lunedì 23 giugno 2008

Bruxelles revoca le sanzioni a Cuba

Per l'Avana, un «mojito» sotto condizione Ue
Bruxelles revoca le sanzioni all'isola. Proteste degli Usa
Geraldina Colotti

«Iniziate a preparare i mojitos». Giovedì sera, ai giornalisti ansiosi di sapere se l'Unione europea avrebbe revocato le sanzioni a Cuba, il ministro degli esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos aveva risposto così. Una battuta per indicare che la cena, programmata a margine della riunione dei capi di stato e di governo a Bruxelles su domanda della cancelliera tedesca Angela Merkel, sarebbe stata determinante per smussare le ultime resistenze. E ieri l'annuncio: i 27 hanno trovato un accordo favorevole all'Avana, revocando le sanzioni imposte nel 2003 e parzialmente sospese nel 2005: «Ora si apre una nuova tappa - ha annunciato Moratinos - tutto potrà essere discusso, compresi i diritti umani e la nuova situazione a Cuba. La Spagna - ha aggiunto - vuole che si facciano passi concreti per superare la sfiducia e per porre le condizioni perché in futuro si possa arrivare a un Accordo di associazione con Cuba». Un accordo che, nelle intenzioni di Moratinos «sarebbe importante» concludere «durante la prossima presidenza spagnola della Ue del 2010».
L'Unione europea aveva imposto le sanzioni all'Avana nel 2003, dopo l'arresto di 75 dissidenti accusati di cospirazione, e dopo l'esecuzione, poco tempo dopo, di tre uomini che avevano sequestrato una imbarcazione carica di persone per fuggire dall'isola. Ma ora, ha aggiunto il capo della diplomazia spagnola facendo riferimento al «cambio» iniziato da Raul Castro e alla liberazione di numerosi oppositori detenuti, i leader europei «hanno visto che qualcosa si sta muovendo a Cuba» e hanno deciso di rimuovere «sanzioni che non sono servite a niente».
Una posizione che la Spagna - prima ad aver approvato le sanzioni sotto il governo Aznar e prima ad aver ripristinato le relazioni con l'Avana, nel 2007, con il governo Zapatero - sosteneva da tempo e per cui aveva già mosso la propria diplomazia. Già a marzo, dopo una visita compiuta all'Avana, il commissario responsabile della Cooperazione allo sviluppo, Louis Michel, si era pronunciato in questo senso: « Credo che il compromesso costruttivo e il dialogo costituiscano la via migliore per realizzare i nostri reciproci obiettivi, le sanzioni del 2003, per quanto sospese e inapplicate impediscono di avanzare in questa direzione». Dal canto suo, Cuba aveva firmato recentemente il Patto internazionale sui diritti civili e politici e quello sui diritti sociali, economici e culturali, e aveva accettato la visita dell'inviato speciale dell'Onu per il diritto all'alimentazione: disponibilità ribadita anche durante l'ultimo vertice della Fao, a Roma, dove Cuba è stata presente con la delegazione più rappresentativa.
Per la piccola isola, sempre sotto embargo Usa, il «mojito» non sarà però senza condizioni. Per superare disaccordi o reticenze da parte di Germania, Repubblica ceca e Svezia, i paesi maggiormente contrari alla revoca delle sanzioni, i 27 hanno infatti deciso che l'apertura dev'essere sottoposta «a una valutazione annuale». Moratinos ha perciò precisato: «Tra un anno dovremo valutare i risultati del dialogo politico, anche nel campo dei diritti umani». Le sanzioni, però, «vengono tolte definitivamente», e lunedì prossimo il Consiglio dei ministri dell'agricoltura approverà formalmente la decisione, che avrà carattere immediato.
Altrettanto immediata la reazione dei dissidenti anticastristi, che accusano la Spagna per il ruolo chiave avuto nel convincere gli europei. Critica la Spagna anche Franco Frattini, che avrebbe voluto un documento finale ancora più condizionante verso Cuba. Duro anche l'intervento di Washington, «delusa» dalla Ue, che ha solo parzialmente recepito la posizione Usa sostenuta a spada tratta dalla Repubblica ceca.
Positive le reazioni della stampa cubana, che titolava a tutta pagina: «I ministri degli Esteri dell'Ue decidono revocare le ingiuste sanzioni contro Cuba». Parzialmente superate, quindi, le preoccupazioni degli intellettuali che avevano denunciato le pressioni di Washington e l'esistenza di un documento segreto rivolto ai 27: «Un gruppo di nazioni ex comuniste dell'Europa orientale, capeggiate dalla Repubblica ceca - aveva scritto lo spagnolo Pascual Serrano - si sono accodate a Washington: le stesse che si sono messe a sua disposizione per fornire prigioni clandestine alla Cia, e per coprirne il sequestro dei prigionieri». EUROPA-CUBA Nelle conclusioni del vertice dell'Unione europea, il proposito di andare avanti con le ratifiche in altri paesi che non si sono ancora espressi, fra cui l'Italia dove Berlusconi si atteggia a guastafeste. Appuntamento il 15 ottobre a Bruxelles per rimettere insieme i cocci dell'Europa intorno al trattato di Lisbona

Il Manifesto 21 Giugno 2008

domenica 22 giugno 2008

Srebrenica, un Paese alla sbarra

Il processo all'Aja sul massacro del luglio '95. I soldati di Amsterdam "consegnarono" i rifugiati alle milizie serbo-bosniache
«Gli olandesi complici della strage»

