giovedì 20 novembre 2008

China and Peru agree on free trade

Hu Jintao, China's president, is in Peru ahead of the annual summit of Apec nations [EPA]

The presidents of Peru and China have reached agreement on a free-trade pact - the latest in a raft of deals China hopes will secure access to much-need raw materials for its manufacturing industries.

Alan Garcia, Peru's president, announced the successful conclusion of the talks on Wednesday after meeting his Chinese counterpart, Hu Jintao, in the capital, Lima.

Ten bilateral accords signed between the two countries on Wednesday from health to technology would facilitate the pending trade agreement, Garcia said.

"We are sure this will generate lots of development for Peru and China," he told reporters.

China's president is in Peru for a two-day visit ahead of the Asia Pacific Economic Co-operation forum (Apec) summit there this weekend, where leaders from 21 economies are expected to discuss possible fixes for the world economic slowdown.

The free-trade deal, which could be signed as early as March after final details are worked out, would be China's second such agreement with a resource-rich country in Latin America, whose exports it needs to fuel its ambitious growth plans.

China and Chile signed a free-trade agreement three years ago and Hu also visited Costa Rica and Cuba this week to seek further co-operation on trade in those countries.

China is the second-largest market for Peruvian exports after the US and is rapidly expanding its trade ties across the region.

Peru ships mostly copper, iron ore and zinc to the Asian giant, while China exports cell phones and machinery to Peru.

20th November

http://english.aljazeera.net/news/americas/2008/11/2008112042120216605.html

Nichel cubano peri cinesi Hu Jintao all'Avana

Il presidente cinese incontra Fidel e Raul Castro: accordi commerciali e una pioggia di nuovi contratti milionari

Il presidente cinese Hu Jintao in viaggio d'affari all'Avana. Ha portato parecchi soldi, ha incontrato Fidel e Raul Castro, che molto più del fratello è incline all'importazione rivista e corretta del modello cinese sull'isola. In sintesi: introdurre caute aperture economiche, lasciar perdere le libertà politiche. La Cina è il secondo socio commerciale dell'Avana dopo il Venezuela. In quattro anni, secondo i dati ufficiali, gli affari con Pechino si sono moltiplicati per cinque: 2600 milioni di dollari.
I soldi anche questa volta sono stati tanti. Quattro milioni e mezzo di aiuti vari, otto milioni da investire nei trasporti, investimenti preziosi nelle biotecnologie, ma soprattutto crediti: 70 milioni di dollari per metter mano alla rete ospedaliera. E poi una pioggia di contratti: soprattutto per l'acquisto di nichel (di cui Cuba è ricca) e zucchero.
Poi ci sono finanziamenti per ricostruire quello che tre uragani quest'anno hanno distrutto, soprattutto case e porti. Il presidente cinese è da tempo l'artefice dell'iniezione di quattrini di Pechino all'Avana. Nel suo viaggio del 2004 il volume d'affari tra i due Paesi non arrivava a 400 milioni di euro l'anno. In poche ore firmò sedici accordi di collaborazione che riguardano nichel, petrolio, biotecnologia e turismo (che continua ad essere, nonostante il drastico calo, una mano santa per le casse del governo cubano). Il nichel cubano interessa molto Pechino, che investe miliardi di dollari nei giacimenti di Camaguey e negli impianti di Holguin da cui vengono fuori 22mila tonnellate di nichel all'anno. A questi impianti servono grosse forniture di carbone alle quali provvede la venezuelana Corpozulia, la cui dirigenza è interamente in mano a militari.
Di interessante, per il business cinese all'Avana, c'è anche il petrolio. Cuba ha greggio. Non tantissimo ma ce l'ha. Si tratta di petrolio pesante, il cosiddetto petrolio sporco, della stessa qualità di quello che la Cina acquista dalla messicana Pemex e dai bacini venezuelani dell'Orinoco.
Ma in prospettiva l'affare potrebbe aumentare. La Repsol nel 2004 annunciò di aver trovato petrolio di buona qualità nelle acque cubane a un chilometro e mezzo di profondità. Fece sapere però che si trattava di riserve troppo scarse che non valevano l'investimento necessario ad avviare un processo di estrazione.
Per continuare le esplorazioni in altre sei zone vicine alla costa cubana la compagnia tentò un'associazione con l'impresa indiana Oil and Natural Gas e con la norvegese Norsk Hydro.
Non è stata la sola. In fila per trattare l'esplorazione di eventuiali giacimenti ci sono la YPF, la Videsh, la Norsk Hydro, la Berhad e la canadese Sherritt. Oltre alla compagnia statale venezuelana Pdvsa che attualmente garantisce forniture a condizioni privilegiate stabilite da un accordo firmato tra Hugo Chavez e Fidel Castro. I dati ufficiali parlano di 98mila barili al giorno.
a.n.

Liberazione 20/11/2008

La destra latinoamericana

I veri motivi del recente viaggio di Álvaro Uribe in Messico, la destra latinoamericana e gli accordi con il Yunque

di Annalisa Melandri, Martedì 18 Novembre 2008, 07:57

La recente visita in Messico del presidente colombiano Álvaro Uribe è stata “altro” da quello che hanno raccontato in questi giorni i quotidiani messicani e latinoamericani.

