massacri etnici commessi nel Congo orientale, comprese le centinaia di migliaia di persone morte nei campi profughi”. Aggiunge Chossudovsky: “Il Generale Maggiore Paul Kagame era uno strumento di Washington. La morte di tanti africani non aveva importanza. La guerra civile in Ruanda e i massacri etnici erano parte integrante della politica estera statunitense, attentamente orchestrati in conformità con precisi obiettivi strategici ed economici”.

Adesso l'ex ufficiale dei servizi di Kagame, Nkunda, guida le sue ben equipaggiate truppe su Goma nel Congo orientale secondo un piano che sembra essere quello di staccare la regione ricca di risorse da Kinshasha. Con l'esercito degli Stati Uniti che a partire dal 2007 ha preso a rafforzare la propria presenza in Africa con AFRICOM, sembra essere tutto pronto per l'attuale sottrazione di risorse da parte di Kagame e del suo ex ufficiale, Nkunda.

Oggi il bersaglio è la Cina
Se il bersaglio segreto della “guerra surrogata” degli Stati Uniti nel 1994 era la Francia, oggi quel bersaglio è chiaramente la Cina, vera minaccia al controllo statunitense delle ricchezze minerarie dell'Africa Centrale.

La Repubblica Democratica del Congo è stata così rinominata nel 1997, dopo che l'esercito di Laurent Désiré Kabila ha messo fine al regno di Mobutu, durato 32 anni. Prima di allora si chiamava Repubblica dello Zaire. Gli abitanti chiamano il loro paese Congo-Kinshasa.

La regione congolese di Kivu è sede geologica di minerali tra i più strategici al mondo. Il confine orientale, tra il Ruanda e l'Uganda, corre lungo il bordo orientale della Rift Valley, che i geologi considerano una delle zone più ricche di minerali sulla faccia della terra.

La Repubblica Democratica del Congo contiene più della metà del cobalto mondiale. Ha un terzo dei suoi diamanti, e, cosa estremamente significativa, tre quarti delle risorse mondiali di columbite-tantalite o “coltan”, componente primario dei microchip e dei circuiti stampati, essenziale per i telefoni cellulari, i portatili e altri moderni dispositivi elettronici.

L'America Minerals Fields, compagnia pesantemente coinvolta nell'ascesa al potere di Laurent Kabila nel 1996, all'epoca della guerra civile in Congo aveva il proprio quartier generale a Hope, Arkansas. I principali azionisti comprendevano vecchie conoscenze dell'ex Presidente Clinton che risalivano ai tempi in cui era Governatore dell'Arkansas. Alcuni mesi prima della caduta del dittatore dello Zaire sostenuto dai francesi, Mobutu, Laurent Desire Kabila si stabilì a Goma, nello Zaire orientale, e rinegoziò i contratti minerari con diverse compagnie statunitensi e britanniche, compresa l'American Mineral Fields. Il governo corrotto di Mobutu fu rovesciato con la forza e con l'aiuto del Fondo Monetario Internazionale sotto la direzione degli Stati Uniti.

Washington non era del tutto soddisfatta di Laurent Kabila, che finì assassinato nel 2001. In uno studio pubblicato nell'aprile del 1997, appena un mese prima che il Presidente Mobutu Sese Seko fuggisse dal paese, il Fondo Monetario Internazionale aveva raccomandato di “interrompere completamente e bruscamente l'emissione monetaria” nell'ambito di un programma di risanamento economico. Pochi mesi dopo aver assunto il potere a Kinshasa, il nuovo governo di Laurent Kabila Desire ricevette dall'FMI l'ordine di congelare gli stipendi dei funzionari statali per “ripristinare la stabilità macroeconomica”. Eroso dall'iperinflazione, il salario mensile medio nel settore pubblico era crollato a 30.000 nuovi Zaire (NZ), l'equivalente di un dollaro statunitense.

Secondo Chossudovsky le imposizioni dell'FMI equivalevano a mantenere l'intera popolazione in uno stato di disperata povertà. Preclusero fin dall'inizio una significativa ricostruzione economica postbellica, contribuendo dunque alla continuazione della guerra civile congolese che ha portato alla morte di quasi 2 milioni di persone.

A Laurent Kabila successe il figlio, Joseph Kabila, che divenne il primo Presidente democraticamente eletto del Congo e sembra avere avuto maggiormente a cuore il benessere dei suoi connazionali.

E adesso arriva l'AFRICOM. In un discorso all'International Peace Operations Association (Associazione per le Operazioni di Pace Internazionali) tenuto a Washington il 27 ottobre, il Comandante di AFRICOM Generale Kip Ward ha così definito la missione del comando: “di concerto con altri organi governativi degli Stati Uniti e con i partner internazionali, [condurre] prolungati impegni per la sicurezza attraverso programmi di cooperazione militare, attività sponsorizzate dall'esercito e altre operazioni militari dirette a promuovere un ambiente africano stabile e sicuro a sostegno della politica estera statunitense”.

Le “operazioni militari dirette a promuovere un ambiente africano stabile e sicuro a sostegno della politica estera statunitense”, oggi, sono chiaramente pensate per bloccare la crescente presenza economica della Cina nella regione.

Di fatto, come dichiarano apertamente diverse fonti di Washington, l'AFRICOM è stato creato per contrastare la crescente presenza della Cina in Africa, compresa la Repubblica Democratica del Congo, dove si assicura contratti economici a lungo termine per le materie prime africane in cambio degli aiuti cinesi e di accordi di production sharing [ripartizione della produzione, N.d.T.] e royalties. Secondo fonti bene informate, i cinesi sono stati molto più furbi. Invece di offrire l'austerità e il caos economico imposti dall'FMI, la Cina sta offrendo consistenti crediti e prestiti a tassi agevolati per la costruzione di strade e scuole così da instaurare buoni rapporti con i paesi interessati.

Il dottor J. Peter Pham, un importante insider di Washington che lavora come consulente per i Dipartimenti di Stato e della Difesa degli Stati Uniti, dice francamente che tra gli scopi del nuovo AFRICOM c'è quello di “proteggere l'accesso agli idrocarburi e ad altre risorse strategiche che l'Africa possiede in grande abbondanza... compito che prevede la salvaguardia dalla vulnerabilità di quelle ricchezze naturali e far sì che terze parti come la Cina, l'India, il Giappone o la Russia non ottengano monopoli o trattamenti preferenziali”.

Nella sua testimonianza al Congresso a favore della creazione di AFRICOM, nel 2007, Pham, che è strettamente legato alla neo-conservatrice Foundation for Defense of Democracies (Fondazione per la Difesa delle Democrazie), ha dichiarato:

“Questa ricchezza naturale rende l'Africa un obiettivo invitante per la Repubblica Popolare Cinese, la cui economia dinamica, che ha registrato una crescita media annua del 9% negli ultimi vent'anni, ha una sete quasi insaziabile di petrolio e una necessità di altre risorse naturali per sostenerla. La Cina sta attualmente importando circa 2,6 milioni di barili di greggio al giorno, circa la metà del suo consumo; più di 765.000 di quei barili – all'incirca un terzo delle sue importazioni – vengono da fonti africane, soprattutto il Sudan, l'Angola e il Congo (Brazzaville). Non ci si meraviglia dunque che... forse nessun'altra regione possa competere con l'Africa agli occhi di Pechino e dei suoi interessi strategici a lungo termine. Lo scorso anno il regime cinese ha pubblicato il primo libro bianco ufficiale in cui si elaboravano le linee guida della sua politica africana.

Quest'anno prima del suo tour di dodici giorni in otto nazioni africane – il terzo viaggio di questo tipo da quando ha assunto l'incarico, nel 2003 – il Presidente cinese Hu Jintao ha annunciato un programma triennale da 3 miliardi di dollari in prestiti preferenziali e vasti aiuti per l'Africa. Questi stanziamenti si aggiungono ai 3 miliardi in prestiti e i 2 miliardi in crediti all'esportazione annunciati da Hu nell'ottobre del 2006 all'apertura dello storico summit di Pechino del Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC) che ha portato nella capitale cinese quasi cinquanta capi di stato e ministri africani.

Intenzionalmente o no, molti analisti si aspettano che l'Africa – soprattutto gli stati della costa occidentale, ricca di petrolio – diventi sempre più un teatro di competizione strategica tra gli Stati Uniti e il loro unico vero concorrente quasi alla pari sulla scena mondiale, la Cina, dato che entrambi i paesi cercando di estendere la loro influenza e assicurarsi l'accesso alle risorse”.

Cosa degna di nota, alla fine di ottobre le ben armate truppe di Nkunda hanno circondato Goma nel Nord Kivu e chiesto che il Presidente del Congo Joseph Kabila negoziasse con lui. Tra le richieste di Nkunda c'era la cancellazione di una joint venture Congo-Cina da 9 miliardi di dollari in base alla quale la Cina ottiene i diritti sulle estese risorse di rame e cobalto della regione in cambio di 6 miliardi per la costruzione di strade, due dighe idroelettriche, ospedali, scuole e collegamenti ferroviari con l'Africa meridionale, con la provincia di Katanga e con il porto di Matadi sull'Atlantico. I restanti 3 miliardi saranno investiti dalla Cina nello sviluppo di nuove aree minerarie.