Chiara Bonfiglioli
L'Aia
Alma Mustafic è una giovane donna dai capelli scuri e gli occhi chiari. Alma è diventata cittadina olandese, lo Stato i cui soldati vennero accusati di aver assistito al massacro di Srebrenica senza muovere un dito. Con perfetta padronanza della lingua si rivolge alla corte civile dell'Aia, chiedendo giustizia per suo padre, Rizo Mustafic, elettricista impiegato dal battaglione olandese di stanza a Srebrenica, e mandato a morire insieme agli altri il 13 luglio 1995. Davanti alla corte civile dell'Aia è riunito uno sparuto gruppo di attivisti per i diritti umani con uno striscione che ricorda gli oltre 8mila nomi dei morti e dispersi bosniaci durante la guerra nei Balcani.
Vi è anche una rappresentanza dell'associazione Donne di Srebrenica, che nel processo è parte attiva avendo fatto causa allo Stato olandese. All'interno della sala, da un lato siede la rappresentanza del governo di Amsterdam, dall'altra i familiari di Rizo Mustafic, la moglie Mehida e i due figli Damir e Alma. Accanto a loro Hasan Nuhanovic, un altro sopravvissuto della strage, insieme agli avvocati e a simpatizzanti bosniaci e olandesi.
Hasan Nuhanovic è una figura chiave del processo: impiegato come interprete dai soldati olandesi, testimone di quei tragici eventi e autore del libro "Under the Un flag", oggi accusa l'Olanda di avere lasciato morire la sua famiglia. Nel luglio '95 nell'enclave musulmana di Srebrenica la presenza dei peacekeeprs olandesi non impedì il massacro di circa 8mila bosniaci, soprattutti maschi giovani e adulti, sterminati dalle forze paramilitari comandate dal generale serbo-bosniaco Ratko Mladic.
L'Olanda sin dal principio si giustificò dicendo che il battaglione, sotto mandato Onu, non aveva potuto agire diversamente ed anzi, sacrificando i ragazzi e gli uomini, avrebbe in questo modo «salvato donne e bambini». Ma per gli avvocati e le associazioni che ora accusano i caschi blu è stato proprio il contrario: i generali olandesi di stanza a Srebrenica avrebbero potuto salvare molte persone.
Gente come Rizo Mustafic e la famiglia di Hasan, membri dello staff impiegato nella base di Potocari. Il caso Srebrenica è particolarmente scomodo per l'immagine delle forze armate dei Paesi Bassi, tanto che un governo è caduto dopo la pubblicazione, nel 2002, dell'inchiesta della commissione parlamentare. Oggi le autorità olandesi vorrebbero chiudere la faccenda al più presto. Ma non sarà semplice.
Durante il dibattimento l'avvocato che accusa i caschi blu, Zegveld, ha ricordato come il codice di guerra olandese, cosi come le leggi internazionali, proibisca di esporre persone alle rappresaglie e alle persecuzioni dei nemici, quando si è a conoscenza che un rischio esiste. Questo vale per lo staff bosniaco che lavorava nella base militare di Potocari. Nella notte tra il 10 ed l'11 luglio 1995, la popolazione assediata a Srebrenica, venuta a conoscenza di un possibile attacco da parte delle forze serbo-bosniache, si diresse in massa verso la base Onu di Potocari, a circa 6km da Srebrenica, presidiata dal contingente di Amsterdam.
Circa 6mila persone vennero sulle prime lasciate entrare nella base olandese, mentre alle migliaia che sguirono più tardi vennero sbarrati i cacelli. Alle persone rimaste fuori, gli olandesi dissero che avrebbero lasciato entrare «solo donne con bambini piccoli» (nonostante nella base ci fosse ampio spazio per ospitare un maggior numero di rifugiati, come ricorda Hasan nella sua testimonianza). Di fatto, l'11 luglio , verso sera, vi erano circa 6mila rifugiati all'interno della base e molte migliaia assiepati fuori. Il 12 luglio mattina, mentre era ancora in corso un incontro a Bratunac tra una delegazione Onu e lo stesso Mladic, le forze serbo-bosniache circondarono la base e nella notte tra il 12 e 13 cominciarono a separare le donne dagli uomini.
Le donne vennero caricate sugli autobus. Uomini e ragazzi furono uccisi nelle vicinanze dalla base. Il 13 luglio, infine, i generali diedero l'ordine alle 6mila persone che avevano trovato riparo all'interno della base di Potocari di uscire. Dovevano venire fuori «in gruppi da 5». Gli uomini e i ragazzi vennero fatti uscire e poco dopo furono assassinati.
In questo contesto si colloca l'azione legale di Hasan Nuhanovic e della famiglia Mustafic. Il lasso di tempo trascorso tra il 12 ed il 13 luglio non lascia dubbi sul fatto che i generali Karremans e Franken sapessero che non c'era sopravvivenza possibile al di fuori della base (come dimostrano alcune dichiarazioni degli stessi durante la commissione parlamentare d'inchiesta). Gli olandesi avrebbero compilato una lista di 29 nomi che includeva personale bosniaco impiegato nella base e familiari dello staff, da portare con sé al momento dell'evacuazione della base.
L'avvocato Zegveld sostiene che lo Stato olandese non solo aveva pieno controllo della situazione all'interno della base, dato che le forze di Mladic si riumanevano all'esterno, ma che comunque avrebbero dovuto proteggere quantomeno il personale impiegato nella base, e quindi rifiutare di farlo uscire sapendo che sarebbe incorso in persecuzioni ed esecuzioni. Nonostante fosse su questa prima lista di 29 persone, Rizo Mustafic sarebbe stato costretto ad uscire perché non aveva il pass delle Nazioni Unite. Il fratello di Hasan, invece, sarebbe stato fatto uscire dai generali, secondo l'avvocatura dello Stato, per non disattendere il "principio di equità" con gli altri rifugiati che non avevano avuto la fortuna di trovare rifugio nella base.
In sostanza, i generali olandesi avrebbero potuto decidere di salvare le persone all'interno della base, e lo staff in particolare (Medici senza frontiere, infatti, portò con sé il proprio staff bosniaco ed i familiari dello staff). L'avvocato Zegveld, inoltre, accusa i generali di Amsterdam di non avere informato le Nazioni Unite delle esecuzioni del 12 luglio, di cui erano a conoscenza. Per Zegveld lo Stato olandese si sarebbe macchiato quindi di «grave negligenza» e dovrebbe come minimo risarcire le famiglie delle vittime. Perché il battaglione olandese avrebbe di fatto cooperato con le forze che mettevano in atto la pulizia etnica, rifiutandosi di proteggere il proprio staff bosniaco nonché le persone rifugiatesi nella base.
Hasan Nuhanovic ai tempi era impiegato dal contingente come traduttore. Fu lui ad essere incaricato di annunciare ai rifugiati che sarebbe dovuti uscire dalla base. «Dissi loro che le donne ce l'avrebbero fatta, mentre uomini e ragazzi sarebbero tutti morti». Hasan ricorda oggi come i militari che presidiavano l'esterno della base fossero «in t-shirt e disarmati, mentre quelli all'interno, che avevano a che fare con i rifugiati, erano armati e in mimetica».
Secondo Zegveld la «grave negligenza» nei confronti dei rifugiati ebbe anche delle connotazioni razziste. Mentre le forze armate Serbo-bosniache apparivano «ben vestite e tutto sommato ragionevoli», i rifugiati dopo anni di assedio a Srebrenica puzzavano, rubavano cibo e apparivano disperati, e questo avrebbe influenzato la condotta dei soldati. L'artista Sejla Kameric l'ha anche ricordato, nel suo lavoro "Muslim girl", con il graffito lasciato da un soldato olandese di stanza a Potocari che recitava: «No teeth...? A mustache...? Smell like shit...? Bosnian Girl!» ( Senza denti? Con i baffi? Odora di merda? E' una ragazza bosniaca ).
Hasan cercò in tutti i modi di convincere i generali olandesi a salvare la sua famiglia, il fratello minore di 20 anni ed i genitori. «Gli ho chiesto di salvare almeno mio fratello, dato che chiedere di salvare tutti sembrava troppo». Di fronte al rifiuto olandese, la famiglia sarebbe quindi partita verso l'uscita. A quel punto il gen. Franken, incrociando la famiglia quasi all'uscita della base, avrebbe annunciato all'ultimo momento che il padre di Hasan (e solo il padre) poteva "scegliere" di rimanere con Hasan, costringendolo a decidere se abbandonare il resto della propria famiglia in pochi secondi. Ma il padre si avviò verso l'uscita con la moglie e il figlio minore.
Il verdetto sarà emesso a settembre.


Liberazione 22/06/2008

Cuba, l'Ue revoca le sanzion

Il ministro degli Esteri spagnolo Moratinos: «E' venuto il momento di costruire nuove relazioni»
l'irritazione di Washigton

Alessandro Tettamanti
Tempo di cambiementi per Cuba. Lo si sapeva: cellulari, computer, lettori DVD. Ma Nell'isola del nuovo presidente Castro, Raul, la novità ora arriva dall'Europa. Nel pomeriggio di ieri a Bruxelles i ministri degli esteri dei 27 paesi membri hanno finalmente deciso di revocare le sanzioni inflitte all'isola caraibica nel 2003 e già sospese nel 2005. E' il momento di «avviare una nuova fase nelle relazioni con Cuba. Senza queste sanzioni che non sono servite a molto, se non a nulla - afferma il ministro spagnolo Miguel Angel Moratinos - Ora si apre una nuova tappa, in cui tutto potrà essere discusso, compresi i diritti umani e la nuova situazione a Cuba. La Spagna vuole che si facciano passi concreti per superare la sfiducia e per porre le condizioni perchè in futuro si possa arrivare ad un Accordo di associazione con l'Avana». Per superare la resistenze di Repubblica Ceca, Germania e Svezia, i paesi maggiormente contrari alla revoca delle sanzioni, i 27 hanno deciso di sottoporre il dialogo con Cuba «ad una valutazione annuale». «Tra un anno - spiega Moratinos - dovremo valutare i risultati del dialogo politico, anche nel campo dei diritti umani, ma non verrà valutata l'eliminazione delle sanzioni, quelle sono tolte definitivamente». Tra i fautori anche il Ministro Frattini che parla di un testo «più rigoroso di quello proposto inizialmente da Madrid», un «compromesso» che include anche «condizioni come il rilascio dei prigionieri politici». Chi c'è rimasto peggio, si poteva immaginare, sono gli Stati Uniti dell'amministrazione Bush: «Siamo molto delusi perché riteniamo che i Castro debbano intraprendere un numero di iniziative per migliorare il rispetto dei diritti umani a Cuba, prima che sia revocata qualsiasi sanzione», ha affermato il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Gordon Johndroe. «Non vediamo alcuna rottura fondamentale con la dittatura di Castro che ci dia un motivo per credere che ora è tempo di abolire le sanzioni, o comunque di cambiare la nostra politica. Per questo certamente non sosterremo l'Unione Europea o chiunque altro voglia abolire le sanzioni in questo momento». Critica anche la dissidenza Cubana che addita la Spagna come «principale responsabile» dell'apertura. «Il direttivo guidato da Zapatero - ha dichiarato l'economista cubano dissidente Oscar Espinosa - si è assunto una responsabilità alta e rischiosa se ora il governo cubano non farà nulla, perchè ha teso la mano senza alcuna garanzia». Granma , organo ufficiale del Partito Comunista, salutava ieri in prima pagina: «l'Ue decide di revocare le ingiuste sanzioni contro Cuba».


