martedì 23 settembre 2008

Il Giappone compra

Il Giappone compra, è la crisi
La crisi bancaria americana si trasforma in un'opportunità per il ritorno in forze dei colossi finanziari giapponesi. Oggi da Tokyo sono stati confermati due "colpi" importanti che hanno come prede altrettante (ex)merchant bank americane.

Il gruppo nipponico Nomura Holdings acquista tutta la filiale asiatica di Lehman Brothers, la banca d'affari fallita all'inizio della scorsa settimana. La Nomura rileva integralmente le divisioni della Lehman insediate nell'area Asia-Pacifico, inclusi gli uffici in Giappone e in Australia, con un totale di 3.000 dipendenti. Il prezzo di acquisto è stato concordato a 525 milioni di dollari, che entreranno nella procedura di liquidazione della casa madre newyorchese.

La stessa Nomura è in gara con altri potenziali acquirenti per rilevare anche le filiali europee della Lehman, che hanno complessivamente 6.000 dipendenti. Tra i suoi rivali per la parte europea c'è la banca inglese Barclays, che ha già acquistato la maggior parte delle attività americane di Lehman.

L'altro colpo è stato messo a segno dal Mitsubishi Ufj Financial Group, con l'acquisto del 20% del capitale di Morgan Stanley. L'operazione è stata annunciata in concomitanza con il cambiamento di statuto della Morgan Stanley, che come la Goldman Sachs ha deciso di trasformarsi in una normale holding bancaria, dopo 73 anni di storia come investment bank.

In conseguenza del suo ingresso nell'azionariato di Morgan Stanley, il gruppo giapponese Mitsubishi avrà il diritto di nominare almeno un rappresentante nel consiglio d'amministrazione della banca americana. Un anno fa, quando già cominciava a soffrire pesanti ripercussioni della crisi dei mutui, la Morgan Stanley aveva venduto il 9,9% del suo capitale al fondo sovrano della Repubblica Popolare cinese. In quanto alla Mitsubishi, la sua strategia di espansione negli Stati Uniti è completata dall'acquisto del controllo totale della banca UnionBanCal, di cui era già azionista.

Repubblica, 22 settembre 2008

domenica 21 settembre 2008

Inchiesta della Fiom

"La voce di 100mila lavoratrici e lavoratori", l'inchiesta della Fiom sulle condizioni del lavoro

Fabio Sebastiani
L'inchiesta della Fiom è il frutto di un lavoro organizzato ma anche una enorme risposta di massa, con quattrocentomila questionari distribuiti e centomila tornati indietro compilati. Se la stessa operazione fosse stata fatta da istituti di ricerca o società demoscopiche più blasonate sarebbe stata al centro di commenti e riprese giornalistiche a non finire. Ma quello che abbiamo in Italia è un sistema informativo che censura la realtà. La nostra è una inchiesta importante e adeguata nei numeri. Eppure, l'eco è stata scarsa. Voglio ricordare che i questionari con circa cento domande non erano proprio una passeggiata per chi li ha compilati, nella stragrande maggioranza dei casi operai tra il terzo e il quinto livello che hanno poco tempo a disposizione. Per rispondere a tutte hanno avuto bisogno almeno di un'ora-un'ora e mezza, tanto che se lo sono dovuto portare a casa. La prima risposta, se così possiamo dire, è stata quindi in termini di bisogno di partecipazione e offerta di disponibilità. Un bisogno evidentemente di questi tempi non coperto da una offerta altrettanto adeguata.

Che cosa emerge con più nettezza dall'inchiesta?
Oltre alla conferma più scontata, come quella sui bassi salari, emerge con forza il definitivo seppellimento del concetto del post-fordismo. In genere i termini con il suffisso "post" risultano ambigui. In questo caso quello che si può dire con estrema sicurezza, però, è che siamo entrati in un nuovo sistema di sfruttamento che in molti punti non recide certo i legami con il sistema tayloristico del passato. Ad intensità e durata aggiunge la richiesta di un ulteriore livello di dedizione e di disponibilità mentale da parte dei lavoratori. Non hanno rinunciato a prendere il corpo e aggiungono la richiesta dell'anima. Ciò, in fondo, rispecchia il passaggio che stiamo vivendo: dall'idea della concertazione, ovvero del lavoro contratto entro certe compatibilità, alla complicità, così come si desume dal Libro Verde del Governo. Il lavoratore deve essere efficiente e complice con l'impresa. Ed identificarsi totalmente con essa. C'è un enorme potenziale autoritario perché c'è la carota da una parte e il bastone per chi non è complice. Dall'inchiesta vengono fuori alte percentuali di lavoratori che denunciano sopraffazioni e autoritarismo. Stupisce il fatto che in qualche caso c'è addirittura violenza fisica. Colpisce il fatto che la grande maggioranza delle tute blu indicano chiaramente come improponibile continuare a svolgere la stessa mansione fino ai sessanta anni. Anche i giovani e diverse fasce di impiegati non hanno problemi a parlare di taylorismo. E pèoi le denunce sui livelli di nocività. Insomma, una condizione di lavoro in cui sfruttamento antico e post-moderno si sommano.

Che scenario stanno disegnando con la complicità?
La complicità è la collaborazione aziendale nell'epoca in cui si punta dritto alla distruzione del contratto nazionale di lavoro. In pratica, c'è il ritorno al cottimo, alla paga che non è certa. E se lavori meno sono guai. Si punta a una nuolva fedeltà del mondo del lavoro e a una modifica strutturale del sindacato. Le compatibilità non vengono definite a livello di sistema ma azienda per azienda. Il progetto, il loro sogno, è quello di avere la totale individualizzazione del contratto di lavoro.

Starei attento a chiamarlo progetto. Non ha dignità di nulla una cosa così.
E' vero. C'è solo l'ideologia del salario legato alla produttività. Dal punto di vista organizzativo è, peraltro, una stupidaggine bella e buona. La stessa inchiesta dice che non ci sono i margini. Quell'idea può andare bene per qualche ganglio arretrato della pubblica amministrazione, che non ha niente a che vedere con tutto il resto della realtà produttiva. Questa in realtà ha basi standardizzate, e c'è un livello di produttività che non è misurabile individualmente. Quindi legare il salario alla produttività è un ritorno al passato. Segno evidente di una incapacità delle imprese ad affrontare senza la realtà della globalizzazione senza ricorrere a regressioni autoritarie.

Come si può definire un quadro di questo genere?
L'unica parola che mi viene in mente è "fascismo", nel senso storico. Le classi dominanti di fronte al nodo dell'innovazione non elaborano alcun avanzamento sociale. Anzi, l'opposto. Per affrontare questa fase occorrerebbero nuove forme di partecipazione. Un sistema progressivo che affronti la fase nuova. Il salario sta alla produttività come la precarietà sta al mercato del lavoro. Puri strumenti di potere che permettono di controllare e ridurre la libertà dei lavoratori.

Questo che riflessi ha sul sindacato?
C'è una crisi totale della Cgil perché ha sempre pensato di conciliare compatibilità e contrattazione collettiva, sistema dei diritti. Questa strategia non è riuscita. Oggi però il bivio è secco: o il sindacato dei servizi e del mercato del lavoro che pretende di fare la Cisl - modello che contempla un preciso e ordinato scambio con le aziende sulla base della complicità - oppure un sindacato che ricostruisce una logica conflittuale e di classe. E quindi si pone l'obiettivo di forzare. La Cgil rischia la crisi più drammatica della sua storia, perfino la sua stessa esistenza.

Cambiamo argomento. O meglio, approfondiamo questa questione della crisi della Cgil, se vuoi per altri percorsi. Come viene inquadrato nell'inchiesta il tema della rappresentanza?
L'inchiesta è stata condotta in luoghi di lavoro sindacalizzati. La metà delle risposte viene dagli iscritti al sindacato. In quelle aziende il sindacato c'è. Siamo nella parte più organizzata del mondo del lavoro. E' la parte del lavoro che sta meglio. Immaginiamoci allora quelli che stanno peggio. Nel questionario non ci sono domande sul sindacato e la politica. Il quadro che emerge è l'idea del pessimismo che, certo, indirettamente si può trasferire al sindacato. Proprio per questo penso che la discussione politica nel sindacato ha un motivo in più per prendere in considerazione i risultati dell'inchiesta. Ci si dovrebbe chiedere cosa fa il sindacato. Perché comunque dall'inchiesta arriva una domanda altissima di sindacato. E' chiaro però che per affrontare questi temi servirebbe una seconda inchiesta.