Formalmente Uribe sembrerebbe essersi recato in Messico per chiedere al suo omologo Felipe Calderón un aiuto per sollecitare agli Stati Uniti lo sblocco del TLC la cui firma è congelata ormai da mesi.

“Tutto quello che potrà dire Calderón alle orecchie delle autorità, dei mezzi di comunicazione e del popolo nordamericano, potrà essere di grande aiuto per la Colombia. Ho chiesto questo aiuto al presidente Calderón” ha spiegato Álvaro Uribe lunedì 10 novembre, nel corso della sua terza e ultima giornata di visita in Messico.

I due presidenti, nel loro incontro hanno discusso inoltre di alcuni aspetti relativi al Trattato di Libero Commercio in vigore tra i due paesi, concordando sul fatto che alcuni settori commerciali esclusi fino a questo momento dagli accordi debbano essere tenuti invece in maggior considerazione.

Uribe ha inoltre espresso “solidarietà” al paese per lo sforzo compiuto dal Governo nella lotta alla criminalità organizzata e al narcotraffico, confermando in una conferenza stampa, che sia la Colombia che il Messico coopereranno maggiormente in tal senso, ma dichiarandosi tuttavia contrario alla depenalizzazione di alcune droghe come invece proposto recentemente dai presidenti dell’Honduras, Manuel Zelaya e dallo stesso Felipe Calderón.

L’incontro con la destra latinoamericana – Il vertice al Centro Fox

Alvaro Uribe y Vicente FoxTuttavia non sono stati soltanto questi i motivi del viaggio di Álvaro Uribe. Infatti, nei giorni immediatamente precedenti la visita ufficiale a Los Pinos, residenza di Felipe Calderón, a San Cristóbal, nello stato di Guanajuato, Álvaro Uribe aveva tenuto un discorso pubblico sul tema della “Sicurezza Democratica” presso il Centro Fox, ambigua struttura creata e diretta dall’ex presidente messicano Vicente Fox, dove si svolgeva il vertice San Cristóbal “Humanismo Eficaz”, organizzato dalla Internacional Demócrata del Centro (IDC). Erano presenti oltre ai rappresentanti dei circa 110 partiti politici di destra e centro destra di 88 paesi diversi che vi fanno parte, il direttore della polizia colombiana e il governatore di Guanajuato, l’ultra conservatore del Yunque, Manuel Oliva.

Era inoltre presente Eduardo Fernández vicepresidente dell’ Organización Demócrata Cristiana de América, (ODCA), organizzazione che come la sua affiliata IDC, riunisce i partiti di tendenza democratico cristiana in America latina, organizzazione più volte accusata di rappresentare le intenzioni golpiste di Washington nella regione e di aver partecipato al colpo di Stato in Cile nel 1973 e in Venezuela nel 2002.

Un precedente presidente dell’ODCA, il politico cattolico Eduardo Fernández, del COPEI (che fa parte dell’IDC) fece da tramite tra la Spagna e il Venezuela nell’organizzazione del golpe contro Chávez. Pochi giorni prima dell’11 aprile 2002 lo troviamo infatti a Madrid e poi a Washington dove partecipò ad una riunione dell’ODCA.

Non poteva mancare quindi all’incontro a Guanajuato, Yon Goicoechea, leader del movimento studentesco venezuelano, insignito al premio Milton Friedman per il suo impegno nel “raggiungimento della libertà nel mondo”. In realtà il premio Friedman, conferito a Goicoechea, che consiste praticamente in 500mila dollari, altro non è stato che uno dei tanti modi che gli Stati Uniti hanno trovato per finanziare in Venezuela l’opposizione interna a Hugo Chávez. Goicoechea ha praticamente denunciato nel suo discorso, che il crimine e il narcotraffico stanno dominando di fatto tutto il suo paese e che il presidente venuezolano Hugo Chávez è completamente incapace a garantire la sicurezza dei suoi concittadini. Ha inoltre denunciato che il paese investe 80 volte più negli armamenti che nella sicurezza interna. “A questo si aggiunge uno scenario di violenza politica nel quale si organizzano da parte dello Stato gruppi armati irregolari per reprimere”, ha aggiunto, in quello che è stato uno degli interventi conclusivi del vertice.

Scontato è stato il suo discorso (se si pensa al premio recentemente ricevuto), e anche paradossale se si i considera che è stato fatto al cospetto dell’”ospite d’onore” Álvaro Uribe che notoriamente è un ottimo intenditore di corruzione, gruppi armati irregolari e narcotraffico.

… e quello con l’estrema destra messicana – El Yunque e il caso Sucumbíos

Numerosi sono stati gli incontri che Uribe ha avuto con vari rappresentanti dell’associazione messicana ultra conservatrice di destra El Yunque.

Oltre al governatore dello Stato di Guanajuato, Manuel Oliva, membro del Yunque, Alvaro Uribe si è incontrato nel corso di un colloquio privato con alcune organizzazioni civili tra le quali Mejor Sociedad, Mejor Gobierno e Consejo Ciudadano para la Seguridad Pública y la Justicia Penal A.C..

E proprio mentre in quei giorni in Messico Uribe veniva dichiarato persona non grata da varie associazioni per la difesa dei diritti umani tra le quali la Limeddh (Lega Messicana per la difesa dei Diritti Umani) e l’Associazione dei genitori e dei familiari delle vittime del massacro di Sucumbíos, vengono rivelati dettagli di un suo colloquio avuto con José Antonio Ortega presidente del Consejo Ciudadano para la Seguridad Pública y la Justicia Penal A.C., nonché dirigente di El Yunque.