Liberazione 21/06/2008

venerdì 20 giugno 2008

Il divo dei registi americani salvato dal cinema indiano

Repubblica — 19 giugno 2008 pagina 49 sezione: SPETTACOLI
dente federico rampini pechino La fantasia indiana conquista la fabbrica dei sogni americana. Bollywood conquista un pezzo pregiato della sua più nota concorrente Hollywood. Il gruppo Reliance di Mumbai è pronto a staccare un assegno da almeno 500 milioni di dollari per diventare azionista della casa cinematografica DreamWorks, guidata dal regista-produttore Steven Spielberg. La scalata amichevole alla DreamWorks - concordata con lo stesso Spielberg - segna uno spettacolare ingresso del capitalismo indiano nel grande business del cinema americano. Finirà sotto il controllo della Reliance una delle squadre più creative della California, confermando così l' ascesa dell' India come potenza mondiale nel business dello spettacolo. La DreamWorks fu fondata nel 1994 da Spielberg insieme con i suoi due amici Jeffrey Katzenberg e David Geffen. La casa cinematografica californiana ha al suo attivo una serie di successi mondiali tra cui "Salvate il soldato Ryan", "A beautiful mind", "The Terminal". Tra le sue produzioni più recenti il musical "Dreamgirls" (2006). Almeno altrettanto brillante è stata la vena creativa della filiale nel settore dei film di animazione, la DreamWorks Animation Skg che vanta nel suo catalogo la serie di "Shrek", "Galline in fuga" e "Bee Movie". Indipendente fino al 2006, la DreamWorks due anni fa era finita sotto il controllo del conglomerato americano Viacom che possiede anche la Paramount Pictures (produttrice di "Iron Man"). Ma la convivenza di Spielberg con il management della Viacom-Paramount è stata a dir poco turbolenta. Per ragioni anzitutto di amor proprio e orgoglio professionale. Il regista e produttore ha dato ripetuti segni di insofferenza, lamentandosi perché i suoi azionisti si attribuivano sistematicamente il merito dei successi cinematografici della DreamWorks. Le liti pubbliche fra Spielberg e i vertici di Viacom-Paramount sono finite più volte sulle prime pagine dei giornali americani. Il divorzio era inevitabile e Spielberg ne aveva annunciato la data: entro la fine del 2008. Restava da trovare un nuovo azionista con le spalle robuste. I candidati erano molti, e non a caso ieri la notizia del "matrimonio indiano" è stata anticipata dal Wall Street Journal: un pretendente sconfitto nella scalata alla DreamWorks è la Fox di Rupert Murdoch che possiede anche il quotidiano finanziario newyorchese. Il gruppo Reliance non ha un nome affermato nel mondo del cinema come quelli di Paramount o Fox, ma è un gigante globale le cui attività spaziano dalle telecomunicazioni alla finanza. Il suo ingresso nell' industria cinematografica americana avviene con un' offensiva a tutto campo. Prima ancora di avere raggiunto l' intesa con Spielberg, il mese scorso al Festival di Cannes la società indiana ha annunciato accordi per finanziare produzioni con quattro star del cinema Usa: George Clooney, Brad Pitt, Tom Hanks e Jim Carrey. Ognuno di loro è stato accolto nella scuderia degli attori-registi di Reliance grazie a una disponibilità finanziaria notevole: il gruppo indiano ha in programma investimenti per un miliardo di dollari nelle produzioni di nuovi film in soli 18 mesi. Una ricchezza di capitali che invece fa difetto a Wall Street. Dopo la crisi dei mutui, i bilanci bancari in rosso, e i venti di recessione che pesano sui mercati americani, è diventato molto più difficile trovare dei finanziatori negli Stati Uniti. Con il colpo messo a segno dalla Reliance si conferma il nuovo status globale dell' industria cinematografica indiana. Già adesso Bollywood supera Hollywood per il numero di film prodotti ogni anno, anche grazie alle delocalizzazioni: la Walt Disney è stata fra le prime a spostare alcune produzioni cinematografiche in India per approfittare dei costi inferiori. Ora è giunto il momento del flusso inverso, con i produttori di Bollywood che partono alla conquista delle case americane. Alla guida della Reliance Big Entertainment c' è Rajesh Sawhney che proviene dal mondo dell' informazione: ha guidato la Times Internet, filiale online del quotidiano The Times of India. Ma sopra di lui c' è un azionariato familiare, la dinastia Ambani, uno dei clan capitalisti più ricchi del pianeta. E' una famiglia attraversata da una feroce faida interna tra i due figli del fondatore, i fratelli Anil e Mukesh Ambani. Il primogenito Mukesh è più interessato al business delle telecom, mentre il cadetto Anil, sposato con una star di Bollywood, ha la passione del cinema del sangue. Una splendida saga, chissà se Spielberg sarà tentato di ricavarne una sceneggiatura. - FEDERICO RAMPINI PECHINO

sabato 14 giugno 2008

Gianni Minà

«La marmellata televisiva ci ha soffocato
Ripartiamo da una legge sulla comunicazione»
Genni/Sintesi

Davide Turrini
La famosa agenda di Gianni Minà esiste. E' un tomo alto almeno due centimetri che il suo proprietario porta sempre con sé sottobraccio. Lo scrigno di un grande giornalista italiano che ha viaggiato il mondo più di un pilota d'aereo, che sa un sacco di lingue («ma male», dice lui) e che quest'anno compie settant'anni all'anagrafe e cinquanta di professione. Minà ci viene incontro, attraversando la hall di un vetusto albergo di Bologna, carico di elenchi di amici carissimi (tutti veri) come imitazione di Fiorello vuole. Lo incontriamo a margine di uno dei tanti riconoscimenti ricevuti per la sua attività di documentarista. Sugli schermi del festival Human Rights Nights scorrono le immagini di Fidel racconta il Che (1989) e Un giorno con Fidel (1987). La curiosità per documenti storici come le celeberrime interviste di Minà pare non esaurirsi mai. Perché nel giornalista torinese si condensano tanti aspetti della storia dell'informazione dal dopoguerra ad oggi: lo sport; l'inchiesta giornalistica; la televisione di intrattenimento preberlusconiana; la lottizzazione della Rai; la controinformazione. Il tutto sempre con un occhio, e il cuore per intero, rivolto all'America latina. Come capita in questi giorni, la conversazione inizia col tono di chi si ritrova vivo dopo uno tsunami.

Minà, la sinistra italiana pare morta, come ci si sente?
E' morta la sinistra parlamentare, non quella della società civile. Il tre e qualcosa per cento non è andato a votare. Mancano all'appello almeno un milione e mezzo di voti: da qui a sparire ce ne vuole. Una buona parte di elettori di sinistra si è rivolta al Pd e un'altra parte si è astenuta. La rappresentanza politica della sinistra si è suicidata da almeno cinque anni: se ti fai scavalcare dalla Fiom vuol dire che non stai più rispondendo a quella parte di italiani che chiede soltanto di essere tutelata sul lavoro. Quando in Lombardia muoiono più di 50 persone in quattro mesi per incidenti sul lavoro, vuol dire che questo è il paese europeo dove c'è il più grande disprezzo per i lavoratori. La sinistra cosiddetta radicale doveva farne una battaglia incessante: altrimenti che ci sta a fare?