E nella Fiom che dibattito ha provocato?
Per la Fiom l'uso di questi dati va in due direzioni. La prima, la battaglia più generale per il contratto nazionale; la seconda verso l'articolazione del conflitto nelle vertenze aziendali e il ripensamento della rappresentanza, che tende ad essere una rappresentanza, nelle medie e nelle grandi aziende, slegata dalla condizione di lavoro. Qui si vede il vuoto lasciato dal superamento dei delegati di reparto e il superamento dei consigli.

Avete indagato anche sui migranti. Cosa emerge?
Sui migranti, comunque, l'inchiesta indica elementi che riguardano direttamente il sindacato. Siamo di fronte al fatto che c'è marginalità. Il peso che hanno nella vita del sindacato è infimo rispetto al loro peso reale. Se c'è una realtà che dimostra che la formazione non conta è proprio la condizione dei migranti. Gran parte di loro hanno un alto livello di istruzione, eppure stanno dal terzo livello in giù.


Liberazione 21/09/2008

sabato 20 settembre 2008

Lo Stato interviene e "salva" il capitalismo

Bush paga 50 miliardi e fa volare le Borse
Capitalismo salvato dallo Stato coi soldi dei contribuenti

Salvatore Cannavò
Mentre in Italia Tremonti dice no alla nazionalizzazione dell'Alitalia - quando si era appena cimentato con un elogio dell'interventismo pubblico - gli Usa decidono di intervenire a sostegno della crisi con il piano più imponente che si ricordi. Sono 50 i miliardi impegnati dal Tesoro americano ma fonti del Congresso parlano di un sostegno complessivo pari a mille miliardi di dollari. Ieri Bush ha parlato alla Nazione assicurando che "nessuno ci rimetterà un dollaro" e che la decisione con cui il suo governo cercherà di tamponare la falla è pari all'entità della crisi stessa. Bush è sembrato scusarsi nel suo breve ma impegnativo discorso quando ha dovuto ammettere che la sua Amministrazione, fautrice convinta del libero mercato, si vede oggi costretta a scegliere l'interventismo. A Washington si parla di qualcosa che potrebbe assomigliare a una sorta di "Iri" americana per il settore bancario e dei mutui, per alleggerire le banche dei crediti inesigibili e consentire al sistema di riprendersi. Un po' sulle orme di quanto fece Ronald Reagan negli anni 80 per risolvere la crisi delle Casse di risparmio.
Il capitalismo Usa, sostenitore ardente del libero mercato, ha risposto a questa manovra con un exploit del mercato borsistico che si è riflettuto nel mondo intero: balzi del 5-6% hanno interessato i mercati azionari europei con Milano che ha chiuso a +7,7 mentre la borsa di Mosca è stata sospesa per eccesso di rialzo. Grande euforia anche a New York che ha segnato un +4%. Ancora una volta, quindi, dal 1929 in poi, il mercato ricorre all'aiuto dello Stato - Bush ha avvertito che l'intervento costerà "molto caro" ai contribuenti statunitensi - per salvarsi dalle sue contraddizioni e ancora una volta il tanto vituperato intervento pubblico viene adottato per salvare un capitalismo con l'acqua alla gola. Il bello è che c'è ancora qualcuno che prova a negare l'evidenza.
Nell'editoriale del «Corriere della Sera» di ieri, ad esempio, Piero Ostellino dispensa un'altra delle sue magistrali lezioni. "A ogni crisi del capitalismo - scrive - i suoi nemici ne hanno attribuito la causa al mercato. Che poi vuol dire all'avidità dei capitalisti". Saremmo tentati di sottoscrivere quest'affermazione, ma il "sommo" maestro precisa con ardore: ma è vero che "la crisi del 1929 e quella attuale (…) siano dovute al mercato e all'avidità dei capitalisti?". A sentire l'alta autorità giornalistica del "Corriere" non è cosi. Sia nel 1929 che oggi a produrre la crisi sarebbe stata la Federal Reserve, cioè la Banca centrale americana, cioè il potere politico, cioè il pubblico che interviene in economia invece della "spontanea dinamica della domanda e dell'offerta di denaro". Sono "fatti", scrive Ostellino, ed è buona regola "attenersi rigorosamente ai fatti". Bene, guardiamo i fatti. E' un fatto o no che la "spontanea dinamica" del mercato che si realizza quotidianamente in Borsa sia euforica perché gli Usa hanno intenzione di salvare pezzi della propria economia? Ed è un fatto o no che lo stesso è avvenuto puntualmente ad ogni occasione. Le borse, cioè la libera dinamica del mercato, fanno poi molto di più: festeggiano a ogni "intervento pubblico" che giudicano favorevole. Quindi, se in epoca di crisi lo Stato acquista e occupa l'economia fanno festa; ma lo stesso fanno quando invece viene varato un piano di privatizzazioni o una politica di precarizzazione del lavoro. Insomma, è un fatto che il libero mercato fa i suoi interessi e che questo non coincide mai, ma proprio mai, con l'interesse collettivo. Addebitare alla Federal Reserve le responsabilità della crisi significa scambiare le cause con gli effetti e far finta di non vedere come questo intervento pubblico sia semplicemente al servizio del mercato e cerchi di mantenere alto il saggio di profitto. Anche qui vediamo i fatti.
La politica del pareggio di bilancio seguita da Clinton nel corso degli anni 90 ha depresso l'economia statunitense, tagliando la spesa pubblica e restringendo la domanda. La Federal Reseve di Alan Greenspan (il banchiere centrale più adorato a suo tempo, oggi disprezzato) si mosse allora per cercare di dare una riposta a questa contraddizione lavorando per gonfiare i prezzi dei valori mobiliari e compensare così con il rialzo dei corsi azionari la depressione dei profitti. Questa politica fu sconfessata dal crollo del 2000-2001 ma, senza ripensamenti o dubbi, fu ripresa subito dopo tramite il rigonfiamento dei valori immobiliari tramite la riduzione drastica dei tassi di interesse (tassi molto bassi, mutui molto vantaggiosi, famiglie con la percezione di un reddito molto più alto, aumento della domanda, sostegno ai profitti). E' evidente che questo intervento pubblico sia stato disastroso e abbia generato il crollo in corso oggi. Ma non era un intervento pubblico fine a se stesso bensì un corposo e concreto tentativo di dare una mano al libero mercato. Lo stesso fa oggi la Federal Reserve quando interviene con 29 miliardi di dollari per Bear Stearns o con gli 85 che consentono di salvare Aig. E in fondo cosa fa Berlusconi con Alitalia se non organizzare un intervento pubblico - leggi modifica alla Legge Marzano - per aiutare la cordata dei "capitani scrocconi" travestiti da libero mercato?
Tutta la storia del capitalismo è una storia di aiuti di Stato, di interventi pubblici e di ruolo dei governi. Anche quando ha teorizzato il liberismo più sfrenato il governo è intervenuto con privatizzazioni e leggi ad hoc, su scala sopranazionale, costruendo gabbie mortali come il Wto o la stessa Unione europea. Lo ha fatto in maniera morbida, come con D'Alema al tempo della "madre di tutte le Opa", quella di Colaninno su Telecom, o in forma feroce come ha fatto oggi Berlusconi con Alitalia (guarda caso, sempre con Colaninno: l'aiuto dei governi a volte è una droga).
Per questo non è credibile il rimbrotto di Tremonti e la sua propaganda sul ritorno alle regole e all'intervento pubblico. Non esiste un intervento pubblico neutro ma una politica economica e/o industriale al servizio di un disegno e di una strategia. Per quanto ci riguarda, ad esempio, non pensiamo affatto che l'economia pubblica possa prendere a modello le vecchie Partecipazioni Statali di democristiana e burocratica memoria (anche se hanno fatto più loro per il paese che le privatizzazioni e le regalìe degli ultimi venti anni: si pensi a Telecom o Autostrade). Un intervento pubblico oggi non potrebbe che essere partecipato, prevedere il protagonismo dei lavoratori, possedere una solida dimensione ambientalista. Quello di Tremonti non ha niente a che vedere con queste coordinate ma sembra soprattutto un "interventismo di complemento", buono per guadagnarsi l'appoggio di un capitalismo in affanno che non ha la forza per reggere all'urto di una crisi acutissima. Un capitalismo da "furbetti dell'aeroplanino": pronto a farsi bello sulla promessa di spazzare via i lavoratori e che se la da a gambe non appena questi dimostrino di essere vivi e pronti a combattere. Tutti, a cominciare dal Tg1, si sono scandalizzati per la gioia di Fiumicino al fallimento della trattativa. Ma sapete come ha reagito la Borsa? Ieri le società che fanno parte della cordata Cai hanno realizzato questi risultati: la Immsi di Colaninno veleggiava intorno a un + 6%, Benetton a +4 e Ligresti a +7 e l'IntesaSanPaolo di Corrado Passera a un bel +10%. Quando Tremonti pensa all'intervento pubblico ha in mente questi attori e i loro interessi. E quando dice che il suo credo è l'orinale motto di "Dio, Patria e famiglia", dimentica sempre di aggiungere "il capitale".