Curiosamente gli Stati Uniti e la maggioranza dei media europei tralasciano questo piccolo dettaglio. Sembra che il compito di AFRICOM sia quello di opporsi alla Cina in Africa. La cartina al tornasole sarà rappresentata dalla persona del Presidente Obama in Africa e il suo eventuale tentativo di indebolire il Presidente del Congo Joseph Kabila sostenendo le squadre della morte di Nkunda, naturalmente nel nome del “ristabilimento della democrazia”.

giovedì 20 novembre 2008

China and Peru agree on free trade

Hu Jintao, China's president, is in Peru ahead of the annual summit of Apec nations [EPA]

The presidents of Peru and China have reached agreement on a free-trade pact - the latest in a raft of deals China hopes will secure access to much-need raw materials for its manufacturing industries.

Alan Garcia, Peru's president, announced the successful conclusion of the talks on Wednesday after meeting his Chinese counterpart, Hu Jintao, in the capital, Lima.

Ten bilateral accords signed between the two countries on Wednesday from health to technology would facilitate the pending trade agreement, Garcia said.

"We are sure this will generate lots of development for Peru and China," he told reporters.

China's president is in Peru for a two-day visit ahead of the Asia Pacific Economic Co-operation forum (Apec) summit there this weekend, where leaders from 21 economies are expected to discuss possible fixes for the world economic slowdown.

The free-trade deal, which could be signed as early as March after final details are worked out, would be China's second such agreement with a resource-rich country in Latin America, whose exports it needs to fuel its ambitious growth plans.

China and Chile signed a free-trade agreement three years ago and Hu also visited Costa Rica and Cuba this week to seek further co-operation on trade in those countries.

China is the second-largest market for Peruvian exports after the US and is rapidly expanding its trade ties across the region.

Peru ships mostly copper, iron ore and zinc to the Asian giant, while China exports cell phones and machinery to Peru.

20th November

http://english.aljazeera.net/news/americas/2008/11/2008112042120216605.html

Nichel cubano peri cinesi Hu Jintao all'Avana

Il presidente cinese incontra Fidel e Raul Castro: accordi commerciali e una pioggia di nuovi contratti milionari

Il presidente cinese Hu Jintao in viaggio d'affari all'Avana. Ha portato parecchi soldi, ha incontrato Fidel e Raul Castro, che molto più del fratello è incline all'importazione rivista e corretta del modello cinese sull'isola. In sintesi: introdurre caute aperture economiche, lasciar perdere le libertà politiche. La Cina è il secondo socio commerciale dell'Avana dopo il Venezuela. In quattro anni, secondo i dati ufficiali, gli affari con Pechino si sono moltiplicati per cinque: 2600 milioni di dollari.
I soldi anche questa volta sono stati tanti. Quattro milioni e mezzo di aiuti vari, otto milioni da investire nei trasporti, investimenti preziosi nelle biotecnologie, ma soprattutto crediti: 70 milioni di dollari per metter mano alla rete ospedaliera. E poi una pioggia di contratti: soprattutto per l'acquisto di nichel (di cui Cuba è ricca) e zucchero.
Poi ci sono finanziamenti per ricostruire quello che tre uragani quest'anno hanno distrutto, soprattutto case e porti. Il presidente cinese è da tempo l'artefice dell'iniezione di quattrini di Pechino all'Avana. Nel suo viaggio del 2004 il volume d'affari tra i due Paesi non arrivava a 400 milioni di euro l'anno. In poche ore firmò sedici accordi di collaborazione che riguardano nichel, petrolio, biotecnologia e turismo (che continua ad essere, nonostante il drastico calo, una mano santa per le casse del governo cubano). Il nichel cubano interessa molto Pechino, che investe miliardi di dollari nei giacimenti di Camaguey e negli impianti di Holguin da cui vengono fuori 22mila tonnellate di nichel all'anno. A questi impianti servono grosse forniture di carbone alle quali provvede la venezuelana Corpozulia, la cui dirigenza è interamente in mano a militari.
Di interessante, per il business cinese all'Avana, c'è anche il petrolio. Cuba ha greggio. Non tantissimo ma ce l'ha. Si tratta di petrolio pesante, il cosiddetto petrolio sporco, della stessa qualità di quello che la Cina acquista dalla messicana Pemex e dai bacini venezuelani dell'Orinoco.
Ma in prospettiva l'affare potrebbe aumentare. La Repsol nel 2004 annunciò di aver trovato petrolio di buona qualità nelle acque cubane a un chilometro e mezzo di profondità. Fece sapere però che si trattava di riserve troppo scarse che non valevano l'investimento necessario ad avviare un processo di estrazione.
Per continuare le esplorazioni in altre sei zone vicine alla costa cubana la compagnia tentò un'associazione con l'impresa indiana Oil and Natural Gas e con la norvegese Norsk Hydro.
Non è stata la sola. In fila per trattare l'esplorazione di eventuiali giacimenti ci sono la YPF, la Videsh, la Norsk Hydro, la Berhad e la canadese Sherritt. Oltre alla compagnia statale venezuelana Pdvsa che attualmente garantisce forniture a condizioni privilegiate stabilite da un accordo firmato tra Hugo Chavez e Fidel Castro. I dati ufficiali parlano di 98mila barili al giorno.
a.n.

Liberazione 20/11/2008

La destra latinoamericana

I veri motivi del recente viaggio di Álvaro Uribe in Messico, la destra latinoamericana e gli accordi con il Yunque

di Annalisa Melandri, Martedì 18 Novembre 2008, 07:57

La recente visita in Messico del presidente colombiano Álvaro Uribe è stata “altro” da quello che hanno raccontato in questi giorni i quotidiani messicani e latinoamericani.

Formalmente Uribe sembrerebbe essersi recato in Messico per chiedere al suo omologo Felipe Calderón un aiuto per sollecitare agli Stati Uniti lo sblocco del TLC la cui firma è congelata ormai da mesi.

“Tutto quello che potrà dire Calderón alle orecchie delle autorità, dei mezzi di comunicazione e del popolo nordamericano, potrà essere di grande aiuto per la Colombia. Ho chiesto questo aiuto al presidente Calderón” ha spiegato Álvaro Uribe lunedì 10 novembre, nel corso della sua terza e ultima giornata di visita in Messico.

I due presidenti, nel loro incontro hanno discusso inoltre di alcuni aspetti relativi al Trattato di Libero Commercio in vigore tra i due paesi, concordando sul fatto che alcuni settori commerciali esclusi fino a questo momento dagli accordi debbano essere tenuti invece in maggior considerazione.

Uribe ha inoltre espresso “solidarietà” al paese per lo sforzo compiuto dal Governo nella lotta alla criminalità organizzata e al narcotraffico, confermando in una conferenza stampa, che sia la Colombia che il Messico coopereranno maggiormente in tal senso, ma dichiarandosi tuttavia contrario alla depenalizzazione di alcune droghe come invece proposto recentemente dai presidenti dell’Honduras, Manuel Zelaya e dallo stesso Felipe Calderón.

L’incontro con la destra latinoamericana – Il vertice al Centro Fox

Alvaro Uribe y Vicente FoxTuttavia non sono stati soltanto questi i motivi del viaggio di Álvaro Uribe. Infatti, nei giorni immediatamente precedenti la visita ufficiale a Los Pinos, residenza di Felipe Calderón, a San Cristóbal, nello stato di Guanajuato, Álvaro Uribe aveva tenuto un discorso pubblico sul tema della “Sicurezza Democratica” presso il Centro Fox, ambigua struttura creata e diretta dall’ex presidente messicano Vicente Fox, dove si svolgeva il vertice San Cristóbal “Humanismo Eficaz”, organizzato dalla Internacional Demócrata del Centro (IDC). Erano presenti oltre ai rappresentanti dei circa 110 partiti politici di destra e centro destra di 88 paesi diversi che vi fanno parte, il direttore della polizia colombiana e il governatore di Guanajuato, l’ultra conservatore del Yunque, Manuel Oliva.

Era inoltre presente Eduardo Fernández vicepresidente dell’ Organización Demócrata Cristiana de América, (ODCA), organizzazione che come la sua affiliata IDC, riunisce i partiti di tendenza democratico cristiana in America latina, organizzazione più volte accusata di rappresentare le intenzioni golpiste di Washington nella regione e di aver partecipato al colpo di Stato in Cile nel 1973 e in Venezuela nel 2002.

Un precedente presidente dell’ODCA, il politico cattolico Eduardo Fernández, del COPEI (che fa parte dell’IDC) fece da tramite tra la Spagna e il Venezuela nell’organizzazione del golpe contro Chávez. Pochi giorni prima dell’11 aprile 2002 lo troviamo infatti a Madrid e poi a Washington dove partecipò ad una riunione dell’ODCA.

Non poteva mancare quindi all’incontro a Guanajuato, Yon Goicoechea, leader del movimento studentesco venezuelano, insignito al premio Milton Friedman per il suo impegno nel “raggiungimento della libertà nel mondo”. In realtà il premio Friedman, conferito a Goicoechea, che consiste praticamente in 500mila dollari, altro non è stato che uno dei tanti modi che gli Stati Uniti hanno trovato per finanziare in Venezuela l’opposizione interna a Hugo Chávez. Goicoechea ha praticamente denunciato nel suo discorso, che il crimine e il narcotraffico stanno dominando di fatto tutto il suo paese e che il presidente venuezolano Hugo Chávez è completamente incapace a garantire la sicurezza dei suoi concittadini. Ha inoltre denunciato che il paese investe 80 volte più negli armamenti che nella sicurezza interna. “A questo si aggiunge uno scenario di violenza politica nel quale si organizzano da parte dello Stato gruppi armati irregolari per reprimere”, ha aggiunto, in quello che è stato uno degli interventi conclusivi del vertice.