Colloquio che Ortega ha richiesto esplicitamente per consegnare personalmente al presidente colombiano copia della denuncia presentata un mese dopo la morte dei quattro ragazzi messicani da lui e dal presidente di Mejor Sociedad, Mejor Gobierno, Guillermo Velazco Arzac, anch’egli vincolato con El Yunque, alla Procura Generale della Repubblica contro Lucía Morett, l’unica sopravvissuta al massacro che attualmente vive in Nicaragua ed altri 15 giovani tra i quali figurano i nomi dei quattro deceduti, per il reato di terrorismo.

Il Yunque, fin dai primi giorni in cui trapelò la notizia che in Ecuador si trovavano ragazzi messicani, cercò con un diffamatoria campagna di denigrazione portata avanti tramite i maggiori mezzi di comunicazione del paese, di accusarli di essere in procinto di progettare “atti di terrorismo” in territorio messicano e li accusò di far parte sia delle FARC che dell’EPR, (Ejército Popular Revolucionario) il maggior movimento armato del paese.

José Antonio Ortega, nel corso del suo colloquio con Álvaro Uribe, ha affrontato infatti il tema della presenza dell’EPR in Messico e non ha perso l’occasione per criminalizzare l’attività politica di Antonio Pavel, un altro sopravvissuto di Sucumbíos, membro della Direzione Collettiva del Comitato Centrale del Partito dei Comunisti, attivista nel recente sciopero dei maestri dello stato di Morelos, segnalando il suo nome al presidente colombiano che ha ringraziato la “società civile” presente all’incontro per la collaborazione e ha chiesto esplicitamente all’ambasciatore colombiano in Messico Luis Camilo Osorio di offrire tutto l’appoggio necessario e di seguire costantemente l’andamento dei procedimenti penali in corso contro i giovani.

Non è un caso che Luis Camilo Osorio sia stato presente all’incontro.

La Limeddh e l’Associazione dei genitori e familiari delle vittime di Sucumbíos da mesi organizzano varie iniziative pubbliche nei pressi dell’ ambasciata colombiana in Messico, dichiarandolo persona non grata nel paese. Ogni primo del mese inoltre, viene consegnato alla rappresentanza diplomatica colombiana un bollettino nel quale vengono affrontati i temi delle violazioni dei diritti umani in Colombia, viene illustrato un profilo dettagliato della figura dello stesso ambasciatore, accusato di aver più volte insabbiato le denunce contro paramilitari e narcotrafficanti e di aver manipolato e sottratto all’azione penale gravi casi di violazioni dei diritti umani quando ricopriva la carica di Fiscal General nel suo paese.

I bollettini inoltre vogliono essere un momento dedicato al riscatto della memoria di Verónica Sorel, Juan Gonzales e Fernando e quindi un ampio spazio è dedicato alla loro vita, ai loro sogni e a quello che erano e che volevano essere.

Ultimamente la senatrice Rosario Ibarra de Piedra ha consegnato alla Procura Generale della Repubblica più di 12mila firme raccolte chiedendo garanzie per la sicurezza e la libertà di Lucía Morett, in vista di un suo possibile ritorno nel paese e il ritiro delle denunce contro gli altri 15 ragazzi, chiedendo inoltre la fine della criminalizzazione della protesta sociale e delle idee.

Probabilmente anche del caso Morett hanno discusso Uribe e Calderón, ma pare quanto mai evidente, che alla luce di questi nuovi avvenimenti, un ritorno a casa in tutta sicurezza della giovane messicana non è al momento auspicabile per lei.

lunedì 17 novembre 2008

Barack Obama è un'alternativa per i lavoratori statunitensi?

Scritto da Shane Jones
A meno di due settimane dalle elezioni presidenziali, Barack Obama sembra ormai avviato alla vittoria sul repubblicano Mc Cain. Molti commentatori parlano di un cambiamento epocale nella politica di Washington. Ma sarà veramente così? In questo articolo i compagni della rivista marxista Socialist Appeal ci forniscono una visione ben diversa da quella che va per la maggiore.

----

Dopo anni di guerra aperta da parte di Bush contro i lavoratori, sia dentro sia fuori dagli Stati Uniti, molti nella “sinistra” cercano disperatamente un’alternativa. Per molti, questa alternativa è rappresentata da Barack Obama, un senatore democratico dell’Illinois. Obama, che è molto attento alle sue parole e alle sue azioni, ha fatto finora un buon lavoro nel dipingere se stesso come un “progressista sensibile”. Ad ogni modo, lungi dal rappresentare un’alternativa “progressista”, Obama è fondamentalmente un tipico rappresentante dei partiti politici espressione del padronato. Nonostante si presenti come il candidato del “cambiamento”, Obama è un difensore del capitalismo e dell’imperialismo, e dunque di sfruttamento e oppressione. Su tutte le questioni fondamentali, è molto più vicino a Bush che a rappresentare una vera alternativa per i lavoratori.