Non è bastato andare in televisione e parlare delle morti sul lavoro nei confronti elettorali?
Andare ad occupare uno strumento di cui già il tuo simpatizzante diffida è stato deleterio. A vedere continuamente l'amabile amico Fausto Bertinotti in tv sembrava di confonderlo con Casini e Schifani. Dentro alla marmellata televisiva il messaggio non ti differenzia. O almeno questo è quello che accade nel salotto di Vespa, che è una specie di camera di decantazione di tutti i problemi del nostro paese. D'altro canto la sinistra radicale non si è accorta che una serie di comunicatori sono stati fatti fuori dalla tv, lasciando spazio a Vespa. Santoro è ritornato da poco, ma Italo Moretti, Enrico Deaglio, Gianni Minà, Tito Cortese perché nel corso degli anni sono stati cacciati? L'editto bulgaro è la punta dell'iceberg. Sono dieci anni quest'anno che io non faccio più tv: mi volete dire cos'ho fatto di male? Nel '94 mi tagliò Letizia Moratti, non avevo più contratti annuali, ma collaboravo in qualche trasmissione, precario come quando ero ragazzo. Poi dal ‘98, con l'ultima serie di Storie Freccero mi disse: trovo delle «resistenze fortissime» sul tuo nome. Mi disse anche di intervistare le persone che volevo, di togliermi ogni soddisfazione. Ospitai tra gli altri i coniugi Alpi, Sepulveda, il Dalai Lama, Nino Caponnetto. Credevo che fosse stata la destra a fare resistenza in consiglio d'amministrazione ma sbagliavo. Ero, dissero, «ingovernabile». Ricevere il benservito dalla parte politicamente più vicina alle tue idee, dai compagni di gioventù è stato davvero squallido.

Sei stato uno dei pionieri dell'informazione giornalistica e televisiva italiana. Nel '60 eri già inviato alle Olimpiadi. Quando hai iniziato a girare documentari?
Innanzitutto non mi raccomandò alcun partito. Fin da allora fu un marchio d'infamia non essere lottizzato, e così rimasi precario diciassette anni. Iniziai dallo sport, quando ancora veniva seguito da intellettuali come Barendson e Ghirelli. Il mio primo minidocumentario lo feci nel '65 per il rotocalco Sprint . Era l'incontro con l'arbitro Concetto LoBello che stava costruendo a Siracusa la cittadella dello sport. Poi ne ho girati a decine e il loro valore è stato riconosciuto in mezzo mondo: ho ricevuto il premio Berlinale Camera al festival di Berlino del 2007 in mezzo all'indifferenza generale della stampa italiana. A breve la Casa del cinema di Roma dedicherà una settimana intera ai miei lavori, collegati a seminari tematici.

Gli anni duemila sono stati quelli del boom del documentario: tu come li giravi? Cosa significa per te il documentario?
Lavoravamo in tre: io facevo l'organizzatore, l'intervistatore, il facchino. Poi c'era il fonico e il direttore fotografia (da quando lavoro in proprio sempre lo stesso, Roberto Girometti). Per me il documentario è un film povero, è cronaca del vissuto. Stilisticamente credo che non ci sia bisogno del montaggio frenetico che scelgono molti giovani oggi. Io poi preferisco l'improvvisazione alla sceneggiatura scritta.

Come dicevi sempre conducendo "Blitz" nei primi anni 80, «questo è il bello della diretta». Era una televisione spettacolare e colta, divertente da fare e che oggi non vediamo quasi più...
Non c'è più il coraggio di osare in televisione. A Blitz rischiavamo ogni settimana, ci collegavamo col mondo: ogni tanto il satellite ci negava la linea o l'audio era cattivo. Gli ospiti venivano senza compenso, a differenza di oggi. Una domenica con Blitz ci spostammo a Cinecittà per spiegare il grande cinema. Negli studi accanto Fellini girava E la nave va e Leone C'era una volta in America . In una puntata sola ebbi in trasmissione Fellini, Masina, Leone, De Niro, Cardinale e Morricone. Invece della festa paesana che si fa oggi in tv, il tentativo di divulgare il grande cinema con le parole dei maestri.

Oggi guardi la televisione?
Mia moglie dice: «Non ti siedi più a vedere la tv come facevamo una volta?». Purtroppo di fronte al piccolo schermo più che noia, provo sdegno. Per non farmi il sangue acido la sera leggo i giornali. La mattina sono impegnatissimo con la mia rivista Latinoamerica che mi rende molto orgoglioso. L'ho salvata sette anni fa dalla chiusura: ora tiriamo quattromila copie e arriviamo a mille abbonati. Abbiamo ampiamente superato Limes e sfidiamo Micromega . Per farlo ho chiamato tutti gli intellettuali latinoamericani che ho conosciuto in trent'anni. Come disse Vinicius De Moraes, «la vita è l'arte dell'incontro».

Sia con "Latinoamerica" che con l'ultimo libro, "Politicamente scorretto", dici di fare controinformazione, cioè raccontare fatti spariti dalle testate giornalistiche ufficiali.
Fra gli errori della sinistra c'è stato quello di non saper difendere certe battaglie dell'universo progressista internazionale. Pensa: in Bolivia ed Ecuador si stanno riscrivendo le costituzioni per garantire i diritti di chi non ha mai contato, gli indigeni, cioè la maggioranza della popolazione, mai stata al governo prima dell'avvento di presidenti come Morales e Correa. Un operaio metallurgico governa il Brasile; due donne governano Argentina e Cile, anche se il loro cambiamento è più graduale. Una volta le chiamavamo repubbliche delle banane. Adesso l'America latina ci sta insegnando la democrazia partecipativa. Ed è patetico che per apparire alla moda si rompano ancora le scatole a Chavez che ha vinto dieci consultazioni elettorali in dieci anni. Se votare è la base della democrazia, lui è il leader più democratico che ci sia! E' solo una questione di sudditanza psicologica verso gli Stati Uniti. L'anno scorso a Washington sono state approvate la legge che autorizza la tortura e quella che abolisce l'habeas corpus. Come mi chiedo se questo paese ha ancora l'autorità morale per parlare di diritti umani.

Perché c'è così poca indignazione popolare contro l'America di Bush, o anche, per esempio, contro l'autoritarismo di Putin?
Perché un monaco birmano fa più notizia di un maestro messicano? L'anno scorso ad Oaxaca l'esercito messicano ha sterminato decine di maestri di scuola che protestavano. Alcuni sono addirittura desaparecidos: è una delle storie più nefaste dal tempo delle olimpiadi di Città del Messico del '68. Ma nessuna prima pagina dei nostri giornali lo ha sottolineato. Ti commuove giustamente il monaco birmano, ma non il maestro messicano perché in Messico il presidente è sotto il cappello di Bush. Stesso discorso per il presidente colombiano Uribe che con la sua doppiezza diplomatica sta facendo correre a Ingrid Betancourt il serio rischio di non tornare a casa. Le strategie le detta Washington. E noi italiani sappiamo che per aver trattato in Iraq con i sequestratori senza l'assenso Usa ci ha rimesso la vita il povero Calipari e per poco pure Giuliana Sgrena.

Esistono anticorpi nel sistema culturale e politico americano?
L'antibushismo che sta montando nelle piazze e tra i cittadini negli Stati Uniti non ce lo raccontano. Qualcosa può succedere solo se Barack Obama vince le elezioni. Hillary Clinton è una vecchia trattativista e non cambierebbe molto. Anche se ho il dubbio che la maggioranza degli americani consideri Barack un presidente troppo poco esperto per dirigere gli Usa in un momento di recessione economica che si profila drammatico.