Scontato è stato il suo discorso (se si pensa al premio recentemente ricevuto), e anche paradossale se si i considera che è stato fatto al cospetto dell’”ospite d’onore” Álvaro Uribe che notoriamente è un ottimo intenditore di corruzione, gruppi armati irregolari e narcotraffico.

… e quello con l’estrema destra messicana – El Yunque e il caso Sucumbíos

Numerosi sono stati gli incontri che Uribe ha avuto con vari rappresentanti dell’associazione messicana ultra conservatrice di destra El Yunque.

Oltre al governatore dello Stato di Guanajuato, Manuel Oliva, membro del Yunque, Alvaro Uribe si è incontrato nel corso di un colloquio privato con alcune organizzazioni civili tra le quali Mejor Sociedad, Mejor Gobierno e Consejo Ciudadano para la Seguridad Pública y la Justicia Penal A.C..

E proprio mentre in quei giorni in Messico Uribe veniva dichiarato persona non grata da varie associazioni per la difesa dei diritti umani tra le quali la Limeddh (Lega Messicana per la difesa dei Diritti Umani) e l’Associazione dei genitori e dei familiari delle vittime del massacro di Sucumbíos, vengono rivelati dettagli di un suo colloquio avuto con José Antonio Ortega presidente del Consejo Ciudadano para la Seguridad Pública y la Justicia Penal A.C., nonché dirigente di El Yunque.

Colloquio che Ortega ha richiesto esplicitamente per consegnare personalmente al presidente colombiano copia della denuncia presentata un mese dopo la morte dei quattro ragazzi messicani da lui e dal presidente di Mejor Sociedad, Mejor Gobierno, Guillermo Velazco Arzac, anch’egli vincolato con El Yunque, alla Procura Generale della Repubblica contro Lucía Morett, l’unica sopravvissuta al massacro che attualmente vive in Nicaragua ed altri 15 giovani tra i quali figurano i nomi dei quattro deceduti, per il reato di terrorismo.

Il Yunque, fin dai primi giorni in cui trapelò la notizia che in Ecuador si trovavano ragazzi messicani, cercò con un diffamatoria campagna di denigrazione portata avanti tramite i maggiori mezzi di comunicazione del paese, di accusarli di essere in procinto di progettare “atti di terrorismo” in territorio messicano e li accusò di far parte sia delle FARC che dell’EPR, (Ejército Popular Revolucionario) il maggior movimento armato del paese.

José Antonio Ortega, nel corso del suo colloquio con Álvaro Uribe, ha affrontato infatti il tema della presenza dell’EPR in Messico e non ha perso l’occasione per criminalizzare l’attività politica di Antonio Pavel, un altro sopravvissuto di Sucumbíos, membro della Direzione Collettiva del Comitato Centrale del Partito dei Comunisti, attivista nel recente sciopero dei maestri dello stato di Morelos, segnalando il suo nome al presidente colombiano che ha ringraziato la “società civile” presente all’incontro per la collaborazione e ha chiesto esplicitamente all’ambasciatore colombiano in Messico Luis Camilo Osorio di offrire tutto l’appoggio necessario e di seguire costantemente l’andamento dei procedimenti penali in corso contro i giovani.

Non è un caso che Luis Camilo Osorio sia stato presente all’incontro.

La Limeddh e l’Associazione dei genitori e familiari delle vittime di Sucumbíos da mesi organizzano varie iniziative pubbliche nei pressi dell’ ambasciata colombiana in Messico, dichiarandolo persona non grata nel paese. Ogni primo del mese inoltre, viene consegnato alla rappresentanza diplomatica colombiana un bollettino nel quale vengono affrontati i temi delle violazioni dei diritti umani in Colombia, viene illustrato un profilo dettagliato della figura dello stesso ambasciatore, accusato di aver più volte insabbiato le denunce contro paramilitari e narcotrafficanti e di aver manipolato e sottratto all’azione penale gravi casi di violazioni dei diritti umani quando ricopriva la carica di Fiscal General nel suo paese.

I bollettini inoltre vogliono essere un momento dedicato al riscatto della memoria di Verónica Sorel, Juan Gonzales e Fernando e quindi un ampio spazio è dedicato alla loro vita, ai loro sogni e a quello che erano e che volevano essere.

Ultimamente la senatrice Rosario Ibarra de Piedra ha consegnato alla Procura Generale della Repubblica più di 12mila firme raccolte chiedendo garanzie per la sicurezza e la libertà di Lucía Morett, in vista di un suo possibile ritorno nel paese e il ritiro delle denunce contro gli altri 15 ragazzi, chiedendo inoltre la fine della criminalizzazione della protesta sociale e delle idee.

Probabilmente anche del caso Morett hanno discusso Uribe e Calderón, ma pare quanto mai evidente, che alla luce di questi nuovi avvenimenti, un ritorno a casa in tutta sicurezza della giovane messicana non è al momento auspicabile per lei.

lunedì 17 novembre 2008

Barack Obama è un'alternativa per i lavoratori statunitensi?

Scritto da Shane Jones
A meno di due settimane dalle elezioni presidenziali, Barack Obama sembra ormai avviato alla vittoria sul repubblicano Mc Cain. Molti commentatori parlano di un cambiamento epocale nella politica di Washington. Ma sarà veramente così? In questo articolo i compagni della rivista marxista Socialist Appeal ci forniscono una visione ben diversa da quella che va per la maggiore.

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Dopo anni di guerra aperta da parte di Bush contro i lavoratori, sia dentro sia fuori dagli Stati Uniti, molti nella “sinistra” cercano disperatamente un’alternativa. Per molti, questa alternativa è rappresentata da Barack Obama, un senatore democratico dell’Illinois. Obama, che è molto attento alle sue parole e alle sue azioni, ha fatto finora un buon lavoro nel dipingere se stesso come un “progressista sensibile”. Ad ogni modo, lungi dal rappresentare un’alternativa “progressista”, Obama è fondamentalmente un tipico rappresentante dei partiti politici espressione del padronato. Nonostante si presenti come il candidato del “cambiamento”, Obama è un difensore del capitalismo e dell’imperialismo, e dunque di sfruttamento e oppressione. Su tutte le questioni fondamentali, è molto più vicino a Bush che a rappresentare una vera alternativa per i lavoratori.

Lungi dal cercare la fine dello sfruttamento di classe, Obama ha una fede incrollabile nel sistema capitalista. Come i vari personaggi del tipo di Joe Lieberman, sostenitore di Obama sia politicamente che dal punto di vista finanziario, che Barack considera il suo “mentore”, egli chiarisce che il Partito Democratico è un partito dei padroni: “L’ultima volta che ho parlato con John Kerry confidava nella superiorità dell’esercito americano, Hillary Clinton crede invece nelle virtù del capitalismo…”

Obama arriva perfino a criticare il Partito Democratico da destra: “… i Democratici sono confusi. Ci sono quelli che continuano a farsi paladini di idee di altri tempi, difendendo ogni programma di New Deal e Stato sociale dall’attacco dei Repubblicani, raggiungendo il totale gradimento dai gruppi liberal. Ma questi sforzi sembrano non funzionare più, in un continuo gioco difensivo privo di energia e senza nuove idee, quelle che occorrono per rivolgersi tanto alla società in continuo mutamento della globalizzazione quanto ai sobborghi isolati delle città.”

Obama, che l’anno scorso ha guadagnato poco meno di 1 milione di dollari, è un sostenitore dell’Hamilton Project, un gruppo fondato da Robert Rubin, ex Segretario del Tesoro e attualmente amministratore di Citigroup (l’azienda più grossa del mondo, con un patrimonio totale di oltre 2.000 miliardi di dollari). Da senatore, Obama si oppose a una legge che avrebbe posto un tetto del 30% di interessi sulle carte di credito, fatto che avrebbe dato un po’ di respiro a molte famiglie di lavoratori americani costretti a pagamenti ad alto tasso di interesse. Inoltre votò per una legge di “riforma del sistema sanzionatorio” che limita la possibilità per i lavoratori di poter adire le vie legali e chiedere un indennizzo se subiscono torti dal loro datore di lavoro.

Sulla questione del sistema sanitario, Obama è contrario all’introduzione di un sistema sanitario nazionale pubblico, argomentando che lascerebbe disoccupati i lavoratori delle imprese sanitarie private, come Kaiser e BlueCross BlueShield! Questa è una cortina fumogena della peggiore specie. Cerca di sembrare a favore dei lavoratori, mentre in realtà difende gli interessi del grande capitale contro quelli dei lavoratori. È favorevole a “soluzioni volontarie”, in contrasto con le “imposizioni governative”. Ma come sa ogni lavoratore, i padroni non si offrono mai “volontari” per darci aumenti o vantaggi. Il settore sanitario privato che fa profitti d’oro, non è affatto intenzionato a sacrificare i suoi guadagni. Obama sta semplicemente evitando la questione. Tanto varrebbe dire la verità: non è a favore di alcun cambiamento fondamentale del sistema.