Lungi dal cercare la fine dello sfruttamento di classe, Obama ha una fede incrollabile nel sistema capitalista. Come i vari personaggi del tipo di Joe Lieberman, sostenitore di Obama sia politicamente che dal punto di vista finanziario, che Barack considera il suo “mentore”, egli chiarisce che il Partito Democratico è un partito dei padroni: “L’ultima volta che ho parlato con John Kerry confidava nella superiorità dell’esercito americano, Hillary Clinton crede invece nelle virtù del capitalismo…”

Obama arriva perfino a criticare il Partito Democratico da destra: “… i Democratici sono confusi. Ci sono quelli che continuano a farsi paladini di idee di altri tempi, difendendo ogni programma di New Deal e Stato sociale dall’attacco dei Repubblicani, raggiungendo il totale gradimento dai gruppi liberal. Ma questi sforzi sembrano non funzionare più, in un continuo gioco difensivo privo di energia e senza nuove idee, quelle che occorrono per rivolgersi tanto alla società in continuo mutamento della globalizzazione quanto ai sobborghi isolati delle città.”

Obama, che l’anno scorso ha guadagnato poco meno di 1 milione di dollari, è un sostenitore dell’Hamilton Project, un gruppo fondato da Robert Rubin, ex Segretario del Tesoro e attualmente amministratore di Citigroup (l’azienda più grossa del mondo, con un patrimonio totale di oltre 2.000 miliardi di dollari). Da senatore, Obama si oppose a una legge che avrebbe posto un tetto del 30% di interessi sulle carte di credito, fatto che avrebbe dato un po’ di respiro a molte famiglie di lavoratori americani costretti a pagamenti ad alto tasso di interesse. Inoltre votò per una legge di “riforma del sistema sanzionatorio” che limita la possibilità per i lavoratori di poter adire le vie legali e chiedere un indennizzo se subiscono torti dal loro datore di lavoro.

Sulla questione del sistema sanitario, Obama è contrario all’introduzione di un sistema sanitario nazionale pubblico, argomentando che lascerebbe disoccupati i lavoratori delle imprese sanitarie private, come Kaiser e BlueCross BlueShield! Questa è una cortina fumogena della peggiore specie. Cerca di sembrare a favore dei lavoratori, mentre in realtà difende gli interessi del grande capitale contro quelli dei lavoratori. È favorevole a “soluzioni volontarie”, in contrasto con le “imposizioni governative”. Ma come sa ogni lavoratore, i padroni non si offrono mai “volontari” per darci aumenti o vantaggi. Il settore sanitario privato che fa profitti d’oro, non è affatto intenzionato a sacrificare i suoi guadagni. Obama sta semplicemente evitando la questione. Tanto varrebbe dire la verità: non è a favore di alcun cambiamento fondamentale del sistema.

Come tutti i bravi politici amici del grande capitale, quando i capitalisti arrivano con denaro e regalie varie, Obama diventa il loro angelo custode politico. Per esempio, è uno strenuo difensore dell’industria leader nel settore dell’energia nucleare Exelon, che ha contribuito con oltre 74.000 dollari alla sua campagna. Exelon è un’industria associata con ComEd, la compagnia energetica che attualmente sta succhiando sempre più soldi ai cittadini dell’Illinois. I capitalisti del settore agricolo Archer Daniels Midland, stando a quanto è riportato, hanno concesso a Obama l’utilizzo di loro jet privati per la campagna elettorale. Pochi mesi dopo la sua elezione al Senato, Obama ha acquistato prodotti per un valore superiore a 50.000 dollari da AVI BioPharma, un’industria farmaceutica che avrebbe ottenuto benefici da provvedimenti appoggiati dal senatore democratico. George Soros, il noto miliardario e maestro della speculazione finanziaria, sostiene Obama, nonostante abbia detto che avrebbe sostenuto Hillary Clinton, se avesse ottenuto la nomination tra i Democratici. In ciascun caso, si sente tranquillo: i suoi miliardi di dollari saranno al sicuro anche con Obama.

È sulla sua “opposizione” alla guerra in Iraq che Obama ha guadagnato molto appoggio, ed è comprensibile, dal momento che la guerra è vista ogni giorno di più dai lavoratori americani come un completo disastro. Mentre molti sono in cerca di una vera politica di opposizione alla guerra, che cosa intende di preciso Obama quando “parla contro la guerra”? Lungi dall’opporsi al conflitto sulla base che è una guerra contro i lavoratori e i poveri tanto in patria che all’estero, egli avrebbe preferito un attacco all’Iraq meglio rappresentato e pianificato con più attenzione. È a favore di un imperialismo statunitense vittorioso, ma aggiunge un pugno di retorica semi-populista, come negli ultimi tempi hanno fatto tanti esponenti Democratici. Lui è stato semplicemente più veloce di altri a saltare su questo treno.

Obama è in effetti un ardente sostenitore della più ampia “guerra al terrore”. Come dichiarò in un cosiddetto discorso contro la guerra nell’ottobre 2002: “Vuole una guerra, Presidente Bush? Finiamo la guerra contro Bin Laden e Al-Qaeda con un efficace e coordinato sistema di sicurezza, e chiudendo tutte le reti di finanziamento che sostengono il terrorismo, e un programma di sicurezza nazionale che contempli qualcosa in più che un sistema di allarme a colori diversi di allerta.” Obama votò a favore di una nuova autorizzazione per il Patriot Act statunitense, che è stata pesantemente criticato da molti difensori di diritti civili in quanto limita fortemente le libertà civili. È stato contrario a provvedimenti di censura nei confronti di Bush per l’uso illegale di intercettazioni, e votò a favore della nomina di Condoleezza Rice a Segretario di Stato.