Liberazione 20/09/2008

martedì 16 settembre 2008

West Bengala

«I contadini hanno perso i loro campi ma l'impero delle auto non avrà vita facile»

Daniela Bezzi
Anuradha Talwar, 49 anni, è Presidente del Pbkms, acronimo che tradotto dal Bengali sta per Sindacato Agricolo del West Bengal. Avrebbe dovuto essere in Italia dal 4 settembre per il Forum Sbilanciamoci, ma l'acuirsi della tensione intorno agli investimenti Tata Motors per la produzione della famosa Nano Car nelle terre di Singur, in West Bengala, non le ha permesso di partire. Della vicenda Tata Motors, che l'ha vista protagonista, si parlerà domani, dalle ore 18, alla Casa Internazionale della Donna di Roma.
Di estrazione sociale agiata, studi a Delhi e poi allo stesso Istituto Tata di Scienze Sociali di Mumbai che ha formato Medha Patkar, di cui è stata allieva («per soli sei mesi, prima che Medha sparisse sul fiume Narmada dopo aver scoperto l'emergenza di quei territori sotto l'assedio del colossale progetto-dighe»), Anuradha condivide con il marito, Swapan Ganguly, l'impegno di organizzare le frange più marginali del settore agricolo, in Bengala: non solo i bargadars , ovvero i braccianti cui la riforma agraria degli anni '70 aveva garantito alcuni diritti, poi erosi; ma anche l'area immensa del bonded labour (lavoro a coazione, vincolato dai debiti, spesso accumulati da più generazioni), del lavoro minorile (soprattutto domestico), e dei lavoratori delle piantagioni di thè del Darjeeling, un tempo fiorenti e ora abbandonate, dove i morti per fame sono stati solo l'anno scorso più di 700. Vive in una comune agricola, poco fuori Kolkata con una ventina di famiglie «perché vivere in mezzo alla gente e nel verde è meglio». Sempre in prima linea, è protagonista della resistenza contro le requisizioni delle terre agricole di Singur: in più occasioni è stata malmenata e imprigionata.

11 giorni di picchettaggio, massiccio, ordinato, senza incidenti. Blocco della produzione negli ultimi sette giorni. Il potente Ratan Tata che si spazientisce e minaccia la serrata. Qual è il bilancio di questo ultimo capitolo di proteste intorno a quel muro che ha rubato le terre di Singur?
Dopo l'annuncio di Tata abbiamo avuto un temporaneo smarrimento, abbiamo dovuto renderci conto che la partita era chiusa e che, volenti o nolenti, la fabbrica andava "salvata", altrimenti ci saremmo trovati a rispondere anche dell'accusa di rallentare il processo di industrializzazione, di gettare nella disperazione chi aveva già venduto i terreni. Oggi, a mente fredda, penso che il solo fatto di aver gettato in un simile imbarazzo l'impero Tata, sia un bel risultato. Tutta la stampa internazionale ha dedicato al "caso Tata Motors" articoli tutt'altro che ostili, anzi direi sconcertati: hanno riportato (per esempio) l'iniquità di quelle indennità già pagate, ben al di sotto dei valori di mercato, oltre al volume di quelle ancora da pagare. Un simile scenario di ostilità e di avversione verso quella che era stata pubblicizzata come dream car , la topolino dell'India, il regalo di India shining alla gente qualsiasi… beh, se non altro a livello di visibilità, il bilancio è ottimo. E' stata una grande manifestazione di forza e unità. E nell'attuale scenario di conflittualità sulla questione della terra, in tutta l'India, già questo è una vittoria.

Ora però bisogna trattare, e la trattativa (anche mentre chiudiamo il pezzo, ndr) è ancora in corso presso la residenza del governatore del West Bengala. Cosa riuscirete a ottenere, realisticamente?
Nessuno ha mai sperato di poter riavere indietro tutti i terreni (circa 400 acri ndr ) occupati "illegalmente" due anni fa quando le trattative erano ancora in corso tra i villaggi - e i cui indennizzi non sono infatti mai stati accettati dai contadini. Alcuni terreni sono già stati, almeno in parte, edificati con i primi capannoni per l'indotto: che senso avrebbe pretenderne la restituzione? Vorrei però sottolineare il fatto che mentre due settimane fa la nostra richiesta suonava improponibile, già ieri mattina si parlava di un centinaio di acri sicuramente restituibili. Ci sarà una minoranza che riavrà indietro qualcosa e una maggior parte che rimarrà davvero senza niente. L'azione della nostra organizzazione si concentrerà su queste fasce di popolazione: braccianti, lavoranti a mezzadria, soprattutto donne, che prima dell'arrivo della Tata potevano contare su un numero di giornate equivalenti a un reddito tra i 450 e i 500 Euro all'anno (sic!), in questi ultimi due anni si sono trovati a guadagnare 3 o anche 4 volte meno e le donne hanno pagato il costo più alto. E ciò significa: fame. Ci batteremo perché tutti loro vengano indennizzati per tutte le giornate che hanno perso. Ma soprattutto c'è da capire come gestire il futuro. In India è stato varato tre anni fa uno strumento di welfare che si chiama Nrega (Legge Nazionale per l'Impiego Rurale Garantito) che dovrebbe garantire almeno 100 giornate lavorative all'anno, per tutti. Ma non ha mai funzionato. Nel caso di Singur dovranno farlo funzionare per forza, su questo non ci arrenderemo. Poi bisognerà capire come sarà possibile un minimo di attività agricola nelle aree coltivabili che ancora rimangono intorno al muro. Perché l'inquinamento industriale distruggerà i campi non solo negli immediati dintorni ma anche nel raggio di 5 o 7 chilometri. E questo grazie a un accordo che il prode Ratan Tata riuscì a strappare nel settembre 2006 al primo ministro Manmohan Singh - accordo che esenta l'intero settore dell'auto da qualsiasi vincolo ambientale. Come possiamo accettare una simile aggressione? E' in questione un problema di sovranità alimentare, diritto alla vita, alla salute! L'urgenza di queste richieste è stata sottolineata anche di recente. La risposta è stata: faremo il possibile.
Il blocco a oltranza si è concluso sì, e ha visto forse vittoriosa Tata Motors - ma ora comincia l'azione martellante delle rivendicazioni legali, caso per caso, villaggio per villaggio, campo per campo. E sarà dura. Perché la negligenza, il disinteresse, l'incuria con cui le nostre campagne sono state trattate è scandalosa. Basti pensare all'inenarrabile misera in cui versa la popolazione nelle ex piantagioni di the, ora abbandonate perché non più produttive, nel nord del Bengala: centinaia di morti per fame ogni anno. Siamo 21 organizzazioni diverse al lavoro sulle terre di Singur. E a questo è servito il movimento degli ultimi mesi: a darci compattezza, accrescere la solidarietà.

La protesta di Singur sembrava defunta, dopo la sentenza negativa dell'Alta Corte di Kolkata verso fine gennaio. Quali sono state le condizione che l'hanno fatta rinascere?
Quella sentenza fu un colpo tremendo per tutti. La gente si aspettava giustizia. Ma come sperare che una potenza come Tata Motors potesse venire umiliata dalla Corte dello stesso stato che gli ha praticamente regalato le terre? Incassato il colpo abbiamo ripreso il lavoro di base. Il 13 maggio è arrivata la sentenza avversa e pochi giorni dopo, il 21 maggio, ecco le elezioni locali per il rinnovo dei panchayat (consigli di villaggio, ndr ) e la rimonta del partito Trinamool di Mamta Banerjee, che essendo all'opposizione rispetto al Partito di governo (comunista) in West Bengala aveva cavalcato la vicenda di Singur fin dall'inizio. Una vittoria periferica, che però diede ad alcuni panchayat il coraggio di ostacolare l'operatività di Tata Motors: per esempio non "facilitando" il permesso per gli allacci della corrente elettrica, ostruendo il passaggio verso le cancellate di accesso in fabbrica, e così via. A fine giugno un pezzo di muro se ne va, sotto i picconi della rabbia contadina. Per tutto luglio sit in, dimostrazioni, crescita del movimento. Dai primi di agosto l'ultimatum: o ci si siede a discutere sui famosi 400 acri in contenzioso, oppure il 24 agosto cominciamo la serrata a oltranza. Si era fissata la data dell'incontro, per il 20 agosto. Ma dalla sede del governo, il "Buddha Rosso" (Buddhadeb Bhattacharjee, ministro del West Bengala ndr ) ecco la richiesta di … rinunciare alla questione delle terre, altrimenti non ci ricevono! Come dire: non vogliamo negoziare. Il 24 agosto comincia quindi il picchettaggio: 21 posti di blocco tutt'intorno al muro, per oltre 10 km, una cosa logisticamente epica. E che ha avuto, devo dirlo, alcuni momenti di grande euforia.