Come tutti i bravi politici amici del grande capitale, quando i capitalisti arrivano con denaro e regalie varie, Obama diventa il loro angelo custode politico. Per esempio, è uno strenuo difensore dell’industria leader nel settore dell’energia nucleare Exelon, che ha contribuito con oltre 74.000 dollari alla sua campagna. Exelon è un’industria associata con ComEd, la compagnia energetica che attualmente sta succhiando sempre più soldi ai cittadini dell’Illinois. I capitalisti del settore agricolo Archer Daniels Midland, stando a quanto è riportato, hanno concesso a Obama l’utilizzo di loro jet privati per la campagna elettorale. Pochi mesi dopo la sua elezione al Senato, Obama ha acquistato prodotti per un valore superiore a 50.000 dollari da AVI BioPharma, un’industria farmaceutica che avrebbe ottenuto benefici da provvedimenti appoggiati dal senatore democratico. George Soros, il noto miliardario e maestro della speculazione finanziaria, sostiene Obama, nonostante abbia detto che avrebbe sostenuto Hillary Clinton, se avesse ottenuto la nomination tra i Democratici. In ciascun caso, si sente tranquillo: i suoi miliardi di dollari saranno al sicuro anche con Obama.

È sulla sua “opposizione” alla guerra in Iraq che Obama ha guadagnato molto appoggio, ed è comprensibile, dal momento che la guerra è vista ogni giorno di più dai lavoratori americani come un completo disastro. Mentre molti sono in cerca di una vera politica di opposizione alla guerra, che cosa intende di preciso Obama quando “parla contro la guerra”? Lungi dall’opporsi al conflitto sulla base che è una guerra contro i lavoratori e i poveri tanto in patria che all’estero, egli avrebbe preferito un attacco all’Iraq meglio rappresentato e pianificato con più attenzione. È a favore di un imperialismo statunitense vittorioso, ma aggiunge un pugno di retorica semi-populista, come negli ultimi tempi hanno fatto tanti esponenti Democratici. Lui è stato semplicemente più veloce di altri a saltare su questo treno.

Obama è in effetti un ardente sostenitore della più ampia “guerra al terrore”. Come dichiarò in un cosiddetto discorso contro la guerra nell’ottobre 2002: “Vuole una guerra, Presidente Bush? Finiamo la guerra contro Bin Laden e Al-Qaeda con un efficace e coordinato sistema di sicurezza, e chiudendo tutte le reti di finanziamento che sostengono il terrorismo, e un programma di sicurezza nazionale che contempli qualcosa in più che un sistema di allarme a colori diversi di allerta.” Obama votò a favore di una nuova autorizzazione per il Patriot Act statunitense, che è stata pesantemente criticato da molti difensori di diritti civili in quanto limita fortemente le libertà civili. È stato contrario a provvedimenti di censura nei confronti di Bush per l’uso illegale di intercettazioni, e votò a favore della nomina di Condoleezza Rice a Segretario di Stato.

Obama ha fatto appello per un “ritiro graduale” delle truppe statunitensi e per l’apertura di un dialogo diplomatico con i paesi confinanti dell’Iraq, Siria e Iran. In altre parole, comprende che il meglio che l’imperialismo nordamericano possa fare è attenuare la portata della sconfitta, dato che la vittoria è ormai impossibile. Come altri esponenti della classe dominante un poco più lungimiranti, il suo obiettivo è quello di conservare la coesione e la disciplina dell’esercito – in modo che possa essere utilizzato in altre avventure imperialiste come in Afghanistan e oltre. Lungi dal proporre un immediato ritiro delle forze di occupazione in Iraq, Obama ha la prospettiva di ulteriori interventi nella regione, con un possibile scenario che veda le forze statunitensi rimanere in un Iraq occupato per un “periodo più lungo di tempo”, col paese che fungerebbe da piattaforma di lancio per le avventure dell’imperialismo. Questo comporterebbe “una ridotta ma attiva presenza nordamericana” che “protegga centri di rifornimento logistico” e “aree controllate dagli USA come la Zona Verde”: questo servirebbe a mandare “un chiaro messaggio alle nazioni ostili, Iran e Siria, rispetto al fatto che noi contiamo di continuare a giocare un ruolo chiave nella regione.” Le truppe statunitensi “che resteranno in Iraq agiranno come forze di reazione rapida alle emergenze e per la caccia ai terroristi.” Più di ogni altra cosa, Obama vuole una “soluzione pragmatica alla vera guerra che stiamo affrontando in Iraq”, e “la sconfitta delle insurrezioni”. Questi, naturalmente, sono due obiettivi tra di loro incompatibili. Le insurrezioni sono la reazione di massa da parte di un popolo che subisce un’occupazione. L’unica soluzione è l’immediato ritiro di tutte le truppe statunitensi e della “coalizione” dall’Iraq.

A marzo, Obama ha definito il governo iraniano “una minaccia per tutti noi … [Gli USA] non dovrebbero scartare alcuna soluzione, compresa l’azione militare, dal novero delle possibilità. Ha aggiunto che gli “strumenti principali” degli USA nel suo rapporto con l’Iran dovrebbero essere “una diplomazia insistita e aggressiva, insieme a dure sanzioni.”

Per farla breve, Obama sta cercando di accontentare tutti: è per la continuazione della guerra per un settore della classe dominante, mentre è contro quando si relazione un altro settore, pur di ottenere demagogicamente i voti dei lavoratori che sono veramente contro la guerra.

Obama, che potrebbe diventare il primo presidente nero degli Stati Uniti, ha cercato di presentare in modo rassicurante la piaga rappresentata dal razzismo negli USA. Il capitalismo americano poggia saldamente sull’oppressione delle minoranze come uno strumento d sfruttamento e divisione della classe lavoratrice. Ma Obama ritiene che alla radice della povertà dei neri siano “questioni culturali” – un argomento abbracciato anche da molti razzisti di destra. Anche uno sguardo superficiale alla storia dell’oppressione che i lavoratori neri e le loro comunità hanno dovuto subire mostra che quest’oppressione ha poco a che vedere con “questioni culturali”, ma al contrario è tutta connaturata alla struttura del capitalismo americano.

La brutalità della polizia, il taglio dei finanziamenti alle scuole delle aree disagiate, lo smantellamento dell’edilizia popolare, sono una “questione culturale”? La repressione brutale e la liquidazione di un’intera generazione di dirigenti neri, compresi Martin Luther King jr. e Malcolm X, dovrebbero essere considerati una “questione culturale”? Il fatto che un nero sui vent’anni su tre sia in prigione, fuori su cauzione, sotto processo, ai lavori forzati in comunità o in libertà condizionata, è forse una “questione culturale”? Eppure Obama vede il divario tra neri e bianchi negli Stati Uniti come una questione di buona o cattiva condotta personale. Ha affermato che i neri non possono progredire, “se non iniziamo a instillare nei nostri bambini che non c’è nulla di cui vergognarsi nei risultati di una buona educazione. Io non so chi abbia detto loro che imparare a leggere e scrivere e coniugare i verbi sia qualcosa ‘da bianchi’.”

Certo, ci sono alcuni che criticano Obama in base al colore della sua pelle. Noi rifiutiamo totalmente questo punto di vista razzista. I lavoratori neri negli USA, insieme ai loro fratelli e sorelle di classe di tutte le razze ed etnie, sono coloro funzionare l’economia più progredita del mondo ogni giorno. Non c’è alcuna ragione per cui uomini e donne di colore non debbano giocare un ruolo chiave nel determinare il futuro della società. In ogni caso, per i marxisti, è una questione di quali interessi di classe ciascuno difende. Deve essere chiaro che chiunque voglia combattere seriamente il razzismo deve essere pronto a combattere il capitalismo. Dal momento che è un rappresentante della classe capitalista, Obama non può e non vuole combattere nè l’uno nè l’altro.

A proposito di immigrazione, Obama ha cercato di mettere sullo stesso piano lavoratori e terroristi nel tentativo di militarizzare il confine. Obama ha giocato un ruolo attivo nel tentativo del Senato di aumentare la sicurezza dei confini attraverso nuove leggi sull’immigrazione. A partire dal 2005, egli fu tra i firmatari della “Legge per la Sicurezza dell’America e il Controllo dell’Immigrazion”e, presentata dal Senatore John McCain. Sostenne anche il Testo Unico di Riforma dell’Immigrazione presentato dal Senatore Arlen Specter, che non venne approvato dalla Camera. Nel 2006, Obama sostenne un altro provvedimento inerente questa materia, l’Atto per la Sicurezza dei Confini, che autorizzava la costruzione di 700 miglia di fortificazioni, mura e altre misure di sicurezza lungo il confine tra USA e Messico, per una spesa complessiva di 7 miliardi di dollari. Il Presidente Bush firmò la legge nell’ottobre 2006 definendola “un importante passo in avanti verso la riforma dell’immigrazione.” Il Segretario per la Sicurezza interna Michael Chertoff, di cui Obama approvò la nomina, disse che il provvedimento avrebbe “comportato significativi progressi nell’intento di impedire che terroristi e altri utilizzino i nostri confini”, suggerendo così direttamente che immigranti e terroristi siano la stessa cosa.

Obama è anche un forte sostenitore dei “programmi per i lavoratori ospiti” e ha accolto con grande favore la proposta del Senato dello scorso 18 maggio che includeva misure come la detenzione per un numero fino a 27.500 immigrati al giorno, il reclutamento di 18.000 nuove guardie di confine, e la costruzione di altre 370 miglia di mura di confine.