E in Italia da dove iniziare una nuova battaglia contro il conformismo imperante?
Rivedendo la legge sulla comunicazione. Ridimensionare il potere mediatico di Berlusconi, che gli ha permesso in quindici anni di inquinare il cervello degli italiani. Basta copiare una qualsiasi legge sull'emittenza di qualunque altro paese europeo. Diranno che è un atteggiamento "vetero", ma la gente ha subito un martellamento di modelli di società, imposti non nei tg, ma nelle trasmissioni di intrattenimento, le presunte trasmissioni innocue (quiz, varietà, certi sceneggiati). Da lì sono nati un cittadino incapace di negarsi alle prepotenze delle lobbies, delle caste, una società egoista e aggressiva, tendente all'inciucio, dove tutti hanno sempre qualcuno chi li aiuta a scavalcare le leggi. Questo è avvenuto, e la sinistra non ha saputo reagire.


24/04/2008

Fuggi-fuggi dall'Afghanistan

Accuse incrociate agli Usa dai partner regionali
Che pensano a un'Unione asiatica sul modello Ue
Il fuggi-fuggi
dalla guerra
dei vecchi alleati:
«In Afghanistan
Nato e occidente
hanno fallito»
Dalla Russia alla Cina, dalla Turchia al Pakistan, sono partite le grandi manovre per isolare gli ...

Sabina Morandi
Mentre noi italiani eravamo alle prese con le elezioni, sulla scena internazionale sono successe alcune cosucce importanti che naturalmente i media dell'establishment hanno tranquillamente ignorato, ulteriore segno del fatto che le informazioni fondamentali per capire le cose che ci riguardano sono le prime a venire censurate. E certamente ci riguarda ciò che sta accadendo in Afghanistan, teatro di una guerra infinita nella quale molto probabilmente il nostro nuovo governo sarà "invitato" a spedire truppe fresche da una Nato sempre più di difficoltà.
La seconda settimana di aprile è stata zeppa di una serie di importanti dichiarazioni apparentemente staccate fra loro eppure estremamente significative per capire cosa sta succedendo sulla Grande scacchiera afgana. Ha aperto le danze il presidente pakistano Pervez Musharraf che durante una lezione alla Tsinghua University di Pechino ha spiazzato tutti - visto che il Pakistan è considerato un solido alleato di Washington - nell'invocare l'intervento di Russia e Cina per «dare una mano» a stabilizzare l'Afghanistan.
Il giorno dopo, a Londra, la condotta della guerra è stata pubblicamente criticata dal ministro degli Esteri della Turchia Ali Babacan (altro paese di solida tradizione atlantista) che ha dichiarato senza mezzi termini che la Nato in Afghanistan «sta corteggiando il disastro». Infine, mercoledì, mentre il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, durante una visita nella città sacra di Qom, diceva che gli Stati Uniti hanno invaso l'Iraq e l'Afghanistan «con il pretesto degli attacchi dell'11 settembre», cominciavano a circolare voci di negoziati in corso fra i leader dell'Alleanza del Nord - che sostiene il governo filo-Usa di Karzai - e i talebani. Negoziati, come giustamente scrive l'ex diplomatico indiano M. K. Bhadrakumar su Asia Times , che «rischiano di fare apparire un non-senso l'intera impostazione tattica della battaglia afgana».
Ma come leggere queste dichiarazioni apparentemente scollegate fra loro? Cominciamo con il presidente iraniano, in genere dipinto come un pazzo ma in realtà sempre molto cauto quando si parla di Afghanistan. E' la prima volta infatti che Ahmadinejad attacca frontalmente le ragioni stesse della guerra e, insinuando che l'11 settembre sia stata solo una scusa, assolve di fatto i talebani (il cui coinvolgimento negli attacchi in effetti non è mai stato provato) e accusa Washington di avere scatenato la guerra per puro interesse geopolitico. La qual cosa, considerando che sotto la presidenza di Khatami l'Iran ha fornito supporto logistico agli americani per l'invasione del 2001, dimostra che c'è stato a Teheran un importante ripensamento. Le dichiarazioni rese dal ministro degli Esteri turco al britannico Telegraph sono ancora più gravi perché provengono appunto da uno dei più solidi alleati di Washington. Ali Babacan ha sostanzialmente preso le distanze dalla strategia statunitense in quanto «un approccio ancora più militaristico rischia di essere controproducente e di indebolire definitivamente il governo afgano». Se a questo si aggiunge che negli stessi giorni erano in corso consultazioni di altissimo livello fra Ankara e Teheran per una cooperazione bilaterale nella sicurezza della regione, abbiamo un quadro abbastanza allarmante del disimpegno turco.
Dal canto suo Musharraf è andato ancora oltre nell'esprimere la speranza che un'importante organizzazione regionale poco nota in Occidente - la Shanghai Cooperation Organization - venga chiamata a giocare un ruolo nella stabilizzazione dell'Afghanistan. La Shanghai Cooperation Organization (detta Sco) è stata lanciata nel 2001 per favorire la cooperazione fra paesi eurasiatici come Cina, Russia e le repubbliche ex-sovietiche ancora nell'orbita di Mosca. L'ambizione di trasformare la Sco in un'organizzazione per l'integrazione regionale sul modello dell'Unione europea (con tanto di road map per l'adozione di una moneta comune) erano chiare fin dall'inizio ma l'accelerazione della crisi Usa-Iran sembra aver spinto i dirigenti russi e cinesi a premere sull'acceleratore. Va sottolineato che Pakistan e Iran stanno facendo anticamera alla Sco come semplici osservatori ma hanno tutta l'intenzione di entrare a farne parte come l'Uzbekistan e la Russia - le cui offerte di collaborazione nel conflitto sono state gelidamente ignorate da Washington.
Infine, ad alimentare i segnali dell'approssimarsi di un vero e proprio terremoto geopolitico, c'è la notizia che membri di altissimo livello dell'Alleanza del Nord - come l'ex presidente afgano Burhanuddin Rabbani o il consigliere per la sicurezza di Karzai e comandante supremo dell'alleanza del Nord Mohammed Qasim Fahim - stanno tenendo negoziati con i vertici dei talebani e di altri gruppi d'opposizione in vista di una riconciliazione nazionale. Il fatto che durante il vertice di Bucarest la Nato sia riuscita a ottenere solo un piccolo aumento di truppe, ha probabilmente impresso un'accelerazione agli eventi.
Sul piatto c'è ovviamente la partita geopolitica ma soprattutto quella energetica. Se è noto infatti che Washington non ha invaso l'Afghanistan per catturare Bin Laden ma per garantire la costruzione della pipeline dell'Unocal, di certo Musharraf non è volato a Pechino solo per parlare agli studenti ma per incontrare il presidente Hu Jintao e discutere del gigantesco metanodotto che dovrebbe collegare l'Iran alla Cina passando per il Pakistan. Mentre la nascita di un'Opec del gas sembra sempre più imminente - occhio al meeting di Mosca nel giugno prossimo - le compagnie cinesi stanno investendo soldi e tecnologia nello sviluppo dei giacimenti iraniani da cui sperano di ottenere l'energia per mandare avanti la fabbrica del mondo. La China's National Offshore Oil Corporation sta negoziando un accordo da 16 miliardi di dollari per lo sfruttamento del giacimento di North Pars (uno dei più grandi del pianeta) mentre la China Petroleum and Chemical Corporation ha firmato a marzo un contratto da 2 miliardi di dollari per lo sviluppo dei giacimenti petroliferi di Yadavaran. Gran bei soldi che, evidentemente, non si sentono più garantiti dalle armate di Washington.