Obama ha fatto appello per un “ritiro graduale” delle truppe statunitensi e per l’apertura di un dialogo diplomatico con i paesi confinanti dell’Iraq, Siria e Iran. In altre parole, comprende che il meglio che l’imperialismo nordamericano possa fare è attenuare la portata della sconfitta, dato che la vittoria è ormai impossibile. Come altri esponenti della classe dominante un poco più lungimiranti, il suo obiettivo è quello di conservare la coesione e la disciplina dell’esercito – in modo che possa essere utilizzato in altre avventure imperialiste come in Afghanistan e oltre. Lungi dal proporre un immediato ritiro delle forze di occupazione in Iraq, Obama ha la prospettiva di ulteriori interventi nella regione, con un possibile scenario che veda le forze statunitensi rimanere in un Iraq occupato per un “periodo più lungo di tempo”, col paese che fungerebbe da piattaforma di lancio per le avventure dell’imperialismo. Questo comporterebbe “una ridotta ma attiva presenza nordamericana” che “protegga centri di rifornimento logistico” e “aree controllate dagli USA come la Zona Verde”: questo servirebbe a mandare “un chiaro messaggio alle nazioni ostili, Iran e Siria, rispetto al fatto che noi contiamo di continuare a giocare un ruolo chiave nella regione.” Le truppe statunitensi “che resteranno in Iraq agiranno come forze di reazione rapida alle emergenze e per la caccia ai terroristi.” Più di ogni altra cosa, Obama vuole una “soluzione pragmatica alla vera guerra che stiamo affrontando in Iraq”, e “la sconfitta delle insurrezioni”. Questi, naturalmente, sono due obiettivi tra di loro incompatibili. Le insurrezioni sono la reazione di massa da parte di un popolo che subisce un’occupazione. L’unica soluzione è l’immediato ritiro di tutte le truppe statunitensi e della “coalizione” dall’Iraq.

A marzo, Obama ha definito il governo iraniano “una minaccia per tutti noi … [Gli USA] non dovrebbero scartare alcuna soluzione, compresa l’azione militare, dal novero delle possibilità. Ha aggiunto che gli “strumenti principali” degli USA nel suo rapporto con l’Iran dovrebbero essere “una diplomazia insistita e aggressiva, insieme a dure sanzioni.”

Per farla breve, Obama sta cercando di accontentare tutti: è per la continuazione della guerra per un settore della classe dominante, mentre è contro quando si relazione un altro settore, pur di ottenere demagogicamente i voti dei lavoratori che sono veramente contro la guerra.

Obama, che potrebbe diventare il primo presidente nero degli Stati Uniti, ha cercato di presentare in modo rassicurante la piaga rappresentata dal razzismo negli USA. Il capitalismo americano poggia saldamente sull’oppressione delle minoranze come uno strumento d sfruttamento e divisione della classe lavoratrice. Ma Obama ritiene che alla radice della povertà dei neri siano “questioni culturali” – un argomento abbracciato anche da molti razzisti di destra. Anche uno sguardo superficiale alla storia dell’oppressione che i lavoratori neri e le loro comunità hanno dovuto subire mostra che quest’oppressione ha poco a che vedere con “questioni culturali”, ma al contrario è tutta connaturata alla struttura del capitalismo americano.

La brutalità della polizia, il taglio dei finanziamenti alle scuole delle aree disagiate, lo smantellamento dell’edilizia popolare, sono una “questione culturale”? La repressione brutale e la liquidazione di un’intera generazione di dirigenti neri, compresi Martin Luther King jr. e Malcolm X, dovrebbero essere considerati una “questione culturale”? Il fatto che un nero sui vent’anni su tre sia in prigione, fuori su cauzione, sotto processo, ai lavori forzati in comunità o in libertà condizionata, è forse una “questione culturale”? Eppure Obama vede il divario tra neri e bianchi negli Stati Uniti come una questione di buona o cattiva condotta personale. Ha affermato che i neri non possono progredire, “se non iniziamo a instillare nei nostri bambini che non c’è nulla di cui vergognarsi nei risultati di una buona educazione. Io non so chi abbia detto loro che imparare a leggere e scrivere e coniugare i verbi sia qualcosa ‘da bianchi’.”

Certo, ci sono alcuni che criticano Obama in base al colore della sua pelle. Noi rifiutiamo totalmente questo punto di vista razzista. I lavoratori neri negli USA, insieme ai loro fratelli e sorelle di classe di tutte le razze ed etnie, sono coloro funzionare l’economia più progredita del mondo ogni giorno. Non c’è alcuna ragione per cui uomini e donne di colore non debbano giocare un ruolo chiave nel determinare il futuro della società. In ogni caso, per i marxisti, è una questione di quali interessi di classe ciascuno difende. Deve essere chiaro che chiunque voglia combattere seriamente il razzismo deve essere pronto a combattere il capitalismo. Dal momento che è un rappresentante della classe capitalista, Obama non può e non vuole combattere nè l’uno nè l’altro.