Bush e la sua cricca sono certamente il settore più estremo dell’ala reazionaria della classe dominante, con piani di conquista imperialista basati sui loro personali interessi economici: petrolio e altri gruppi legati all’energia, armamenti, costruzioni e altre compagnie che traggono benefici dagli interventi militari, come Halliburton. Ma la distinzione tra Bush e Obama non è di principio. Obama, come i più lungimiranti strateghi della classe dominante, cerca soltanto di limitare gli eccessi della cricca di Bush, che minacciano la stabilità degli USA e del capitalismo in generale. In questo senso, Obama al momento rappresenta più fedelmente gli interessi della classe capitalista a questo punto della storia di quanto non faccia Bush. Dunque Obama è davvero un alternativa per i lavoratori? I fatti parlano da soli.

19 settembre 2008

Obama. È vero cambiamento?

Obama nuovo presidente degli Usa
Scritto da Roberto Sarti
giovedì 06 novembre 2008

È vero cambiamento?

Barack Obama è il nuovo presidente degli Stati Uniti. È stato eletto con un’affluenza alle urne record, il 66%, percentuale che non si verificava dal 1960. Ha ottenuto il 52% dei voti: non succedeva dal 1976 per un candidato democratico alla Casa Bianca, nemmeno Bill Clinton infatti era mai riuscito ad ottenere la maggioranza assoluta.

Secondo una prima analisi del voto, Obama prevale tra i giovani, con il 68% dei consensi fra coloro che votavano per la prima volta. Realizza un “cappotto” tra gli elettori neri, con il 96% dei voti, e stravince anche tra gli ispanici: si calcola infatti che due su tre abbiano votato per il senatore di Chicago.

È un dato di fatto: queste elezioni costituiscono uno spartiacque nella politica americana.

Il voto del 4 novembre ha infatti rappresentato tutta la voglia di cambiamento di milioni di americani. Un voto di sfiducia verso gli otto anni di mandato di George Bush, un voto di rifiuto verso le politiche economiche dei repubblicani. Di questo non possiamo che rallegrarci. La Cnn ha reso noto un sondaggio, proprio durante la nottata dello spoglio dei voti, in cui il 93% degli americani riteneva che la situazione economica fosse molto negativa. Recandosi alle urne , tanti giovani e lavoratori americani hanno cercato una via d’uscita dalla crisi che sta gettando sul lastrico milioni di famiglie.

Barack Obama sembra rappresentare questa alternativa ed incarnare perfettamente la figura del “presidente del cambiamento”, anche perché è il primo presidente di origine afroamericana nella storia. Ma è proprio così?

A leggere la stampa di sinistra in Italia (per non parlare di Veltroni e i suoi amici, secondo cui “il mondo cambia” dopo la vittoria di Obama) sembra di sì, anzi quella che viene fuori è un immagine del primo presidente di colore della storia degli Usa con un nuovo messia, il salvatore dell’umanità. “Una nuova speranza” dice il Manifesto. “Forza Obama”, risponde Liberazione.

Come comunisti, crediamo che non possiamo accontentarci del “meno peggio”, o farci guidare solo dalle “emozioni” e dalle “passioni” ma dobbiamo cercare di analizzare il programma di Obama, le forze che lo sostengono ed il contesto politico, economico e sociale nel quale viene eletto. Milioni di persone hanno trovato in Obama quello che desiderano vedere, non per quello che realmente rappresenta. In momenti di grande incertezza per il futuro come questi, le parole “speranza” e “cambiamento” sono di grande richiamo. Ma possiamo credere che basti l’elezione di un presidente nero a sconfiggere “per sempre” il razzismo, come crede il direttore di Liberazione Sansonetti?

Desideri e realtà


Le posizioni politiche di Obama hanno ben poco di progressista.

Partiamo dalle questioni economiche. È sostenuto da tutte le principali multinazionali, ha raccolto infatti oltre 640 milioni di dollari a sostegno della sua campagna elettorale, una cifra record.

Davanti alla crisi devastante che sta colpendo l’economia Usa, ha approvato il piano da 700 miliardi di dollari proposto dall’amministrazione Bush per salvare le banche e gli istituti finanziari. Forse perché fra i suoi principali finanziatori della campagna elettorale ci sono Goldmann Sachs e Jp Morgan?

Rispetto alle scelte energetiche, Obama è un sostenitore del carbone e dell’energia nucleare, per il dispiacere di molti suoi sostenitori fra gli ambientalisti.

Sulle libertà civili, il senatore dell’Illinois ha sostento il Patriot’s Act, la legge voluta da Bush dopo l’undici settembre che limita molte libertà democratiche e concede enormi poteri alle forze dell’ordine. Sull’immigrazione, ha votato per l’introduzione di leggi restrittive sull’entrata di lavoratori da altri paesi (provvedimenti proposti fra gli altri da John McCain) e per la costruzione del muro che divide gli Stati uniti dal Messico.

In politica estera, Obama è un sostenitore della guerra al terrore e vuole aumentare i fondi per le spese militari. Si è schierato contro la guerra in Iraq, ma solo perché è stata condotta male da parte dell’amministrazione Bush. È invece per un aumento della presenza delle truppe Usa in Afghanistan nell’ordine di 10mila unità. È fautore di un aumento dell’influenza degli Stati uniti nell’intera area dell’Asia centrale e non esclude la necessità di invadere l’Iran e, più recentemente, anche il Pakistan. Rispetto all’America latina, ha definito più volte Hugo Chavez come un “dittatore”.

Barack Obama è uno strenuo difensore degli interessi dell’imperialismo Usa, semplicemente vuole perseguirli con altri metodi rispetto a quelli dei repubblicani.

Il partito democratico avrà una solida maggioranza sia alla camera che al senato, questo darà ad Obama un certo margine di manovra. Ciò non potrà dare scuse ai democratici per eventuali, e del tutto probabili, ritardi nell’attuazione delle promesse fatte in campagna elettorale. Le enormi aspettative suscitate da Obama eserciteranno inoltre una grande pressione sul suo governo: la gente pretenderà subito risultati concreti

I sostenitori di “sinistra” di Obama non negano che Barack sia un moderato, ma obiettano che saranno i movimenti sociali a spostarlo a sinistra. Immaginiamo già i brividi di terrore pervadere i militanti di Rifondazione comunista al solo ricordo dell’ultima volta che hanno sentito parlare di “condizionamenti dei governi da parte dei movimenti”!

Il punto è che sia il partito democratico, espressione degli interessi delle grandi multinazionali, sia Obama, un politico borghese al 100% anche se proveniente da una minoranza etnica, non potranno essere permeabili alle istanze dei movimenti.

Obama e la crisi economica


Inevitabilmente le mobilitazioni che cresceranno negli Stati uniti si rivolgeranno ad un certo punto contro lo stesso Obama e contro il Partito democratico. Certo, in un primo periodo le illusioni rispetto al nuovo presidente saranno molto grandi, ma la crisi economica le frantumerà, una dopo l’altra.

Nei primi nove mesi di quest’anno già 750mila persone hanno perso il proprio posto di lavoro. In un anno il tasso di povertà è passato dall’11,3 al 12,5%, mentre fra la classe lavoratrice le famiglie povere sono già il 28% del totale (il Manifesto, 4 novembre 2008).

Obama nel suo discorso di investitura ha fatto appello all’unità nazionale. Ma di quale “unità nazionale” parla? Gli Stati Uniti sono un paese dove la differenza fra ricchi e poveri è scandalosa ed è in costante crescita: il 20% della popolazione detiene l’85% della ricchezza. Obama non vuole cancellare queste disparità, sogna infatti un economia di mercato dove la ricchezza aumenti per tutti, sia per i lavoratori che per i capitalisti (ed a quest’ultimi dovrebbe andare comunque la fetta più grossa della torta).

Ma il boom economico del dopoguerra non può tornare, gli Stati uniti sono oggi il più grande debitore del mondo e non si capisce dove possano trovare i soldi per accrescere la ricchezza dell’americano medio senza intaccare le fortune delle multinazionali.

Nei prossimi mesi le priorità della borghesia Usa saranno ben altre: vogliono scatenare una guerra contro tutti gli oppressi e cercheranno di portarla avanti attraverso il Partito democratico, sfruttando il suo legame storico con la centrale sindacale Afl-Cio per fare accettare i sacrifici alle masse.

In questa campagna elettorale, tuttavia, milioni di persone si sono interessate per la prima volta alla politica, cercando in maniera confusa una soluzione ai propri problemi: alla scuola dei Democratici al potere, i lavoratori Usa impareranno dure lezioni. La necessità di costruire un partito dei lavoratori, alternativo ai due grandi partiti della borghesia, diventerà sempre più imprescindibile.

mercoledì 12 novembre 2008

Barack Obama: un volto nuovo per il vecchio imperialismo

Correo Internacional - pubblicazione del Segretariato della Lit - Quarta Internazionale

Il trionfo del senatore Barack Obama nelle primarie del Partito Democratico è un fatto inedito nella storia degli Usa: per la prima volta, ci sarà un candidato nero alle elezioni presidenziali, in rappresentanza di uno dei due grandi partiti. Non solo: i sondaggi indicano che ha molte possibilità di sconfiggere il suo rivale repubblicano, John McCain.
Il fatto che un giovane politico nero, figlio di un immigrato africano musulmano, possa trasformarsi nel primo presidente nero del Paese era assolutamente impensabile anni addietro e poteva verificarsi solo in qualche telefilm, come 24 ore. È logico, allora, che questo crei una grande eco negli Usa e in tutto il mondo. Ed anche molta confusione che tocca persino, come vedremo in questa edizione di Correo Internacional, alcune correnti di sinistra.
Si tratta di un cambiamento reale, parziale ma importante, del sistema di potere politico della principale potenza imperialista mondiale? O, al contrario, è solo un necessario adattamento formale di questo sistema (un “volto nuovo”) per potere affrontare in migliori condizioni le gravi difficoltà dell’imperialismo statunitense nel mondo e nello stesso Paese?
La Lit afferma chiaramente che si tratta della seconda alternativa. Per dimostrarlo dobbiamo analizzare, da una parte, le caratteristiche centrali del sistema che ha creato una figura come quella di Barack Obama e, dell’altro, le condizioni che hanno reso necessario il suo possibile accesso alla presidenza.