24/04/2008

Prezzi cibo e petrolio

I prezzi del cibo come il petrolio; non si fermeranno. L'Onu: «E' la sfida del Secolo», il Pam chiede aiuto. L'Italia è alla preistoria
Ambiente, energia, crisi alimentare
«Lo tsunami per travolgere l'umanità»

Ivan Bonfanti
La crisi è seria, gli scenari anche drammatici. La corsa al rialzo dei prezzi dei generi alimentari che sta già provocando disagi e carestie nei mercati asiatici non si fermerà, ma coinvolgerà altre aree del mondo. Con una parabola che rischia di ripercorrere l'ascesa del costo del greggio, con effetti ben più pericolosi.
La crisi del cibo è terribilmente seria perché ha un cuore strutturale, a cui si aggiungono elementi strumentali. In sostanza i prezzi salgono perché la domanda è cresciuta a dismisura, gli umani si moltiplicano e sono tanti, troppi; per soddisfare una richiesta così pressante il sistema caotico di interazione col pianeta, imperniato sul binomio spoliazione-estrazione, non regge più. Figuriamoci poi quando sul fuoco si getta la benzina, che in questo caso è il forte elemento speculativo che sta dopando l'impennata dei prezzi. Vedere, per credere, al Chicago Board of Trade, il mercato mondiale dei contratti a termine o futures, dove frumento, mais, frutta e verdura sono nient'altro che cifre su cui i capitali finanziari si gettano a capofitto con un solo obiettivo: speculare. Nel 2008 il "titolo" più scambiato è stato quello del frumento, dove la forte concentrazione della domanda ha favorito operazioni di stoccaggio e immissione con conseguenze negative su tutto il settore e sui derivati. Ma alla borsa di Chicago i felici speculatori del cibo giurano che la causa dell'impennata dei prezzi è solo la rovente estate che ha avvolto l'Australia. Peraltro.
Arsura o palle varie, la questione sta assumendo proporzioni tali da richiedere una risposta globale, come ha auspicato ieri la direttrice esecutivo del World Food Programme, il Pam, che ha parlato della crisi in proporzioni catastrofiche definendola «la più grave che il Pam deve affrontare dalla sua fondazione, 45 anni fa». Josette Sheeran ha avvertito che c'è poco da stare allegri, la crisi va affronata o ci travolgerà: «Si tratta di uno tsunami silenzioso che minaccia di far precipitare oltre 100 milioni di persone, in tutto il pianeta, nella fame», ha detto ieri prima di un'audizione con i rappresentanti del parlamento inglese in vista del summit Fao che, all'inizio di giugno, porterà a Roma alcuni tra i più influenti leader mondiali e in cui la «Food Crisis» sarà in cima all'agenda. «Il nuovo volto della fame è rappresentato dai milioni di persone che, a differenza di sei mesi fa, non hanno più di che sfamarsi. Serve un intervento della comunità mondiale su ampia scala e di alto livello, incentrato sull'emergenza e su soluzioni di lungo periodo», ha spiegato Sheeran. Le analisi condotte dal Pam, si legge in una nota diffusa dall'organismo internazionale, coincidono con le stime della Banca mondiale: circa 100 milioni di persone si sono ulteriormente impoverite a causa degli alti prezzi degli alimenti.
Secondo Sheeran la sfida alimentare è la priorità del secolo e richiede una mobilitazione globale come avvenne nel dicembre 2004, quando un'onda anomala di proporzioni gigantesche investì il Sud Est asiatico e l'oceano Indiano causando 250mila vittime e lasciando circa 10 milioni di persone senza casa. Allora furono stanziati 12 miliardi di dollari per la ricostruzione, ma per Sheeran «le risorse immediate sono urgentissime, tuttavia allo stesso modo sarebbero inutili senza strategie a lungo termine». Strategie che sappiano far fronte al nuovo peso del volume umano sul pianeta. Una versione che è stata ribadita anche a Bruxelles, dove la Commissione europea ha deciso ieri di stanziare un pacchetto di 117,25 milioni di euro. «L'aumento dei prezzi alimentari di base è un disastro umanitario in corso», ha sintetizzato in una nota il commissario europeo allo Sviluppo, Louis Michel. «E' una sfida globale che richiede soluzioni di lungo termine, ma l'emergenza è adesso: abbiamo l'obbligo di agire, e agire rapidamente».
E mentre in Italia siamo alla preistoria, alla ricerca di chimere energetiche con la solita mentalità da abuso edilizio in salsa ambientale, come la disastrosa ipotesi di ritorno al nucleare che da noi viene evocata da interessi, malafede e ingoranza bipartisan, altrove si discute seriamente di ambiente, energia e mercati - la combinazione che poi è "solo" la principale sfida alla sopravvivenza umana. Come in Germania, un Paese vicino all'Italia ma lontanissimo dai nostri confini in termini di consapevolezza, responsabilità (collettive e individuali) e civilizzazione politica quando si parla di ecologia. Angela Merkel, che governa la coalizione Cdu-Spd e non un manipolo di eco warriors, non solo ha deciso in modo autonomo e responsabile di alzare gli standard ambientali tedeschi rispetto a quelli del protocollo di Kyoto (che l'Italia non rispetta facendo collezione di multe, ammonimenti e figure da mascalzoni a Bruxelles), ma in queste settimane sta dibattendo, in una discussione vera che divide ministri e cittadini, il nodo dei biocarburanti. Berlino ha infatti varato da tempo programmi per incentivare i biocombustibili, tuttavia proprio le produzioni agricole destinate all'energia sono tra le grandi responsabili dell'impennata dei prezzi alimentari.
E così la ministra dell'agricoltura, Heidemarie Wieczorek-Zeul (Spd), ha avuto l'onestà di fare mea culpa invitando a fare marcia indietro e diffondendo un dossier dal titolo "Produzione di carburanti derivati dall'agricoltura". «Uno dei fattori inflazionistici principali è rappresentato dalla concorrenza tra la produzione alimentare e la produzione di biomasse per l'estrazione di energia dall'agricoltura», recita il documento secondo cui la produzione di energia ricavata dal granturco contribuirà per il 26%-72% all'aumento dei prezzi alimentari entro il 2020. Diversa la posizione della Merkel, la quale la settimana scorsa ha dato l'impressione di voler prendere le difese dei produttori di biocarburanti, anche se in modo del tutto civile. Intervenuta giovedì scorso in Sassonia all'inaugurazione del primo impianto di raffinazione al mondo capace di ricavare combustibile liquido dal legno e altre biomasse non alimentari, la cancelliera ha puntato il dito contro i paesi in via di sviluppo. In particolare India e Cina, «le cui politiche agricole inadeguate si sono sommate a previsioni insufficienti dei cambiamenti delle abitudini alimentari». In altre parole, sono tanti. E mangiano pure loro. Pensa un po'.


23/04/2008

Bolla petrolifera

Quei rivoluzionari de Il Sole 24 ore l'hanno scritto all'inizio di giugno: attenzione alla «trappola del greggio virtuale»