Non avete mai temuto di trasformare Singur in un replay di Nandigram, altra area del West Bengala dove l'anno scorso i contadini si sono opposti alla requisizione di 22mila acri di terra da destinare alle industrie chimiche Salim, pagando però un grosso debito di sangue?
Diciamo che anche le forze dell'ordine hanno collaborato. Perché l'ennesimo bagno di sangue sarebbe stato per Tata Motors un danno di immagine incurabile, una ripetizione anche del massacro di Kalinga Nagar (nello stato dell'Orissa, dove Tata Steel ha sulla coscienza la morte di 12 tribali, ndr ). Io credo che il danno di immagine sia stato enorme anche così. Ma non è questo il punto. Vittoriosi, vinti… abbiamo perso tutti. Singur non sarà mai più quella che era. E anche la fabbrica non potrà sperare di lavorare in pace. L'agricoltura è morta, sì. Ma anche il progetto industriale è nato male, fa acqua (letteralmente) da tutte le parti. Gli intoppi, il risentimento, i problemi, continueranno a riproporsi a singhiozzo. La repressione dello stato crescerà e cresceranno le mafie. Chi ha venduto due anni fa si troverà a invidiare coloro che, avendo resistito, avranno indietro qualcosa: ma non sarà invidia per i campi, piuttosto per i valori che i terreni hanno maturato: in soli due anni sono cresciuti anche 15 volte, ti rendi conto? Noi ci poniamo il problema di far convivere i campi con l'industria, ma l'economia che si prepara qui - dove prima c'era un'economia normale, magari lenta ma "sana", che produceva dai 2 ai 4, anche 5 raccolti all'anno - è pura speculazione. Anche senza il bilancio dei morti e delle iniquità, anche così è una storia demoralizzante. Ma non solo per noi. E' il tramonto di qualsiasi qualità progettuale. E' la vittoria di uno stile d'impresa rapace, raffazzonato, che coniuga il "divide et impera" di coloniale memoria con la più sprezzante modalità "usa e getta". E la vostra prima industria automobilistica si è alleata con questi signori! Il minimo che possa capitare è che oltre ai profitti si troverà a condividere anche gli imbarazzi e le inevitabili perdite. Perché la situazione in cui l'India versa oggi, da qualunque punto di vista la si voglia guardare, non è più tanto shining . Al contrario, è esplosiva.


Liberazione 07/09/2008

Cina e Iran alla ricerca dell'equilibrio instabile

Petrolio per tecnologia e appoggi internazionali

Matteo Alviti

Come era già accaduto per l'apertura dei Giochi Olimpici, l'otto agosto scorso, anche la cerimonia inaugurale delle Paraolimpiadi, ieri, è stata occasione per un importante incontro per il presidente cinese Hu Jintao. Sugli spalti dello stadio di Pechino sedeva il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad.
Hu e Ahmadinejad si erano incontrati appena la scorsa settimana a Dushambe, in Tagikistan, in occasione del vertice dello Sco, l'Organizzazione per la cooperazione di Shangai, di cui la Cina, con la Russia e altri paesi ex sovietici è parte, mentre l'Iran è semplice osservatore. La cooperazione regionale si sta lentamente strutturando, forte di un'interdipendenza energetica e commerciale sempre più marcata. «Sia la Cina che l'Iran sono nazioni in via di sviluppo e c'è un grande potenziale per la cooperazione», ha detto Hu.
Il termometro delle relazioni tra i due paesi recentemente ha fatto segnare variazioni notevoli. Negli ultimi mesi l'importazione cinese di greggio iraniano ha fatto segnare un brusco rallentamento, toccando lo scorso giugno, con 286mila barili, il valore più basso degli ultimi 18 mesi, ben il 50% in meno di giugno 2007. E' stato il culmine di una tendenza al ribasso che già nei primi quatto mesi dell'anno si era attestata sui 465mila barili, con una flessione del 10% circa. Tehran si è trovata così costretta a stoccare ingenti quantità di greggio in petroliere al largo delle coste. E' un segnale che in parte va interpretato con il rallentamento generale dell'economia e con la crescita del costo dell'oro nero. Tuttavia nello stesso periodo la Cina ha aumentato le importazioni dall'Arabia Saudita e dall'Angola.
Nonostante i rallentamenti sul fronte energetico, nello stesso periodo Pechino ha concluso diversi accordi con Tehran. Con il commercio di beni, Cina e Iran contano di far crescere quest'anno il volume dell'interscambio a 30 miliardi di dollari, rispetto ai 20 miliardi circa del 2007. Il mese scorso Seifollah Jashnsaz, direttore della National Iranian Oil Company, era partito alla volta di Pechino con l'obiettivo di discutere l'acquisto di tecnologia per l'estrazione di petrolio. La Cina starebbe anche negoziando con la Repubblica Islamica un accordo del valore di 16 miliardi di dollari per sviluppare un giacimento di gas e costruire un impianto per il gas naturale liquefatto. Pechino ha bisogno di carburante per far girare il suo motore e allargare il numero di persone che beneficiano della crescita, prima che il malcontento scoppi irreparabilmente. Se quest'anno, secondo le previsioni, la Cina dovrebbe importare oltre la metà del greggio di cui necessita, nel 2030 la dipendenza potrebbe raggiungere l'80%. Per questo gli occhi di Hu sono sempre più rivolti alla situazione politica del Medio Oriente - da cui proviene il 45% del greggio acquistato all'estero - e dell'Africa - che fornisce il 30% del fabbisogno energentico importato.
Finora i rapporti sino-iraniani si sono fondati su un doppio binario: petrolio da Tehran contro tecnologia e appoggio internazionale da Pechino, oltre al normale scambio commerciale. La Cina non ha interesse a che la situazione mediorientale si destabilizzi, ma non può permettersi di tagliare i ponti con l'Iran. Quella di ieri è stata un'ulteriore occasione per riportare il clima su temperature miti, dopo le freddure per l'altalenante posizione cinese sul nucleare iraniano. Serviva un segnale di discontinuità. Che Hu non ha mancato di mandare ai membri del 5+1 - il gruppo dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, di cui la Cina fa parte, più la Germania. «Al momento», ha detto il presidente cinese, «la questione del nucleare iraniano ha di fronte una rara opportunità per la ripresa dei colloqui. Noi speriamo che tutte le parti interessate colgano l'opportunità». Pechino, ha detto Hu, rispetta il diritto dell'Iran all'uso pacifico dell'energia nucleare. La Cina si è sempre rifiutata, con Mosca, di sostenere le sanzioni più dure contro l'Iran, pur essendosi schierata per tre volte dal 2006 al fianco di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti nel votare provvedimenti politici ed economici contro Tehran. Nonostante le tre serie di sanzioni votate dal Consiglio Onu, l'Iran ha finora sempre opposto un netto rifiuto alle richieste di congelamento del programma nucleare, civile per Tehran, prodromo di un programma militare per l'Occidente e Israele. Ahmadinejad ha incassato, in attesa che possa essere trovata «una soluzione accettabile da tutti».


Liberazione 07/09/2008

domenica 14 settembre 2008

Shanghai cooperation organisation

Con la Shanghai cooperation organisation nuovo spazio in Oriente per armi, affari e diplomazia
Scacco a Onu Nato e Wto
Cina e Russia ballano da sole?