A proposito di immigrazione, Obama ha cercato di mettere sullo stesso piano lavoratori e terroristi nel tentativo di militarizzare il confine. Obama ha giocato un ruolo attivo nel tentativo del Senato di aumentare la sicurezza dei confini attraverso nuove leggi sull’immigrazione. A partire dal 2005, egli fu tra i firmatari della “Legge per la Sicurezza dell’America e il Controllo dell’Immigrazion”e, presentata dal Senatore John McCain. Sostenne anche il Testo Unico di Riforma dell’Immigrazione presentato dal Senatore Arlen Specter, che non venne approvato dalla Camera. Nel 2006, Obama sostenne un altro provvedimento inerente questa materia, l’Atto per la Sicurezza dei Confini, che autorizzava la costruzione di 700 miglia di fortificazioni, mura e altre misure di sicurezza lungo il confine tra USA e Messico, per una spesa complessiva di 7 miliardi di dollari. Il Presidente Bush firmò la legge nell’ottobre 2006 definendola “un importante passo in avanti verso la riforma dell’immigrazione.” Il Segretario per la Sicurezza interna Michael Chertoff, di cui Obama approvò la nomina, disse che il provvedimento avrebbe “comportato significativi progressi nell’intento di impedire che terroristi e altri utilizzino i nostri confini”, suggerendo così direttamente che immigranti e terroristi siano la stessa cosa.

Obama è anche un forte sostenitore dei “programmi per i lavoratori ospiti” e ha accolto con grande favore la proposta del Senato dello scorso 18 maggio che includeva misure come la detenzione per un numero fino a 27.500 immigrati al giorno, il reclutamento di 18.000 nuove guardie di confine, e la costruzione di altre 370 miglia di mura di confine.

Bush e la sua cricca sono certamente il settore più estremo dell’ala reazionaria della classe dominante, con piani di conquista imperialista basati sui loro personali interessi economici: petrolio e altri gruppi legati all’energia, armamenti, costruzioni e altre compagnie che traggono benefici dagli interventi militari, come Halliburton. Ma la distinzione tra Bush e Obama non è di principio. Obama, come i più lungimiranti strateghi della classe dominante, cerca soltanto di limitare gli eccessi della cricca di Bush, che minacciano la stabilità degli USA e del capitalismo in generale. In questo senso, Obama al momento rappresenta più fedelmente gli interessi della classe capitalista a questo punto della storia di quanto non faccia Bush. Dunque Obama è davvero un alternativa per i lavoratori? I fatti parlano da soli.

19 settembre 2008

Obama. È vero cambiamento?

Obama nuovo presidente degli Usa
Scritto da Roberto Sarti
giovedì 06 novembre 2008

È vero cambiamento?

Barack Obama è il nuovo presidente degli Stati Uniti. È stato eletto con un’affluenza alle urne record, il 66%, percentuale che non si verificava dal 1960. Ha ottenuto il 52% dei voti: non succedeva dal 1976 per un candidato democratico alla Casa Bianca, nemmeno Bill Clinton infatti era mai riuscito ad ottenere la maggioranza assoluta.

Secondo una prima analisi del voto, Obama prevale tra i giovani, con il 68% dei consensi fra coloro che votavano per la prima volta. Realizza un “cappotto” tra gli elettori neri, con il 96% dei voti, e stravince anche tra gli ispanici: si calcola infatti che due su tre abbiano votato per il senatore di Chicago.

È un dato di fatto: queste elezioni costituiscono uno spartiacque nella politica americana.

Il voto del 4 novembre ha infatti rappresentato tutta la voglia di cambiamento di milioni di americani. Un voto di sfiducia verso gli otto anni di mandato di George Bush, un voto di rifiuto verso le politiche economiche dei repubblicani. Di questo non possiamo che rallegrarci. La Cnn ha reso noto un sondaggio, proprio durante la nottata dello spoglio dei voti, in cui il 93% degli americani riteneva che la situazione economica fosse molto negativa. Recandosi alle urne , tanti giovani e lavoratori americani hanno cercato una via d’uscita dalla crisi che sta gettando sul lastrico milioni di famiglie.

Barack Obama sembra rappresentare questa alternativa ed incarnare perfettamente la figura del “presidente del cambiamento”, anche perché è il primo presidente di origine afroamericana nella storia. Ma è proprio così?

A leggere la stampa di sinistra in Italia (per non parlare di Veltroni e i suoi amici, secondo cui “il mondo cambia” dopo la vittoria di Obama) sembra di sì, anzi quella che viene fuori è un immagine del primo presidente di colore della storia degli Usa con un nuovo messia, il salvatore dell’umanità. “Una nuova speranza” dice il Manifesto. “Forza Obama”, risponde Liberazione.

Come comunisti, crediamo che non possiamo accontentarci del “meno peggio”, o farci guidare solo dalle “emozioni” e dalle “passioni” ma dobbiamo cercare di analizzare il programma di Obama, le forze che lo sostengono ed il contesto politico, economico e sociale nel quale viene eletto. Milioni di persone hanno trovato in Obama quello che desiderano vedere, non per quello che realmente rappresenta. In momenti di grande incertezza per il futuro come questi, le parole “speranza” e “cambiamento” sono di grande richiamo. Ma possiamo credere che basti l’elezione di un presidente nero a sconfiggere “per sempre” il razzismo, come crede il direttore di Liberazione Sansonetti?