IL SISTEMA BIPARTITICO
Il sistema politico-elettorale statunitense è basato sull’esistenza di due grandi partiti borghesi (repubblicano e democratico) che, secondo le circostanze, si alternano alla presidenza e all’opposizione parlamentare.
Entrambi i partiti presentano differenze politiche e si basano su diverse basi elettorali. I repubblicani esprimono tradizionalmente posizioni più reazionarie e si appoggiano sulla classe media delle medie e piccole città e sulla classe media più agiate delle grandi città. I democratici, da parte loro, esprimono posizioni più “liberali” (nel senso statunitense della parola) e il loro appoggio elettorale viene dai lavoratori e dalla classe media “liberal” delle grandi città, oltre a comprendere tradizionalmente le minoranze (neri e latini) e altri settori discriminati. Per il loro peso storico nelle direzioni sindacali, i democratici hanno svolto sempre il ruolo di ostacolare un’alternativa indipendente della classe operaia sul terreno elettorale. Tuttavia, è necessario aggiungere che, negli ultimi anni, queste differenze politiche sono andate via via sciogliendosi ed esiste oggi una forte destra democratica senza grandi differenze coi repubblicani.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che repubblicani e democratici sono partiti della borghesia imperialista fino al midollo. Ciò che è dimostrato, in primo luogo, dalle favolose quantità di denaro che le grandi imprese stanziano per finanziare entrambi i partiti e i loro candidati. In questo sistema, nessun politico ha possibilità reale di accedere a cariche importanti se non può contare su un forte appoggio finanziario delle imprese in cambio di impegni con questi finanziatori.
In un altro articolo di questa edizione [v. qui sotto] analizzeremo questi dati, dai quali è possibile dedurre a quali settori borghesi è più legato ogni partito: i repubblicani sono appoggiati soprattutto dalle industrie petrolifere, quelle chimiche, automobilistiche, della costruzione e dell’agrobusiness; mentre i democratici sono forti nel settore finanziario-assicurativo-immobiliare, dell’educazione e della salute.
In secondo luogo, la caratterizzazione dei repubblicani e dei democratici come partiti della borghesia imperialista è dimostrata dalla politica che quei partiti applicano quando governano. Molti sono del tutto convinti che i repubblicani siano più guerrafondai e i democratici più pacifisti. La realtà lo smentisce: molti interventi militari e guerre dell’imperialismo statunitense sono state iniziate da presidenti democratici. Per esempio, fu John Kennedy ad intervenire in Vietnam, all’inizio degli anni ‘60, e fu sempre lui a sostenere l’invasione della Baia dei Porci contro Cuba; Harry Truman ordinò di lanciare la bomba atomica ad Hiroshima e Nagasaki, nel 1946; mentre l’attuale guerra in Iraq, per quanto sia stata centrale nella politica di George W. Bush, ha contato sull’appoggio parlamentare democratico. Nel momento di difendere gli interessi imperialisti nel mondo, entrambi i partiti finiscono per unificare la loro politica.


CHI È BARACK OBAMA?
Leggendo la sua biografia, una prima conclusione è che egli quasi non ha subito, o le ha subite in misura molto minore, la discriminazione, la violenza e la mancanza di opportunità che vive quotidianamente la maggioranza dei giovani neri in Usa. Figlio di un keniano emigrato, che dopo sarebbe ritornato nel proprio Paese, e di una statunitense, ha studiato diritto nella Columbia University di New York e nell’esclusiva Harvard Law School, dove si è laureato con menzione magna cum laude. Ha lavorato in uno studio legale e quindi si è trasferito a Chicago dove venne nominato professore nell’Università. In quella città, iniziò a frequentare il Partito democratico e cominciò una rapida carriera politica: nel 1996, venne eletto al senato statale dell’Illinois e, nel 2004, senatore nazionale, in entrambi i casi con l’appoggio di Bill Clinton. Nel 2007, decise di lanciare la sua precandidatura presidenziale nelle primarie democratiche, con l’appoggio dell’influente senatore Edward Kennedy. Il finale lo conosciamo già.
La sua immagine di “ragazzo nero di successo” risulta, evidentemente, molto più simpatica di quella della “saputella” Hillary Clinton o di quella dell’ex militare John McCain. Ma è molto lontano dall'essere un outsider, un elemento marginale che è andato guadagnando peso in una dura lotta contro l’apparato del partito democratico. Al contrario, è un prodotto genuino di quell’apparato, la cui figura è stata costruita per potere essere utile in momenti difficili come questo.
Pensare che una sua possibile presidenza possa rappresentare un cambiamento importante nel contenuto della politica statunitense significherebbe credere che politici imperialisti di provata esperienza, come Edward Kennedy, e imprese come Goldman Sachs, investirebbero il proprio peso politico o i propri dollari per appoggiare qualcuno che sarà, sia pure in parte, loro nemico.


LE SUE POSIZIONI POLITICHE
Ora diamo un’occhiata alle sue posizioni, tenendo conto che, come in altri Paesi, i politici statunitensi mascherano le loro vere posizioni durante le campagne elettorali. Nel caso di nuove figure democratiche, come Obama, suole confermarsi una legge: si situano più a sinistra nelle primarie del partito, si spostano più a destra nella campagna nazionale e completano fino in fondo questa svolta accedendo al governo.

a) Le guerre in Iraq ed Afghanistan
Quando era senatore statale, si oppose all’invasione dell’Iraq, cosa che è stata molto sfruttata nelle sue critiche a Hillary Clinton che invece l’appoggiò. Nel suo sito, ha presentato un Obama’s Iraq plan che propone il ritiro delle truppe statunitensi in 16 mesi, contemporaneamente al rafforzamento della loro presenza in Afghanistan per vincere questa guerra. (1) Tuttavia, il suo consulente di politica estera ha chiarito che quel piano prendeva in considerazione “il migliore scenario possibile” e che “sarà rivisto” quando arriverà alla presidenza. (2)

b) Israele e Medio Oriente
Su questo tema, Obama invece ha parlato con estrema chiarezza a fronte della necessità di guadagnare l’appoggio della “lobby pro-Israele” statunitense, di grande peso politico e finanziario, che lo guardava con sfiducia. In una visita all’Aipac (American Israel Public Affairs Comittee) ha dichiarato che esistono “legami indistruttibili tra Israele e Usa”. Ha aggiunto che “tutti quelli che minacciano Israele ci minacciano” e ha promesso di offrire “tutti i mezzi disponibili per difendersi da tutte le minacce provenienti da Gaza o Teheran”. Ha affermato che “la sicurezza di Israele è sacrosanta. Non è negoziabile” terminando col dire che “Gerusalemme continuerà ad essere capitale di Israele, e deve rimanerlo senza essere divisa”. Dopo il discorso, l’ambasciatore israeliano a Washington ha dichiarato che “il discorso che Barack Obama ha pronunciato davanti ai delegati dell’Aipac è stato molto importante e stimolante”. (3)

c) Le crisi economiche
In un discorso pronunciato nel febbraio scorso, Obama ha affermato che l’attuale recessione che vive il Paese e le conseguenze per il popolo americano non erano dovute “a forze fuori del nostro controllo né agli inevitabili cicli dei commerci” bensì alle politiche sostenute dal governo di Bush. (4) Sapere quali misure vuole applicare è già molto più difficile perché il discorso sviluppa solo le critiche a Bush.
Nella sezione “Economia” della sua pagina web presenta la seguente definizione: “Credo che il libero mercato sia stato il motore del grande progresso dell’America. Ha creato la prosperità che è l’invidia del mondo ed ha portato ad un livello di vita ineguagliato nella storia. (…) Siamo uniti in questo. Dai presidenti delle compagnie fino agli azionisti, dai finanzieri fino ai lavoratori delle fabbriche, tutti abbiamo interesse al successo dell’altro perché quanto più prosperano gli americani, tanto più prospererà l’America”. (5) Niente di molto concreto, ma che cosa ci si può attendere da chi considera che la base di tutto è il “libero mercato” e che i lavoratori delle fabbriche “sono uniti in questo” con gli imprenditori, i finanzieri e gli azionisti?