Monica Di Sisto
E' la risposta "da Oriente" all'Ocse, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, anche se fino ad oggi un po' meno visibile. Ritiene che l'Onu sia l'organizzazione internazionale più rappresentativa e autorevole. Ma anche che «dovrebbe migliorare la propria efficienza e rafforzare la propria capacità di rispondere alle nuove minacce e sfide conducendo un'apposita, necessaria riforma». E' la Shanghai cooperation organisation (Sco), che sta giocando una propria partita nello scacchiere georgiano, stretta tra la strategia Russa, le pressioni della Nato e la spinta autonomista di Ossezia del Sud e Abkhazia.
Il Gruppo di Shanghai, o gruppo dei Cinque, è stato creato nella città cinese nel 1996 da Cina, Russia, Kazakistan, Kyrghizystan e Tagikistan dopo la guerra civile nel Tagikistan, l'ascesa del potere dei taliban in Iraq, l'emersione del terrorismo nella regione musulmana cinese dello Xinjiang e in Uzbekistan, per fare massa critica contro "tre mali": estremismo, terrorismo e fondamentalismo. Ma anche per fare buoni affari, a partire da armi ed energia. Quando ai cinque del gruppo iniziale, nel 2001, si unì l'Uzbekistan, la Shanghai cooperation organisation prese il largo con un'apposita Dichiarazione. Anche se i sei precisano che «non è un'alleanza intesa contro altri Stati e regioni», in realtà viene sempre più utilizzata come contrappeso all'espansione della presenza militare statunitense nella regione grazie ai conflitti iracheno e afghano e come spazio economico autonomo.
La Russia di recente ha fatto sapere che procederà nell'avvicinamento all'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) solo se le converrà, e che nel frattempo le liberalizzazioni impostele per l'adesione si sente libera di rispettarle solo se non la danneggiano. Ieri Putin si è anche detto non affezionato alla poltrona nel G8. La Cina, dal canto suo, ha elegantemente "scaricato" nel luglio scorso i negoziatori di Ginevra quando ha capito che non avrebbe guadagnato molto dal round negoziale Wto in corso. Se si aggiunge a questo il fatto che sta contravvenendo a molti dei limiti imposti sulla carta dall'adesione all'organizzazione, l'oscuro tavolo dello Sco potrebbe d'ora in avanti brillare di nuova luce.
I temi che dovevano trattare ieri i sei di Shanghai a Dushanbe, capitale del Tagikistan, nel corso del vertice programmato da prima dello scoppio del conflitto del Caucaso, dovevano essere il terrorismo e il traffico di droga dall'Afghanistan. In realtà il presidente russo Dimitri Medvedev ne ha approfittato per un faccia a faccia con il collega cinese Hu Jintao, fino a ieri equidistante tra Mosca e Washington. I sei hanno confermato il proprio impegno «sul principio del rispetto della storia e delle tradizioni culturali di ogni popolo», ma, hanno precisato, «mirando anche a mantenere l'unità degli Stati e la loro integrità territoriale». Il riferimento esplicito a Georgia, Abkhaza e Ossezia nei fatti non c'è, e Mosca deve accontentarsi di incassare il sostegno al suo «ruolo attivo per il contributo offerto nell'assicurare la pace e la cooperazione nella regione». «Capiamo la complessa storia - ha sottolineato il portavoce del ministro degli Esteri cinese Qin Gang, confermando l'appoggio alla Russia come ospite dei Giochi Olimpici Invernali 2014 - e auspichiamo una soluzione attraverso il dialogo e il confronto». Pechino si preoccupa della sua sicurezza interna: del separatismo a mano armata degli uiguri nello Xinjiang, ricco di giacimenti petroliferi e passaggio obbligato per la "via della seta" di ferrovie e oleodotti che Hu vorrebbe aprire alle risorse delle montagne e del Mar Caspio. Insieme alla scomoda indipendenza di Taiwan e ai continui scontri in Tibet le sono sufficienti per non sbilanciarsi. Nel frattempo, con singolare tempismo, si è "coperta" da eventuali ritorsioni Usa raggiungendo con l'Iraq un accordo da tre miliardi di dollari per lo sfruttamento congiunto dei giacimenti petroliferi di Ahdab, nella provincia sciita di Wasit, risuscitando un contratto cancellato dopo l'invasione alleata. Pechino punta, inoltre, da tempo a costruire tra i Paesi Sco un'area di libero scambio, e ha fissato con Mosca l'obiettivo di raggiungere un valore di scambi bilaterali tra i 60 e gli 80 miliardi di dollari (erano 29 circa nel 2005).
Non è sfuggito a Medvedev che la posizione unitaria dei sei avrebbe avuto, ad ogni modo, «risonanza internazionale - ha puntualizzato - e spero servirà da serio segnale a coloro che cercano di distorcere i fatti e giustificare questa aggressione». E' sotto questo cappello, infatti, che Cina e Russia hanno condiviso imponenti manovre militari, la prima nel 2005, di ben 8 giorni, con oltre 100mila soldati in esercizio tra il mare di Barents e il mar Giallo, l'ultima nello scorso aprile. Senza dimenticare che Iran, India e Pakistan hanno richiesto e ottenuto lo status di osservatori. Il messaggio è chiaro e forte: Onu, Nato, Ocse e Wto non sono più da sole a trattare i destini del pianeta.


Liberazione 29/08/2008

venerdì 12 settembre 2008

Allo sportello con le regole del Corano

Repubblica — 10 settembre 2008 pagina 26 sezione: ECONOMIA
ROMA - Un' opportunità per gli immigrati nel nostro paese, ma anche e soprattutto per le aziende italiane. È la cosiddetta finanza islamica, un insieme di strumenti basati più sull' etica del Corano che sulla religione islamica, e che potrebbe garantire ai mussulmani in Italia un sistema bancario adatto alle loro esigenze, oltre ad avere tutte le potenzialità per diventare un canale preferenziale per gli investimenti arabi nel nostro Paese. Sono quattro i princìpi cardine del sistema finanziario islamico: il divieto del pagamento di interessi (riba), quello di investire in attività che comportino irragionevole incertezza ed ambiguità (gharar), il divieto di speculazione (maisir) e quello di investire in attività economiche proibite dal Corano, quali armi, pornografia o gioco d' azzardo (haram). Princìpi, questi, che hanno permesso alle banche islamiche di navigare in acque relativamente tranquille durante la crisi dei subprime, proprio per il divieto di commercializzare prodotti particolarmente complessi come i derivati. Queste stesse norme possono, però, entrare in conflitto con la normativa vigente in Italia. Il rischio non riguarda tanto il caso in cui prodotti di finanza islamica venissero venduti da banche del nostro Paese. «Il problema - spiega Ermanno Mantova, presidente dell' Istituto di Studi Economici e Finanziari per lo Sviluppo del Mediterraneo - riguarderebbe soprattutto la creazione di un vero e proprio "istituto di banca islamica"». Un istituto che, conferma l' ex-direttore generale della banca italo-libica Ubae, Matragna, «potrebbe presentare problemi di tipo normativo e fiscale». Questo perché, per esempio, la finanza islamica non permette di accendere un mutuo con interesse, ma fa comprare la casa alla banca per poi farla affittare al cliente ad un prezzo che comprende il costo del denaro, fino a quando, corrisposto il pagamento, la casa viene "regalata" al cliente. Così facendo, il problema normativo sorge perché le banche sono di fatto possessori della casa e perciò meno attente alla solvibilità del cliente, andando ad minare uno dei pilastri del sistema creditizio italiano. Quello fiscale, invece, nasce perché il doppio passaggio di proprietà porta le parti a pagare due volte l' imposta di registro, la prima quando la banca compra la casa e la seconda quando la dà al cliente. Problemi di questo tipo richiedono un intervento da parte del legislatore e delle autorità di vigilanza. «Abbiamo avviato contatti informali con il governo e con la Banca d' Italia, e queste istituzioni - dichiara Hatem Abou Said, incaricato per conto della Islamic International Bank di Londra di costituire una banca islamica in Italia - e credo che non sarà impossibile avere le autorizzazioni necessarie entro il 2008». Non ci sono risposte ufficiali, ma è noto che la Banca d' Italia ha cominciato a studiare l' argomento. L' opportunità è grande, e non solo per gli stranieri in Italia. «Con le banche islamiche - aggiunge Mantova - potrebbero arrivare i petroldollari del Golfo». E, di questi tempi, chi è che direbbe loro di no? - FERDINANDO GIUGLIANO

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/09/10/allo-sportello-con-le-regole-del-corano.html