Sabina Morandi
Quei rivoluzionari de Il Sole 24 ore l'hanno scritto all'inizio di giugno: attenzione alla «trappola del greggio virtuale». Cosa sia il "greggio virtuale" è presto detto: ogni giorno nel mondo vengono estratti 85 milioni di barili ma ne vengono scambiati circa un miliardo. Sono appunto i barili virtuali che passano di mano sulla piazza della New York Mercantile Exchange, meglio nota come Nymex, o della britannica Intercontinental Exchange (Ice). Peccato che il prezzo determinato da questo scambio frenetico sia invece più che reale e influisca pesantemente sul costo di ogni merce visto che ogni merce viene prodotta, e trasportata, con il petrolio reale. Dimenticate quindi tutte le leggi della domanda e dell'offerta, che richiedono comunque del tempo per far sentire i loro effetti. Al Nymex si viaggia alla velocità dei byte, e non ci si sofferma certo a registrare i cali della produzione causati dall'invecchiamento dei giacimenti né l'aumento della domanda dovuto alla grande sete di India e Cina.
Come scrive Roberto Capezzuoli sul Sole «il vistoso scollamento tra le borse e il mercato fisico testimonia che l'attuale modello di contrattazioni è da cambiare». Non colpa del picco, quindi, anche se era prevedibile che i primi segnali di declino produttivo avrebbero acceso la miccia della speculazione, ma nemmeno la crescita economica di alcuni paesi, ma «Le grandi borse merci, punti di riferimento per tutti gli scambi, hanno le loro colpe e abusano della permissiva condotta di chi ne detta le norme». Oltretutto negli ultimi anni, più che dettarle, i governi non hanno fatto che cancellarle. Negli Stati Uniti è stato il Commodity futures modernization act del 2000, a spalancare la porta ai capitali diretti verso le materie prime, limitando i poteri della Commodity futures trading commission (Cftc) che dal 1974 ha il compito di vigilare sugli scambi. In Gran Bretagna la Financial services authority ha allentato ancora di più le redini facendo dell'Ice di Londra un mercato in cui le regole sono l'eccezione, come ha lasciato intendere il senatore americano Carl Levin parlando delle inchieste sulle manipolazioni dei prezzi che Senato e Cftc stanno portando avanti da dicembre.
Il problema è che, chi si occupa di petrolio, ci capisce assai poco di borsa. Potrà stupire noi profani (anzi, per la verità ci terrorizza) ma i petrolieri sono impreparati perché c'è una grande differenza fra il petrolio vero e quello virtuale, e sono molto diversi i meccanismi che regolano i due mercati. I capisaldi del mercato petrolifero reale sono la standardizzazione, la cassa di compensazione (clearing house) e soprattutto la liquidità. In sostanza, perché un mercato funzioni un po' di speculazione è necessaria, ma può assumere direzioni opposte rispetto a quelle di chi usa i futures per proteggersi dagli imprevisti movimenti dei prezzi, che poi sarebbe la loro finalità originaria. Il denaro serve per la compravendita e il versamento dei margini di garanzia, generalmente meno onerosi nel caso di chi fa hedging, cioè chi protegge la propria attività, e più costosi per chi opera da speculatore. E poi serve la merce da consegnare a chi decida di esercitare il diritto normalmente riservato al possessore di un future di acquisto.
Oggi invece il petrolio non si consegna. All'Ice di Londra, per esempio, chi ha un contratto di vendita sul Brent (il greggio di riferimento nord-europeo) potrebbe anche decidere di portarlo a scadenza e consegnare la merce. Quindi ci sono decine di petroliere cariche che girano per gli oceani (consumando combustibile ricavato dal petrolio vero) in cerca di una destinazione. Quale migliore dimostrazione dello scollamento tra mercato borsistico e mercato reale? Il problema è che anche i depositi verso cui dirigersi sono virtuali - ma almeno per il Brent europeo l'Ice prevede l'opzione della compensazione monetaria mentre per i future che si scambiano sul Wti (il greggio americano), la consegna fisica non è nemmeno contemplata. Sugli scambi over-the-counter, fuori listino e privi regole, praticamente si è perso ogni controllo.
Anche sulla piazza di New York le norme sono molto blande. Chi volesse consegnare il greggio Wti potrebbe farlo, ma solo a Cushing, in Oklahoma, dove la capienza è di una ventina di milioni di barili, 50 volte meno degli scambi giornalieri che si verificano al Nymex. Oltretutto i margini speculativi (più alti) non vengono mai versati. Chi non ha un'attività che giustifichi un determinato volume di operazioni di copertura, può comunque operare tramite uno dei grandi soci della Borsa stessa, evitando il maggior onere finanziario e non rischiando niente. Una roulette truccata praticamente irresistibile per le (solite) grandi banche d'affari che stanno accumulando profitti da capogiro. Il deputato democratico Bart Stupak ha puntato il dito contro Goldman Sachs e Morgan Stanley, accusandole di manipolare artificiosamente le quotazioni. Niente di più facile, e tutto alla luce del sole. Appena l'analista della Goldman Sachs, Arjun Murti, ha parlato di 200 dollari al barile entro due anni, i prezzi sono schizzati alle stelle. Motivo? La profezia si avvera da sola se, a sorreggerla, c'è una tale potenza finanziaria: puntare su un'altra carta sarebbe semplicemente suicida.
Del resto, uno che ci capisce, in una recente audizione ha fornito la sua candida spiegazione al Senato americano: «Ci sono tutti i segnali di una bolla, ma non scoppierà tanto presto. Quanto ai margini speculativi, alzarli potrebbe scoraggiare qualcuno, ma sarebbe inutile». Si chiamava George Soros.


Liberazione 14/06/2008

Percezione

La scorsa settimana abbiamo detto che Georges Simenon era francese. Scriveva in francese, ha vissuto buona parte della sua vita in Francia, il suo successo è cominciato quand'è arrivato a Parigi. Spesso si pensa che fosse francese. Ma non è vero: Simenon era belga. "Percezione" è una parola che va di gran moda, oggi. Viene usata per dire che l'impressione, la sensazione, l'immagine soggettiva che uno ha della realtà possono essere tenute in considerazione almeno quanto la realtà stessa. In nome del rispetto delle singole sensibilità. Così, indagare e descrivere la realtà diventa un esercizio inutile. Le statistiche dicono che i crimini sono in calo? Non importa, perché la "percezione" dell'aumento dell'insicurezza è reale quanto il reale aumento della sicurezza. E questo giustifica che se ne tenga conto con provvedimenti legislativi sproporzionati. Ma al di là della percezione, il punto è che Simenon era belga, non francese. E dire il contrario è semplicemente sbagliato.

Giovanni De Mauro
Internazionale 746 | 30 maggio / 5 giugno 2008

sabato 7 giugno 2008

Vertice FAO

Roma non è Cancun, e il Wto rientra dalla finestra della crisi alimentare. Votata la dichiarazione finale
ma con le note critiche di Argentina, Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua. Furiose le Ong
Fao, un piccolo, brutto accordo:
Sì al mercato, No ai diritti

Sabina Morandi
Quando la riunione plenaria conclusiva si è aperta con cinque o sei ore di ritardo ed è stata subito interrotta, s'è sentito il sapore della farsa. Della farsa, o quanto meno del caos che regnava all'interno del palazzo della Fao se comincia una plenaria senza la delegazione europea. Erano le 18 e 50, e l'imbarazzante stallo ancora non si era risolto. Riprendono, alle 19 e 30, con la protesta dei delegati che, sostengono «non sono stati sufficientemente informati». Alle 20 l'approvazione del rapporto del Comitato plenario, il primo documento finale della Conferenza, viene bloccato dall'Argentina, che non vuole vedersi imposte regole sulle restrizioni all'export. Poi Cuba e Venezuela parlano di «supposta maggioranza» per ben due volte, e i toni sono durissimi. «E' disdicevole continuare così, non pensiamo più a quelli che soffrono» tuona il delegato del Congo.
E' in questo clima che viene approvata la dichiarazione finale, dopo 72 ore di trattative e l'opposizione dell'Argentina ha fatto aggiungere la sua dissociazione, in coda al documento: un clima da Wto, ovvero da organizzazione mondiale del commercio, che non ci si aspettava certo di trovare all'interno del palazzo di un'organizzazione dovrebbe occuparsi della fame nel mondo. Così, dopo la passerella dei capi di Stato, i vergognosi banchetti e le photo opportunity, ieri alla Fao è stato il giorno della resa dei conti.