Desideri e realtà


Le posizioni politiche di Obama hanno ben poco di progressista.

Partiamo dalle questioni economiche. È sostenuto da tutte le principali multinazionali, ha raccolto infatti oltre 640 milioni di dollari a sostegno della sua campagna elettorale, una cifra record.

Davanti alla crisi devastante che sta colpendo l’economia Usa, ha approvato il piano da 700 miliardi di dollari proposto dall’amministrazione Bush per salvare le banche e gli istituti finanziari. Forse perché fra i suoi principali finanziatori della campagna elettorale ci sono Goldmann Sachs e Jp Morgan?

Rispetto alle scelte energetiche, Obama è un sostenitore del carbone e dell’energia nucleare, per il dispiacere di molti suoi sostenitori fra gli ambientalisti.

Sulle libertà civili, il senatore dell’Illinois ha sostento il Patriot’s Act, la legge voluta da Bush dopo l’undici settembre che limita molte libertà democratiche e concede enormi poteri alle forze dell’ordine. Sull’immigrazione, ha votato per l’introduzione di leggi restrittive sull’entrata di lavoratori da altri paesi (provvedimenti proposti fra gli altri da John McCain) e per la costruzione del muro che divide gli Stati uniti dal Messico.

In politica estera, Obama è un sostenitore della guerra al terrore e vuole aumentare i fondi per le spese militari. Si è schierato contro la guerra in Iraq, ma solo perché è stata condotta male da parte dell’amministrazione Bush. È invece per un aumento della presenza delle truppe Usa in Afghanistan nell’ordine di 10mila unità. È fautore di un aumento dell’influenza degli Stati uniti nell’intera area dell’Asia centrale e non esclude la necessità di invadere l’Iran e, più recentemente, anche il Pakistan. Rispetto all’America latina, ha definito più volte Hugo Chavez come un “dittatore”.

Barack Obama è uno strenuo difensore degli interessi dell’imperialismo Usa, semplicemente vuole perseguirli con altri metodi rispetto a quelli dei repubblicani.

Il partito democratico avrà una solida maggioranza sia alla camera che al senato, questo darà ad Obama un certo margine di manovra. Ciò non potrà dare scuse ai democratici per eventuali, e del tutto probabili, ritardi nell’attuazione delle promesse fatte in campagna elettorale. Le enormi aspettative suscitate da Obama eserciteranno inoltre una grande pressione sul suo governo: la gente pretenderà subito risultati concreti

I sostenitori di “sinistra” di Obama non negano che Barack sia un moderato, ma obiettano che saranno i movimenti sociali a spostarlo a sinistra. Immaginiamo già i brividi di terrore pervadere i militanti di Rifondazione comunista al solo ricordo dell’ultima volta che hanno sentito parlare di “condizionamenti dei governi da parte dei movimenti”!

Il punto è che sia il partito democratico, espressione degli interessi delle grandi multinazionali, sia Obama, un politico borghese al 100% anche se proveniente da una minoranza etnica, non potranno essere permeabili alle istanze dei movimenti.

Obama e la crisi economica


Inevitabilmente le mobilitazioni che cresceranno negli Stati uniti si rivolgeranno ad un certo punto contro lo stesso Obama e contro il Partito democratico. Certo, in un primo periodo le illusioni rispetto al nuovo presidente saranno molto grandi, ma la crisi economica le frantumerà, una dopo l’altra.

Nei primi nove mesi di quest’anno già 750mila persone hanno perso il proprio posto di lavoro. In un anno il tasso di povertà è passato dall’11,3 al 12,5%, mentre fra la classe lavoratrice le famiglie povere sono già il 28% del totale (il Manifesto, 4 novembre 2008).

Obama nel suo discorso di investitura ha fatto appello all’unità nazionale. Ma di quale “unità nazionale” parla? Gli Stati Uniti sono un paese dove la differenza fra ricchi e poveri è scandalosa ed è in costante crescita: il 20% della popolazione detiene l’85% della ricchezza. Obama non vuole cancellare queste disparità, sogna infatti un economia di mercato dove la ricchezza aumenti per tutti, sia per i lavoratori che per i capitalisti (ed a quest’ultimi dovrebbe andare comunque la fetta più grossa della torta).

Ma il boom economico del dopoguerra non può tornare, gli Stati uniti sono oggi il più grande debitore del mondo e non si capisce dove possano trovare i soldi per accrescere la ricchezza dell’americano medio senza intaccare le fortune delle multinazionali.

Nei prossimi mesi le priorità della borghesia Usa saranno ben altre: vogliono scatenare una guerra contro tutti gli oppressi e cercheranno di portarla avanti attraverso il Partito democratico, sfruttando il suo legame storico con la centrale sindacale Afl-Cio per fare accettare i sacrifici alle masse.