d) La questione degli immigrati
Obama ha partecipato a Chicago alle massicce mobilitazioni degli immigrati del 1º Maggio del 2006. Nel 2008 ha scritto: “Due anni dopo, il nostro problema dell’immigrazione continua senza soluzione, e quelli che vorranno un cambiamento dovranno votare in favore di questo in novembre. Perciò oggi, io invito quelli che vogliono il cambiamento a lavorare votando nei mesi a venire. Il loro voto è la loro decisione”. (6) In altre parole, non continuare la lotta: la soluzione è votarlo come presidente. È difficile sapere come potranno seguire questo consiglio i 12 milioni di immigrati illegali senza nessun diritto politico.
Nella stessa lettera, le sue proposte sono del tutto vaghe: “Voglio ancora esprimere il mio impegno alla riforma integrale dell’immigrazione e che farò tutto il possibile per portare ordine e pietà in un sistema che oggi è a pezzi”. Tuttavia, è molto probabile che, se vincerà, applicherà la stessa politica proposta dal suo mentore, il senatore Edward Kennedy, nel disegno di legge che porta il suo nome (scritto in accordo col governo di Bush). Una legge che cerca dividere gli immigrati illegali. Da una parte, quelli che riusciranno a dimostrare di aver vissuto negli Usa per più di cinque anni potranno aspirare a ottenere la residenza permanente, dopo un lunghissimo processo di permessi temporanei con condizioni molto difficili da adempiere. “Al tempo stesso, questo significa che gli altri 5 milioni di clandestini saranno, in realtà, sloggiati del Paese, benché possano richiedere un visto legale dai loro Paesi, per potere ritornare negli Usa. Siccome la legge propone in realtà una quota annuale di 325.000 visti provvisori di lavoro, la maggioranza, di fatto, non potrà mai ritornare legalmente”. (7)

e) Su Cuba
Come nel caso di Israele, anche Obama ha cercato appoggi a destra. In questo caso, nella Fondazione Nazionale Cubano-Americana, a Miami, uno dei settori più reazionari della borghesia cubana esiliata negli Usa, dopo la rivoluzione del 1959. Nel suo discorso, ha ripetuto la vecchia formula di alleanza con questa borghesia affinché la colonizzazione statunitense possa tornare sull'isola, oltre a dichiararsi favorevole al mantenimento dell’embargo commerciale: “Ci troviamo qui nel nostro impegno irriducibile per la libertà. Ed è corretto che lo riaffermiamo qui a Miami (…) insieme, andiamo a difendere la causa della libertà a Cuba. (…) Non esistono migliori ambasciatori della libertà di voi cubano-americani. (…) Voglio mantenere l’embargo. Esso ci fornisce lo strumento necessario per affrontare al regime (…) È così che possono promuoversi trasformazioni reali a Cuba: attraverso la diplomazia forte, intelligente e basata sui principi”. (8)

f) La questione razziale
È un tema molto importante poiché il “voto nero” è stata la base più solida del suo trionfo nelle primarie democratiche e lo sarà anche se vince le elezioni presidenziali. Sicuramente questa base elettorale confida molto che un presidente nero li aiuti a superare la storica situazione di oppressione e discriminazione in cui versa. Tuttavia, nella sua carriera politica, Obama ha sempre cercato di evitare la “questione razziale”; quando è stato costretto ad affrontarne il tema, ne ha relativizzato il peso rivendicando il fatto che la “società americana” era progredita e lo stava superando. Per esempio, in un discorso alla Convenzione Nazionale Democratica del 2004, ha affermato: “Non ci sono un’America liberale e un’America conservatrice bensì gli Stati Uniti d’America. Non ci sono un’America nera e un’America bianca, un’America latina ed una asiatica, bensì gli Stati Uniti d’America”. (9) Più recentemente, per prendere le distanze del pastore della sua chiesa che aveva detto che il razzismo era una componente strutturale e storica della società statunitense, ha dichiarato: “Il profondo errore del reverendo Wright non è stato parlare del razzismo nella nostra società, ma parlare come se la nostra società fosse statica, come se non si fosse prodotto alcun avanzamento, come se questo Paese (…) fosse ancora irrevocabilmente vincolato ad un passato tragico”. (10) Penseranno la stessa cosa i milioni di neri oppressi che hanno votato per lui o gli immigrati latini illegali?


PERCHÉ OBAMA?
Abbiamo visto che Obama è parte del “nucleo” del partito democratico, e quindi del sistema politico bipartitico, e abbiamo dato una rapida occhiata alle sue posizioni. Ora vogliamo analizzare perché la borghesia degli Usa, o per lo meno settori molto importanti, fanno appello a lui.
La spiegazione di fondo è la crisi su vari fronti che l’imperialismo statunitense vive attualmente. In primo luogo, il fallimento della politica di “guerra contro il terrore” di Bush si rivela nel corso sfavorevole delle guerre in Irak ed Afghanistan, e nell’indebolimento di Israele dopo la sua sconfitta nel Libano e la sua impossibilità di piegare la Striscia di Gaza. In Medio Oriente, gli Usa sono finiti in un pantano da cui non possono uscire senza ammettere una sconfitta, che ridimensionerebbe il loro ruolo di “gendarme mondiale”, né aumentare ancora più la loro presenza militare senza aggravare la situazione.
A ciò si somma, in una combinazione eccessivamente pericolosa per la borghesia, la recessione che vive già il Paese e le prospettive di una profonda crisi economica. Cioè, la borghesia dovrà scaricare inevitabilmente una parte del costo di quella crisi sulle spalle dei lavoratori, attraverso la disoccupazione e il ribasso salariale. Qualcosa che succede già in giganti come la General Motors che minaccia di licenziare tutti i lavoratori che non accettino una riduzione dei loro salari alla metà. La classe operaia statunitense è un gigante di 120 milioni di persone. Poche volte nella sua storia è uscito a lottare unita, ma quando lo ha fatto le fondamenta imperialista sono state scosse. La lotta dei lavoratori immigrati, il settore più sfruttato di quella classe, può essere un anticipo di quella prospettiva.
Allo stesso tempo, il fallimento della “era americana” di George W. Bush ha lasciato il partito repubblicano grandemente indebolito e screditato e senza figure di ricambio (come pure, benché in misura minore, si è indebolito il sistema politico nel suo insieme). È molto difficile che i repubblicani possano affrontare una situazione tanto complessa e difficile che, in molti aspetti, hanno contribuito a creare con le loro politiche.
Per la maggioranza della borghesia statunitense è risultato chiara, allora, la necessità di giocare la carta della “alternativa democratica”. Inizialmente, il cavallo su cui scommettere fu la “donna forte” Hillary Clinton. Ma, davanti all’aggravamento della situazione, essa ha cominciato a vedere la necessità di un cambiamento più profondo del “volto” e si sono accresciute le possibilità di Obama, come la figura più capace di difendere i suoi interessi in questo quadro.


UN NEMICO ANCORA PIÙ PERICOLOSO
In sintesi, settori importanti della borghesia imperialista hanno deciso di utilizzare qualcuno che, per certe caratteristiche (giovane, nero, di padre musulmano) può essere spacciato come parte di coloro contro i quali si preparano i peggiori attacchi, così cercando di addormentare la loro reazione.
Per l’appunto, negli ultimi decenni, i democratici si sono distinti per aver presentato “volti nuovi” nelle elezioni presidenziali. Per esempio, il “giovane modello” John Kennedy, dopo del fine del maccartismo, o Bill Clinton, antico oppositore della guerra in Vietnam.
Alcuni giornalisti hanno tracciato un’analogia tra Obama e Jimmy Carter, che fu eletto presidente nel 1977, dopo la sconfitta in Vietnam e il procedimento politico che destituì Richard Nixon. Sebbene vi siano profonde differenze fra i due, esiste un chiaro punto in comune: la necessità di affrontare una profonda crisi dell’imperialismo e del suo sistema politico e, per questo, l'apparire "diversi". Per esempio, durante la campagna elettorale, Carter iniziava tutti i suoi discorsi con la frase: “Non sono avvocato, non sono di Washington”.
Ma quelle “differenze” si limitano agli aspetti esteriori: tutti hanno difeso ad oltranza gli interessi dell’imperialismo statunitense, nelle condizioni concrete in cui toccò loro agire. Perciò, se vincerà le elezioni presidenziali, Barack Obama sarà il principale nemico dei popoli del mondo e dei lavoratori degli Usa. In questo, nulla cambierà rispetto a Bush. Ma sarà un nemico molto più insidioso perché cercherà di mascherare questo carattere attraverso la sua immagine nuova e diversa. La conclusione è molto chiara: se giungerà alla presidenza degli Stati Uniti, i lavoratori ed i popoli del mondo dovranno combatterlo con tutte le loro forze.


Il finanziamento dei candidati
Business are business

Come nel resto del mondo, negli Usa, la borghesia finanzia i suoi partiti e i suoi candidati. La differenza risiede nel fatto che, mentre in altri Paesi questi legami tendono a restare nascosti, la legislazione statunitense esige che tutto sia pubblico e documentato. In tal modo, la pagina web www.opensecrets.org offre un riassunto di dati molto interessanti, classificati per settore economico, imprese che più hanno finanziato, quanto ha ricevuto ogni candidato, ecc.
Da lì sappiamo, per esempio, che, fino a maggio del 2008, “gli eventuali nominati hanno ricevuto più di 500 milioni di dollari, un cifra record”, distribuiti nella seguente maniera:
Barack Obama: 265.439.277;
Hillary Clinton: 214.883.437;
John McCain: 96.654,783. (11)
Analizzando la sequenza storica, è possibile vedere come si sia andato producendo uno spostamento di finanziamenti dei repubblicani verso i democratici, dal 2006 al 2008, e come siano cresciute le donazioni ad Obama, fino a farlo essere il primo della lista.
I dati ci permettono di analizzare anche a che settori borghesi è più legato ogni partito (benché le imprese per tradizione cercano di “tenere i piedi in due staffe”). Considerando la percentuale di finanziamenti a ciascun partito, i repubblicani si appoggiano maggiormente sulle industrie petrolifere (73%), automobilistiche (68%), chimiche (68%), costruzioni (62%) ed agrobusiness (quasi 60%). Da parte loro, i democratici sono forti invece nel settore educazione (72%) e salute (55%). Il settore finanziario-assicurativo-immobiliare, il settore economico che più finanzia le diverse campagne (248 milioni), ha concesso loro il 54%. Tra le grandi imprese del settore, la preferenza democratica è chiara: Goldman Sachs ha destinato loro il 73% dei quasi 3,7 milioni di contributi; Citigroup il 61% di 3 milioni e Morgan Chase il 64% di 2,5.