Sceicchi i compratori dei nostri sogni

Repubblica — 04 settembre 2008 pagina 33 sezione: R2
Quando tre anni fa un tabloid londinese attirò in una trappola Sven Goran Eriksson, lo svedese allora allenatore dell' Inghilterra, facendogli incontrare ad Abu Dhabi un finto sceicco che prometteva di comprare una squadra della Premier League e assumere lui come coach pagandolo a peso d' oro, l' idea che i petrolieri degli Emirati Arabi sbarcassero nel grande mondo del football europeo sembrava una barzelletta. Quando Sulamain al Fahim, sedicesimo uomo più ricco del Medio Oriente e presidente della maggiore società di investimenti di Abu Dhabi, diede un megaparty a Hollywood l' estate scorsa, apparendovi a fianco di una bionda statuaria e in compagnia di attori come Demi Moore e Charlie Sheen, i vecchi magnati del cinema americano pensarono che fosse l' ennesimo riccastro arabo intenzionato, al massimo, a portarsi a letto una starletta. E quando uno sceicco vero, Khalifa bin Zayed al-Nahyan, re dell' emirato di Abu Dhabi, ha avvicinato i responsabili del Louvre per chiedere di usare il nome dell' insigne museo parigino per aprirne uno simile a casa propria, gli intellettuali della Rive Gauche commentarono che aveva una bella faccia tosta. Adesso non ride e non dice niente più nessuno. Dovunque oggi sulla terra ci sono sogni in vendita, dal calcio al cinema alla cultura più alta, c' è uno sceicco di Abu Dhabi pronto a spalancare il portafoglio e a comperarlo, senza nemmeno tirare sul prezzo. L' acquisto del Manchester City per 210 milioni di sterline da parte dell' uomo d' affari col turbante al-Fahim, dietro di cui si cela l' ombra della famiglia reale di Abu Dhabi, è stato abbastanza spettacolare di per sé da finire in prima pagina sui giornali di mezzo mondo. Ma ieri gli sceicchi hanno fatto il bis, annunciando l' ingresso nel mercato cinematografico americano di Hollywood, dove intendono produrre almeno otto pellicole l' anno. E a Parigi i responsabili del Louvre non hanno ancora smesso di fregarsi le mani per la fortuna che è loro capitata, dopo aver «noleggiato» il nome del museo della Mona Lisa per trent' anni ad Abu Dhabi, dove nel 2013 ne sorgerà uno analogo su Saadiyat Island, l' Isola della Felicità: per quella data, accanto al Louvre arabo, ci saranno anche il Guggenheim degli Emirati e un paio di altri musei, firmati da alcuni degli architetti più famosi del pianeta, da Frank Gerhy a Lord Foster. Aggiungeteci l' acquisto lo scorso anno del grattacielo della Chrysler a New York, l' apertura di una filiale della Sorbona negli Emirati, l' investimento nella Ferrari con l' obiettivo di portare un Gran Premio di Formula Uno ad Abu Dhabi, le joint venture con la General Electric, la Shell e la Exxon Mobil, senza tralasciare l' accademia di calcio in via di sviluppo in collaborazione con l' Inter, e si comincia ad avere un' idea di quanto stia accadendo. Per chi non l' avesse ancora capito, lo spiega sulle colonne del Guardian il professor Gerd Nonneman, direttore dell' Istituto di Studi Arabi ed Islamici alla Exeter University: «Gli sceicchi di Abu Dhabi hanno deciso di trasformare il loro emirato nella più sofisticata oasi culturale del globo. Hanno capito che, specie in prospettiva futura, non basterà più avere il petrolio. Il loro stato fratello, Dubai, ha già da tempo puntato su shopping e turismo. Abu Dhabi punta sulla cultura di massa». Perciò su football, cinema, arte e via acquistando. Poiché lo sceicco Khalifa, in quanto sovrano di Abu Dhabi, non ama la pubblicità, e i suoi 18 figli devono adeguarsi all' atteggiamento paterno, la famiglia reale aveva bisogno di un portavoce, un prestanome, un rappresentante, qualcuno che partisse per loro conto alla conquista del mondo culturale. Ci voleva un uomo in grado di sfidare (e battere) il miliardario russo Roman Abramovich nel mercato del calcio europeo, di frequentare con disinvoltura le stelle di Hollywood, spesso troppo disinvolte per i gusti dell' Islam, di muoversi a suo agio tra le elite culturali del Louvre e del Guggenheim così come tra gli squali della finanza di Wall Street e della City. Lo hanno trovato in Sulamain al Fahri, che ora, ad appena 31 anni, grazie al colpo più sensazionale dal punto di vista mediatico, ovvero l' acquisto del Manchester City, riceverà un' istantanea fama globale. Alla fama, bisogna dire, il giovane sceicco ci è abituato: non per nulla ha il nomignolo di «Donald Trump del Medio Oriente». Del controverso costruttore immobiliare americano non ha la capigliatura, ma il carattere probabilmente sì. Come Trump, ha fatto i primi soldi nell' immobiliare. Come Trump, si dice che abbia una predilezione per le belle - anzi bellissime - donne. Come Trump, ha voluto condurre un reality show nel suo paese, in cui giovani imprenditori si sfidano l' un l' altro per essere selezionati da lui come soci ed allievi. Dietro il suo sorriso pacifico dev' esserci inoltre una tempra di ferro, perché ha conosciuto la tragedia e l' ha superata: appena finita l' università, ha perso i genitori e un fratello, uccisi in un incidente automobilistico. Si è ritrovato nel ruolo di capofamiglia e lo ha saputo interpretare, prendendo un master in business e poi un dottorato negli Stati Uniti, sposandosi e lanciandosi negli affari, che ne hanno fatto rapidamente uno degli investitori più ricchi del Medio Oriente. E' lui che ha avuto l' idea di fare dell' Isola della Felicità un quartier generale della cultura mondiale. E' lui che ha negoziato l' acquisto del Manchester City e l' ingresso nelle produzioni di Hollywood. E' lui che passa da un tè nel deserto sotto la tenda con il re di Abu Dhabi a party scintillanti in Costa Azzurra, a Londra, a New York. A sentirlo parlare, viene il dubbio che le spari un po' grosse: «Cristiano Ronaldo dice che vuole andarsene dal Manchester United per giocare nel club più forte del mondo. Ebbene, vedremo se è serio, perché noi costruiremo una squadra più forte del Manchester United e del Real Madrid. Il Real era pronto a offrire 70 milioni di sterline? Mi sembra un prezzo inadeguato al suo valore, noi offriremo il doppio. E poi vorremmo portare al City anche Kakà, Torres, Fabregas, Berbatov e Messi». Ma quando uno ha alle spalle il trillione di petrodollari della famiglia reale di Abu Dhabi, perfino i miliardi di «Paperone» Abramovich sembrano bruscolini. La rivoluzione culturale degli sceicchi, tuttavia, non convince tutti. Quando al-Fahim ha completato l' acquisto del Manchester City, ha ammesso di non avere mai avuto un particolare interesse o attaccamento per quel club specifico: «Volevamo una squadra della Premier League, perché la giudichiamo il veicolo giusto per i nostri piani e i nostri interessi», ha detto, ma una vale l' altra, avrebbe preso il Liverpool o il Newcastle, invece del City, se ci fosse stata l' opportunità giusta. A Londra gli esperti in branding, ossia in marche e marketing, si domandano se sia possibile fare centro con una montagna di soldi ma senza amore, senza quella passione che in fondo Abramovich nutre per il Chelsea e l' americano Malcom Glazer per il Manchster United. «La tattica di Abu Dhabi, acquistare marchi culturali alla cieca, qui e là, purchè abbiano un nome riconoscibile, è come voler ricostruire Venezia a Las Vegas», commenta Peter York, un esperto del settore. Ma chissà che con le sue parole non dia agli sceicchi un' altra idea: impacchettarla e ricostruirla nel deserto, ecco come si potrebbe salvare Venezia. Pagando, s' intende. - ENRICO FRANCESCHINI