Argentina, Venezuela, Cuba e Congo si dissociano dal documento finale. Furiose le Ong e gli esponenti dei piccoli contadini
Fao, il vertice finisce in rissa
Accordo in nome del mercato

Sabina Morandi
Certo, fin dalle prime ore della mattina è stato subito chiaro le cose non erano così lisce come le stanno dipingendo i telegiornali. Sul documento conclusivo - che doveva essere pronto già in mattinata - si è scatenato un braccio di ferro imprevisto durato tutto il giorno. Prima si è messa di traverso l'Argentina, che rivendica il diritto dei paesi produttori di sospendere le esportazioni in caso di grave crisi alimentare. Poi si sono impuntati i paesi del G77 - ovvero i più poveri ma anche Cina, India Brasile e Argentina - a rifiutarsi di firmare un documento dal quale sono sparite le riflessioni sulle speculazioni finanziarie e sono ricomparse invece, pesantemente, tutte le indicazioni sul ciclo di Doha. Insomma: visto che dal '99 il Wto non riesce a sbloccarsi nelle sedi appropriate ecco che qualche genio ha pensato bene di farlo rientrare dalla finestra della Fao incontrando, com'era prevedibile, esattamente lo stesso tipo opposizione. Davvero scandaloso il paragrafo che condiziona gli aiuti per l'agricoltura all'adesione di un ciclo di negoziati - appunto Doha - che nelle sedi opportune è stato respinto per ben due volte, a Cancun e ad Hong Kong.
Una dichiarazione pessima che spiega lo spettacolo imbarazzante delle ultime ore, dove i generici appelli alla sovranità alimentare sono smentiti dagli inviti a «utilizzare il meno possibile strumenti restrittivi che possono incrementare la volatilità dei prezzi internazionali». Insomma, se decido di accumulare derrate alimentari per evitare la carestia rischio di falsare il mercato più dei traders che scommettono sui prezzi futuri della borsa di Chicago. Chissà cosa intendono con la parola "sovranità" gli estensori del documento. Un tantino di prudenza sui biocombustibili che «vanno ancora studiati» ma che sono certamente «un'opportunità», per non fare arrabbiare i brasiliani. Un po' di «assistenza tecnica per incrementare la produzione agricola» che sta per biotecnologie, ovvero agrobusiness, e qualche spicciolo per i piccoli agricoltori che «vano aiutati», sempre che i loro governanti accettino di piegarsi ai dictat Wto. Peggio di così è difficile fare.
La bozza della dichiarazione finale, circolata in mattinata, aveva già fatto infuriare i rappresentanti dei piccoli agricoltori, dei pescatori artigianali, degli indigeni e delle organizzazioni della società civile e i movimenti sociali riuniti in conferenza stampa per portare le conclusioni del controvertice Terra Preta. Bisogna dire che il clima era già incandescente per il trattamento che viene riservato loro in questo vertice: il "dialogo" con quelli che sono poi i veri protagonisti delle politiche agricole, e che rappresentano anche numericamente la realtà più consistente del pianete, si è ridotto a una stretta di mano nell'atrio e a un saluto in sala stampa da parte del direttore generale Jacques Djouf. Niente male come processo di consultazione democratica. Del resto la Fao smentisce i propri stessi tecnici che in una sala parlano di aumento della produttività e in un'altra s'indignano per «il perdurare della fame visto che adesso ci sarebbe da mangiare per tutti» come ha detto la responsabile del Pam. Ma se la produzione non è in calo e la domanda è soddisfatta, cos'è che genera la crisi dei prezzi?
Per Maryam Rahmanian di Cenesta (Iran) sono semplicemente i risultati della strategia perseguita da Banca Mondiale e Fondo Monetario fin dal '96, quando cominciò l'assalto alla sovranità alimentare. A questo bisogna aggiungere il cambiamento climatico, l'avvento dei biocombustibili ma, soprattutto, la speculazione sui future alimentari che sta portando i prezzi alle stelle. Al primo posto della piattaforma di azione collettiva la coalizione internazionale mette infatti «il blocco immediato di questo tipo di scambi chiedendo ai governi di avviare procedimenti giuridici a favore delle vittime dell'emergenza alimentare e contro gli speculatori». Rahmanian sottolinea anche il ruolo che i piccoli agricoltori possono giocare nella lotta al cambiamento climatico «perché sono parte della soluzione, e non del problema». Resta il fatto che, «mai, come in questo vertice, i veri attori della crisi non hanno trovato voce».
Flavio Valente di FIAN (la sigla che riunisce movimenti e cooperative sociali del Brasile) non ha dubbi: se vengono proposte le stesse soluzioni di sempre, quelle che hanno portato alla crisi, è perché in realtà «ci sono due agende, una dei piccoli agricoltori, il cui ruolo viene riconosciuto solo nominalmente, e l'altra che punta a mettere sotto il controllo delle grandi imprese l'intero mercato alimentare globale» e in quest'ottica la crisi è un'opportunità che nessuno ha interesse di risolvere. «L'esclusione totale della società civile» sottolinea Valente «era necessaria per perseguire il proprio obiettivo, che non è risolvere la crisi alimentare ma sbloccare i negoziati di Doha» ed è per questo che vengono proposte soluzioni che non solo non garantiscono la sovranità alimentare ma la riducono direttamente come un'ulteriore estensione delle monoculture destinate all'export, gli agrocombustibili e i monopoli, sempre più rafforzati dall'impiego della chimica e dei semi sotto brevetto. Per Ndougou Fall di Roppa, il sindacato agricolo dell'Africa occidentale che rappresenta da solo 45 milioni di contadini rivendica «il diritto di proteggere i mercati locali dall'invasione dei prodotti delle multinazionali» e si domanda perché, «dopo aver riconosciuto l'importanza dei piccoli agricoltori per la sicurezza alimentare, per la lotta al cambiamento climatico e per il mantenimento della biodiversità, poi si è deciso di imboccare tutta un'altra strada». Come i rappresentanti delle altre organizzazioni presenti alla conferenza stampa - da Oxfam al Movimento Sem Terra, da Friends of Earth al World Forum of Fisher Peoples passando per Via Campesina - anche Fall sottolinea l'assenza di dialogo: «I nostri paesi sono colpiti duramente dalla crisi, per questo sono qui. Speravamo di interagire con le autorità visto che siamo protagonisti quanto gli esperti, ma l'interazione non c'è stata».
Come evitare che la crisi attuale sia utilizzata dalle elite politiche ed economiche come quella del 1974 che, come, ricorda il documento conclusivo dell'International NGO/CSO Planning Committee for Food Sovereignity, venne utilizzata per frammentare le istituzioni internazionali e lanciare la devastate stagione dei piani di aggiustamento strutturale? Prima di tutto è necessaria l'istituzione di una Commissione sulla sovranità alimentare sotto l'egida delle Nazioni Unite, formata dai rappresentanti dei governi e delle organizzazioni di contadini, pescatori, indigeni e pastori, in cui vengano identificate in modo collegiale le strategie per uscire dalla crisi. In secondo luogo ci si propone di chiedere, in tempi brevi, che I governi «avviino procedimenti giuridici a favore delle vittime dell'emergenza alimentare, tendendo in considerazione, attraverso procedimenti criminali, le società e le istituzioni (inclusi i governi), le cui azioni, traendo profitto dagli input dei prodotti agricoli, hanno legato alle comunità il loro diritto al cibo». Una dichiarazione di guerra alla speculazione, insomma, in attesa che «la crisi alimentare venga finalmente trattata come un crimine contro l'umanità» come ha concluso Herman Kumara (Sri Lanka) rappresentante del Forum mondiale dei pescatori artigianali.
Chi si pensava che lorsignori avrebbero fatto qualcosa per scongiurare la carestia globale era destinato fin dall'inizio a rimanere deluso, ma certo nessuno si aspettava di assistere a questo spettacolo. Evidentemente, secondo la logica ormai nota del "capitalismo delle catastrofi", il vertice sulla crisi alimentare serviva solo ad aprire la strada a «un serio tentativo dell'agenda delle corporation, di mettere le mani sulle Nazioni Unite» come ha detto Antonio Onorati di Crocevia. Un tentativo che è riuscito sulla carta, ma al prezzo di sacrificare quel minimo di credibilità che i governi - e le Nazioni Unite - ancora avevano. E' passata la solita lista di regole inapplicabili che i governi - e lo dimostra la mezza rivolta che ha accompagnato la faticosa l'approvazione finale - non potranno mai rispettare. Perché i contadini puoi anche non farli parlare ma i loro governi sanno che alla fine è con loro che dovranno fare i conti: nel caos alimentare provocato dai fondamentalisti del libero commercio, gente che non arretra nemmeno di fronte alla prospettiva di una carestia globale, soltanto i contadini potranno darci da mangiare.


Liberazione 06/06/2008