Nasce il “trotskismo obamista”?

In questa stessa edizione, segnaliamo che la candidatura presidenziale di Barack Obama ha generato “anche molta confusione che tocca persino alcune correnti di sinistra”.
Ne è una chiara espressione l’articolo "Il fenomeno Obama" che sta circolando su Internet. Il suo autore è Olmeto Beluche, dirigente del Partito di Alternativa Popolare del Panama e membro di una corrente di cui fanno parte il Mes (Movimento di Sinistra Socialista) del Brasile, il Mst (Movimento Socialista dei Lavoratori) dell’Argentina e l’Iso (International Socialist Organization) degli Usa. Ci sembra importante polemizzare con questo articolo perché esprime un meccanismo di ragionamento che, mascherato di “tattica marxista intelligente”, conduce alla capitolazione totale alla politica imperialista. Non sappiamo se queste posizioni siano condivise o no dall’insieme delle organizzazioni della sua corrente ma, fino ad ora, non ci risulta che sia stato pubblicato alcun materiale di critica.
L’articolo parte da una definizione che sembra chiaramente demarcatoria: “Ovviamente, sarebbe una vana illusione e un grave errore da parte nostra, credere che se in novembre venisse eletto Obama, come per incanto sparirebbe la politica imperialista dagli Stati Uniti nel mondo. Anche lui rappresenta un settore importante dell’’establishment’ nordamericano”.
Per aggiungere dopo: “La vittoria democratica, specialmente se il candidato è Barack Obama, non significherà la fine dell’imperialismo yankee, né della politica guerrafondaia, ed è probabile che neanche significherà la fine immediata della guerra in Iraq. Ma mi sembra che - questo sì - segnerà un cambiamento di tono, un’attenuazione di certi tratti terribili di un regime nordamericano che, dopo l’11 settembre, incarna una certa forma di neofascismo” (corsivo nostro).
Fino a qui, la conclusione, in certi limiti, è corretta. Il trionfo di Obama rappresenterà “un cambiamento di tono” della politica imperialista rispetto a quella applicata da Bush. Ma occorrerebbe aggiungere due cose. La prima è che questo “cambiamento” sarebbe il necessario adattamento dell’imperialismo statunitense per affrontare le conseguenze del fallimento di quella politica. La seconda è che, come segnaliamo nell’articolo principale, i democratici sono esperti nella presentazione di una “nuova immagine” senza cambiare l’essenziale. Da questo punto di vista, Obama non è una “novità” bensì solo un’altra variante di qualcosa che è già tradizionale nella politica statunitense. Qualcosa che l’autore dimentica pericolosamente.
Per questo, dopo una lunga disquisizione sulla logica hegeliana e la contraddizione tra “essenza” e “apparenza”, ci dice: “Il discorso radicale di Obama ha catalizzato la volontà di milioni di nordamericani per ‘il cambiamento’ che si oppongono alla continuazione dei ‘falchi’, rappresentanti diretti del capitale industriale-militare. Questo è di per sé progressivo. E se Obama non rispetterà (il che è molto probabile) questo ampio settore dell’elettorato yankee, gli farà fare un passo in avanti nella sua presa di coscienza politica e lo porrebbe in condizioni migliori per mobilitarsi per le istanze che oggi crede di poter incanalare attraverso Obama” (corsivo nostro).
Cioè, per guadagnare le primarie democratiche, egli ha creato un “movimento oggettivamente progressivo” le cui rivendicazioni o sono mantenute dalla sua presidenza (la cosa meno probabile) o si crea un salto nella coscienza e nella mobilitazione delle masse. In qualsiasi caso, il processo non comporterebbe perdite per le masse né per i rivoluzionari. È quasi incredibile che l’articolo apra alla possibilità, benché minima, che Obama, pressato dalle masse, mantenga le sue promesse e il suo “discorso radicale”. In altre parole affermi che, per “pressione oggettiva” e al di là delle sue stesse intenzioni, Obama svolgerebbe un “ruolo progressivo”.
Perfino se lasciamo da parte quest’alternativa, continua ad essere un ragionamento completamente falso che non ha nulla a che vedere coi fatti. In primo luogo, Obama non ha creato (né “catalizzato”) alcun movimento: questo esisteva già nella realtà, nelle mobilitazioni contro la guerra e nella gran caduta di consenso del popolo statunitense, nelle mobilitazioni degli immigrati, nei primi scioperi operai, ecc. Per l’appunto, egli è la figura scelta dalla borghesia imperialista per frenarlo ed evitare che cresca, facendogli abbandonare le piazze e portandolo sulla via morta delle elezioni. L’autore sembra dimenticare tutte le lezioni storiche. Esiste, ovviamente, la possibilità che le masse facciano l’esperienza con Obama ed avanzino nella loro coscienza e nella loro mobilitazione. Ma esiste anche la possibilità, e questo è il principale rischio oggi, che egli riesca a “addormentare” la loro coscienza e fallisca il processo.
In qualsiasi caso, questo è il compito che gli hanno assegnato. Perciò ha ricevuto l’appoggio di sperimentati politici imperialisti, come Edward Kennedy e Zbigniew Brezinski, e l’appoggio finanziario delle grandi imprese. Pensare che questa gente abbia buttato nel piatto il proprio peso politico e il proprio denaro con lo scopo di creare, “obiettivamente”, un “movimento progressivo” che si rivolterà contro di essi, è non solo un abuso della dialettica ma anche un insulto all’intelligenza dei cervelli imperialisti.
Ma l’autore è conseguente fino alla sua conclusione: “ (…) mi sembra che rispetto a queste elezioni non siano la stessa cosa l’uno e l’altro. E bisognerebbe scommettere sulla sconfitta dei repubblicani. Perfino a rischio di essere accusato di opportunismo, se il sistema yankee fosse di due turni, proporrei apertamente che la sinistra nordamericana (…) votasse criticamente Obama contro McCain”.

Fino ad ora, molte correnti di passata provenienza trotskista avevano utilizzato il ragionamento dell’“oggettivamente progressivo” per giustificare la loro capitolazione e il loro appoggio ai governi borghesi di Chávez, Evo Morales e Correa, e il loro appoggio elettorale a monsignor Lugo. In questi casi, avevano almeno la scusa che quelli del Venezuela, Bolivia ed Ecuador sono governi di Paesi coloniali con “un contrasto con l’imperialismo”, e che in Paraguay si trattava di “sconfiggere il Partido Colorado”.
Con questa proposta, l’autore fa un salto qualitativo: la ricerca di “sfumature” nell’’imperialismo, tra “falchi” e “colombe”. Una logica che, fino ad ora, aveva utilizzato solo, nel passato, lo stalinismo per giustificare accordi a lungo termine tra l’ex Urss e gli “imperialismi democratici” contro gli “imperialismi guerrafondai” o con le “correnti democratiche dell’imperialismo” contro le “correnti belliciste”. (12) L’abbandono dei principi rivoluzionari da parte di diversi sedicenti “trotskisti” ci ha abituati già alle loro permanenti capitolazioni. Tuttavia, capitolare all’imperialismo statunitense significa essere arrivati molto lontano su questa strada. Come diceva Don Chisciotte della Mancia: “Vedrai cose, Sancho, alle quali non crederai”.

NOTE

(1) Ripreso da www.barackobama.com/issues/iraq.
(2) Citato da www.politico.com/blogs/bensmith.
(3) Si veda: afp.google.com/article, 4/6/2008.
(4) Ripreso da blogdoalon.blogspot.com, 13/2/2008.
(5) Ripreso da www.barackobama.com/issues/economy.
(6) “Proposta agli immigrati”, Gray Brooks, 1/5/2008.
(7) Correo Internacional, 12/4/2006 (www.litci.org).
(8) www.folha.uol.com.br/folha/mundo, 23/5/2008.
(9) Presidenciais2008.wordpress.com/2008/02/03.perfil-de-barack-obama.
(10) Foro.univision.com/uni vision, 18/3/2008.
(11) I finanziamenti ai democratici sono stati più concentrati che non quelli ai repubblicani. Ad esempio, fra questi ultimi, chi ha ricevuto di più è stato Mitt Romney (quasi 105 milioni) e terzo si è posizionato l’ex sindaco di New York, Giuliani, con 54 milioni.
(12) Ad esempio, questa è stata la base per giustificare i fronti popolari con settori della borghesia imperialista in Europa, negli anni ‘30, o per appoggiare Roosevelt negli Stati Uniti.

(Traduzione dall’originale in spagnolo di Valerio Torre)