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/09/04/sceicchi-compratori-dei-nostri-sogni.html

lunedì 8 settembre 2008

TLAXCALA

la rete di traduttori per la diversità linguistica

http://www.tlaxcala.es

venerdì 5 settembre 2008

Sceicchi e sport in Europa

Sceicchi, milioni di euro e show Il City, nuova squadra stellare

Repubblica — 03 settembre 2008 pagina 50 sezione: SPORT
te enrico franceschini londra Il Ramadan, sacro mese di digiuno del calendario islamico, è iniziato con un boccone senza precedenti per una ristretta cerchia di miliardari di Abu Dhabi: si sono comprati il Manchester City, "sorella povera" dello United, per la bellezza di 250 milioni di euro, e l' hanno subito rinforzato acquistando Robinho, stella brasiliana del Real Madrid, per un' altra quarantina di milioni, la somma più alta mai pagata per un trasferimento in Inghilterra. E' solo l' inizio, perché il nuovo presidente, Sulaiman al-Fahim, uno dei costruttori immobiliari più ricchi del mondo, intende spendere seicento e passa milioni di euro per costruire nei prossimi tre anni una squadra in grado di vincere non soltanto il titolo nazionale bensì anche la Champions League. «I giocatori per centrare un simile obiettivo costano una media di 40 milioni di euro l' uno», calcola serenamente lo sceicco, «e al City ne servono almeno diciotto». Una montagna di soldi per chiunque, ma non certo per la famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti, l' eminenza grigia che si nasconde dietro l' Abu Dhabi United Group, la società di investimenti internazionali che ha rilevato la squadra di Manchester. Il doppio colpo, l' acquisto del City e il rinforzo con Robinho, occupava ieri la prima pagina di tutti i quotidiani inglesi, e con buona ragione. E' la prima volta, per citarne una, che un gruppo mediorientale acquista un club della Premier League: un proprietario arabo c' era già, l' egiziano Mohammed al Fayed, padre di quel Dodi che morì insieme alla principessa Diana e padrone dei grandi magazzini Harrod' s, ma al Fayed risiede a Londra da decenni e ha qui i suoi affari, non viene da fuori. E' la prima volta, inoltre, che Roman Abramovich, il petroliere russo proprietario del Chelsea, si vede soffiare via un giocatore che gli stava a cuore perché qualcun altro ha offerto, e speso, di più. Abramovich faceva la corte a Robinho da settimane e sembrava avercela fatta: poi sono arrivati gli sceicchi e il brasiliano è finito a Manchester anziché a Londra. I 16 miliardi di euro che fanno del russo il secondo uomo più ricco del Regno Unito, del resto, appaiono insignificanti rispetto al trilione, per l' esattezza 1200 miliardi di euro, che costituisce il patrimonio della famiglia reale degli Emirati Arabi. L' acquisto di Robinho, conclude dunque la stampa londinese, segnala l' avvento di una nuova superpotenza nella Premier League e nel calcio europeo. Una nuova superpotenza che tra l' altro con il suo ingombrante arrivo ha fatto crescere a un livello da record l' investimento di Thaksin Shinawatra, il "Berlusconi thailandese", ex-premier di Bangkok inquisito per corruzione, anche lui proprietario di televisioni e giornali: un anno fa aveva comprato il Manchester City per 80 milioni di sterline, ora l' ha rivenduto per oltre 200. Affiancato dallo sceicco Sulaiman (soprannome: «il Donald Trump di Abu Dhabi»), il neo-allenatore del City, Mark Hughes, che al termine della stagione scorsa ha rimpiazzato dopo appena un anno lo svedese Sven Goran Eriksson, ora gongola: «Sono deliziato dall' arrivo di Robinho, lo manderemo in campo al più presto». L' esordio è fissato per il 13 settembre: coincidenza, proprio contro il Chelsea di Abramovich. Come fatto apposta per sottolineare lo smacco che ha subito. Gli sceicchi degli Emirati sono i primi arabi sbarcare nella Premier League, ma non saranno certo gli ultimi, prevede il Financial Times: la lista dei club che fanno gola agli investitori mediorentali comprende Everton, Tottenham e Liverpool. Una conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, osserva il quotidiano finanziario, che il campionato di calcio inglese è oggi il più ricco e più redditizio, oltre che forse il più bello, del mondo. E' un business che funziona alla perfezione e che attira sempre più ingenti capitali stranieri: ormai ben otto società su venti (Manchester United, Chelsea, Liverpool, Manchester City, Aston Villa, West Ham, Fulham e Portsmouth) sono già in mani straniere, fra proprietari americani, russi, arabi e perfino uno islandese. La svolta che ha cambiato un calcio violento e in dissesto economico in un pallone veramente d' oro è venuta con i diritti televisivi di Sky a metà anni Novanta, che hanno distribuito profitti a tutti i club della massima serie, in particolare ai migliori, e con la fine dell' hooliganismo, a forza di stadi privati e punizioni severe. Così, mentre la nazionale inglese continua a deludere (e si affida a Fabio Capello come ultima chance di riscatto), tre semifinaliste su quattro dell' ultima Champions League erano inglesi. I soldi chiamano soldi: il mercato estivo si è chiuso, oltre che con il trasferimento di Robinho, con l' altro botto del bulgaro Berbatov, dal Tottenham al Manchester United per 31 milioni di sterline. Ma le compravendite degli sceicchi non sono finite: «Nei prossimi quattro mesi rinforzeremo il City in modo tale da renderlo irriconoscibile», avverte il "Donald Trump di Abu Dhabi". Con la benedizione di Allah, tutto è possibile. - ENRICO FRANCESCHINI LONDRA

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/09/03/sceicchi-milioni-di-euro-show-il-city.html

mercoledì 3 settembre 2008

Filippini in Italia: investimenti all'estero

Dalla casa ai campi: le donne filippine in Italia investono nelle zone rurali del loro paese

Media Advisory no.: MA/08/08

Roma, 10 luglio 2008 – Le collaboratrici domestiche filippine che lavorano a Roma investono i loro sudati risparmi nelle zone rurali dalle quali provengono, a volte riuscendo ad acquistare terreni agricoli per se stesse e per le proprie famiglie.

Questo risulta dallo studio “Genere, Rimesse e Sviluppo: Il caso della migrazione filippina in Italia”. Lo studio è stato finanziato del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (IFAD) e realizzato dall'Istituto delle Nazioni Unite di Ricerca e Formazione per il progresso delle donne (UN-INSTRAW) con la collaborazione del Filippino Women’s Council.

Sin dai primi anni settanta, l’Italia è una meta tradizionale per i migranti dalle Filippine, il 61% dei quali sono donne.

“Le donne, in quanto principali mittenti di rimesse dall’Italia alle Filippine, ricoprono un ruolo fondamentale nel determinare come poi queste vengono utilizzate” riferisce Maria Hartl, Consigliere tecnico per le pari opportunità, IFAD.

Con i guadagni realizzati all’estero, le donne filippine hanno la possibilità di rompere con la tradizione che limita la loro possibilità di accesso alla terra rispetto agli uomini; quante vedono nel settore agricolo un’attività redditizia possono acquistare terre coltivabili per sé e per le proprie famiglie.

Questo è particolarmente importante dato che oltre il 70% degli agricoltori nelle Filippine non sono proprietari della terra che coltivano e il limitato accesso alla terra rappresenta una delle principali cause di povertà nel paese e ha un impatto significativo sullo status delle donne nelle zone rurali.

Più del 60% delle donne filippine che migrano in Italia hanno completato gli studi superiori, e a volte universitari, prima di lasciare le Filippine e la decisione di migrare all’estero è dovuta principalmente alla possibilità di guadagnare di più per sostenere le proprie famiglie e comunità nelle Filippine.

“Le rimesse permettono alle famiglie dei migranti di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, di acquistare terreni agricoli e di investire in tecnologia per aumentare e diversificare la loro produzione. Questo a sua volta migliora l’alimentazione delle famiglie” riferisce Hartl.

Le Filippine sono uno dei paesi che maggiormente esportano forza lavoro al mondo e sono il terzo maggior destinatario di rimesse in Asia e Oceania. Secondo uno studio del 2006 condotto dall’IFAD, le rimesse per le Filippine ammontano ad un totale di 14.651 dollari, il 12.5% del PIL del paese.


http://www.ifad.org/media/press/advisory/2008/08_i.htm

http://www.un-instraw.org/en/downloads/final-reports/gender-remittances-and-development.-the-case-of-filipino-migratin-to-italy/download.html

Qatar, ecco gli schiavi del ventunesimo secolo

Nello Stato che ha il reddito pro capite più alto al mondo i lavoratori stranieri sono prigionieri
Qatar, ecco gli schiavi del ventunesimo secolo
Quando gli immigrati diventano ostaggi

DAL NOSTRO INVIATO
DOHA — Vanno cercati in una periferia vuota e affogata nella sabbia petrolifera, dietro uno stadio in disuso dopo i Giochi asiatici di due anni fa. A mezzo chilometro da lì ci siamo quasi, perché due ragazzi stanno riempiendo certe minuscole taniche all'unica fonte d'acqua potabile della zona. Uno ha una faccia mongola da bambino; l'altro, più adulto, si guarda intorno al modo tagliente degli indù. Sono i nepalesi della strada 156, Doha, Qatar, colosso globale degli idrocarburi nello spazio di una provincia d'Italia. Di giorno questo è uno dei tanti cantieri della città, 240 ville, due piscine, un progetto quasi tutto da realizzare: mancano le fogne e le finestre, calce e detriti ovunque, fili elettrici che pendono allo scoperto. Ma dopo il lavoro, qui vivono i cinquecento manovali nepalesi della ditta quataro-egiziana Al Atar Trading & Contracting Company.

È per gente così che il primo ministro del Qatar, sceicco Hamad bin Jassim bin Jabr Al Thani, parla di «schiavismo del ventunesimo secolo». Non l'ha detto in pubblico, sono vari diplomatici che lo riportano ed è persino ovvio. Lo sceicco vuol dire che si può, perché lo permette la legge sulle «sponsorizzazioni»: in Qatar, come in tutti i Paesi arabi del Golfo dall'Arabia Saudita al Kuwait (a parziale eccezione del Bahrein) senza il permesso del datore di lavoro non si guida l'auto, non ci si licenzia, soprattutto non si esce più dal Paese. Un immigrato, è un ostaggio. E il cantiere-dormitorio dietro il Garafa Stadion è il risultato della legge. Qui un'unica doccia comune sporge per strada, una latrina basta per cento, si dorme fino a sedici uno sull'altro in stanze di nove metri quadri, senza finestre. La via principale è presidiata da una gora stagnante, di un blu indefinibile per un qualche prodotto pudicamente versato a smorzare l'aria infetta. Alle sei di sera fanno ancora 45 gradi, umidità all'80%. A gente normale dopo dieci minuti si gonfiano le vene negli occhi, la vista trema. Ma qui un uomo in piedi in un vicolo si insapona il capo con pazienza e poi ci versa su mezza bottiglia, dietro l'angolo una folla si accalca intorno a un gioco da tavolo. Pochi hanno le scarpe. «Le abbiamo chieste all'impresa — spiega Nirmel, 25 anni —. Ci è stato detto di farcele dare dalla nostra ambasciata». I pasti sono due porzioni di riso al giorno, i turni 55 ore alla settimana, il mensile 550 riyal (102 euro) a far media, sul milione e mezzo di abitanti del Qatar, per circa 65 mila euro l'anno l'uno: grazie a entrate record da gas e petrolio per 70 miliardi di dollari, da quest'anno sarà il reddito medio per abitante più alto al mondo. Concentrato però fra i meno di 250 mila cittadini del Qatar, eredi di poche decine di famiglie nomadi della penisola araba sotto il regno feudale degli Al Thani, ai quali Londra consegnò le chiavi del protettorato nel 1971. Resta fuori il milione e passa di stranieri: oltre 400 mila indiani, 250 mila nepalesi, 150 mila filippini, 70 mila pachistani, poi Bangladesh, Indonesia, Sri Lanka, Vietnam, Sudan, Etiopia, Thailandia, Libano, Egitto, Siria, Giordania, Iran, Iraq. Dato che i locali qui come quasi ovunque nel Golfo sono minoranza in casa loro, i numeri esatti restano un segreto di Stato. Con una scusa o spesso con la forza, gli immigrati in arrivo vengono ammassati in fondo agli aerei, poi tenuti fuori dai suk o dalle gallerie commerciali, di fatto confinati nei campi. Non tutti sono immondi come la strada 156, ma molti sì e qualcuno peggio. Eppure a Doha nessuno può più far sparire le moltitudini che alzano le nuove piramidi, il miraggio di centinaia di grattacieli immaginifici ma, per ora, spesso vuoti o monchi sul deserto di idrocarburi. La richiesta di un aumento da parte dei 500 nepalesi della Al Atar, mesi fa, si è chiusa con sei uomini spariti nel Centro deportazioni di Doha: una fortezza adagiata vicino al mare, centinaia di metri di lato, civettuola con le merlature di tipo medievale e mosaici a richiamare la bandiera del Qatar. Da lì non esce una sola voce, ma intanto il problema si è complicato. Gokarn, 23 anni, calcola che con il riyal agganciato al dollaro così come tutte le monete del Golfo (salvo quella del Kuwait), la svalutazione del biglietto verde sulla rupia nepalese riduce i risparmi che lui manda a casa. «Quando sono arrivato un ryal valeva 19 rupie — dice — ora 17». Lo sceicco-premier Al Thani stima che il riyal sia sottovalutato del 30%, ma il segretario al Tesoro americano Henry Paulson a maggio è venuto qui per raccomandare a Doha, Riad, Abu Dhabi e agli altri di restare fissi sul dollaro: una rivalutazione ora, benché naturale, farebbe esplodere la bolletta petrolifera Usa, affonderebbe il biglietto verde.

E fra Paulson e un popolo di ostaggi, l'esito era scontato. Le basi in Arabia Saudita e quella della Us Air Force a Usaid in Qatar, rampa di lancio sull'Afghanistan, l'Iraq e forse domani l'Iran, pesano fin qui più delle proteste di Gokarn e milioni come lui. Non che la partita sia da poco. Nel Golfo solo gli indiani sono cinque milioni e hanno visto i loro risparmi scemare fino al 20% circa con la svalutazione. Le rimesse degli immigrati verso India, Filippine e Pakistan valgono da sole più di tutto l'aiuto allo sviluppo dell'Occidente. A Doha o a Dubai, muratori o camerieri conoscono il tasso di cambio al secondo decimale, sanno che il riso è aumentato del 30% in sei mesi. E lo fanno capire: a marzo centinaia di immigrati hanno appiccato il fuoco a auto e case a Sharja, uno dei sette Emirati arabi uniti. A giugno i tassisti pachistani di Dubai sono stati deportati a decine per uno sciopero, scatenando le proteste di Islamabad. A febbraio un gruppo di muratori indiani aveva subito la stessa sorte. Non sono abusi. Gokarn da mesi chiede di rimpatriare ma sarebbe illegale, senza il nulla osta del padrone. Nel 2007 un tassista pachistano a Dubai si è dato fuoco davanti all'ufficio che non lo autorizzava a rientrare per il funerale della madre. E quando gli Emirati arabi hanno lanciato una «sanatoria», mesi fa, ottocentomila indiani sono fuggiti in pochi giorni. Perché con gli ostaggi la paga si può tagliare, o versare sei mesi in ritardo, o lasciare che connazionali spie della Cid (Commissione per l'investigazione e la deportazione) si infiltrino nei campi. Per il Qatar e gli altri nel Golfo, dove il boom del petrolio alimenta investimenti da duemila miliardi di dollari e aziona il 60% delle gru da costruzione del mondo (stime di Middle East Business Intelligence e Oxford Business Group) gli immigrati servono come l'aria. Ma opprimerli è altrettanto inevitabile, e non solo per il profitto. «I paesi del Golfo sono ossessionati dal timore di essere travolti dagli stranieri», nota Mohamed Ramady della Fahd University di Riad. «L'idea che balie di altri Paesi crescano i nostri figli crea angoscia», dice Fetooh Al Zayani del Bahrein, direttrice generale al Qatar Financial Centre. Negli ultimi mesi l'Indonesia, l'India, il Pakistan e il Nepal hanno vietato l'emigrazione delle donne in Qatar, per evitare gli abusi di ogni tipo di cui le domestiche sono vittime nelle case arabe. L'ambasciatore di Manila ha creato un rifugio per centinaia di fuggiasche. Lì come in altre ambasciate d'Asia stazionano i rifugiati e i licenziati senza visto di rimpatrio, un'umanità arenata che non può né restare né partire, buttata sulla moquette in sale da casa di carità più che di diplomazia. Non lontano, ragazze locali coperte dai lenzuoli neri anche sugli occhi comprano biancheria audace al Soleil Sucré, lungo una copia esatta di un canale di Venezia, inclusi ponti, gondole, cielo sul soffitto del centro commerciale. Discrete, con il bluetooth del cellulare, fino a sera cercano cuori solitari in galleria. Poi la notte, sul lungomare, resta poco: la sola presenza si avverte dalle fiamme ossidriche che pulsano nel caldo dai quarantesimi piani. Quasi che tutto andasse fatto entro un certo giorno, e l'urgenza di Doha non fosse dare un senso alla sua rendita esorbitante.

Federico Fubini
31 agosto 2008
Corriere della sera