In questa campagna elettorale, tuttavia, milioni di persone si sono interessate per la prima volta alla politica, cercando in maniera confusa una soluzione ai propri problemi: alla scuola dei Democratici al potere, i lavoratori Usa impareranno dure lezioni. La necessità di costruire un partito dei lavoratori, alternativo ai due grandi partiti della borghesia, diventerà sempre più imprescindibile.

mercoledì 12 novembre 2008

Barack Obama: un volto nuovo per il vecchio imperialismo

Correo Internacional - pubblicazione del Segretariato della Lit - Quarta Internazionale

Il trionfo del senatore Barack Obama nelle primarie del Partito Democratico è un fatto inedito nella storia degli Usa: per la prima volta, ci sarà un candidato nero alle elezioni presidenziali, in rappresentanza di uno dei due grandi partiti. Non solo: i sondaggi indicano che ha molte possibilità di sconfiggere il suo rivale repubblicano, John McCain.
Il fatto che un giovane politico nero, figlio di un immigrato africano musulmano, possa trasformarsi nel primo presidente nero del Paese era assolutamente impensabile anni addietro e poteva verificarsi solo in qualche telefilm, come 24 ore. È logico, allora, che questo crei una grande eco negli Usa e in tutto il mondo. Ed anche molta confusione che tocca persino, come vedremo in questa edizione di Correo Internacional, alcune correnti di sinistra.
Si tratta di un cambiamento reale, parziale ma importante, del sistema di potere politico della principale potenza imperialista mondiale? O, al contrario, è solo un necessario adattamento formale di questo sistema (un “volto nuovo”) per potere affrontare in migliori condizioni le gravi difficoltà dell’imperialismo statunitense nel mondo e nello stesso Paese?
La Lit afferma chiaramente che si tratta della seconda alternativa. Per dimostrarlo dobbiamo analizzare, da una parte, le caratteristiche centrali del sistema che ha creato una figura come quella di Barack Obama e, dell’altro, le condizioni che hanno reso necessario il suo possibile accesso alla presidenza.


IL SISTEMA BIPARTITICO
Il sistema politico-elettorale statunitense è basato sull’esistenza di due grandi partiti borghesi (repubblicano e democratico) che, secondo le circostanze, si alternano alla presidenza e all’opposizione parlamentare.
Entrambi i partiti presentano differenze politiche e si basano su diverse basi elettorali. I repubblicani esprimono tradizionalmente posizioni più reazionarie e si appoggiano sulla classe media delle medie e piccole città e sulla classe media più agiate delle grandi città. I democratici, da parte loro, esprimono posizioni più “liberali” (nel senso statunitense della parola) e il loro appoggio elettorale viene dai lavoratori e dalla classe media “liberal” delle grandi città, oltre a comprendere tradizionalmente le minoranze (neri e latini) e altri settori discriminati. Per il loro peso storico nelle direzioni sindacali, i democratici hanno svolto sempre il ruolo di ostacolare un’alternativa indipendente della classe operaia sul terreno elettorale. Tuttavia, è necessario aggiungere che, negli ultimi anni, queste differenze politiche sono andate via via sciogliendosi ed esiste oggi una forte destra democratica senza grandi differenze coi repubblicani.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che repubblicani e democratici sono partiti della borghesia imperialista fino al midollo. Ciò che è dimostrato, in primo luogo, dalle favolose quantità di denaro che le grandi imprese stanziano per finanziare entrambi i partiti e i loro candidati. In questo sistema, nessun politico ha possibilità reale di accedere a cariche importanti se non può contare su un forte appoggio finanziario delle imprese in cambio di impegni con questi finanziatori.
In un altro articolo di questa edizione [v. qui sotto] analizzeremo questi dati, dai quali è possibile dedurre a quali settori borghesi è più legato ogni partito: i repubblicani sono appoggiati soprattutto dalle industrie petrolifere, quelle chimiche, automobilistiche, della costruzione e dell’agrobusiness; mentre i democratici sono forti nel settore finanziario-assicurativo-immobiliare, dell’educazione e della salute.
In secondo luogo, la caratterizzazione dei repubblicani e dei democratici come partiti della borghesia imperialista è dimostrata dalla politica che quei partiti applicano quando governano. Molti sono del tutto convinti che i repubblicani siano più guerrafondai e i democratici più pacifisti. La realtà lo smentisce: molti interventi militari e guerre dell’imperialismo statunitense sono state iniziate da presidenti democratici. Per esempio, fu John Kennedy ad intervenire in Vietnam, all’inizio degli anni ‘60, e fu sempre lui a sostenere l’invasione della Baia dei Porci contro Cuba; Harry Truman ordinò di lanciare la bomba atomica ad Hiroshima e Nagasaki, nel 1946; mentre l’attuale guerra in Iraq, per quanto sia stata centrale nella politica di George W. Bush, ha contato sull’appoggio parlamentare democratico. Nel momento di difendere gli interessi imperialisti nel mondo, entrambi i partiti finiscono per unificare la loro politica.


CHI È BARACK OBAMA?
Leggendo la sua biografia, una prima conclusione è che egli quasi non ha subito, o le ha subite in misura molto minore, la discriminazione, la violenza e la mancanza di opportunità che vive quotidianamente la maggioranza dei giovani neri in Usa. Figlio di un keniano emigrato, che dopo sarebbe ritornato nel proprio Paese, e di una statunitense, ha studiato diritto nella Columbia University di New York e nell’esclusiva Harvard Law School, dove si è laureato con menzione magna cum laude. Ha lavorato in uno studio legale e quindi si è trasferito a Chicago dove venne nominato professore nell’Università. In quella città, iniziò a frequentare il Partito democratico e cominciò una rapida carriera politica: nel 1996, venne eletto al senato statale dell’Illinois e, nel 2004, senatore nazionale, in entrambi i casi con l’appoggio di Bill Clinton. Nel 2007, decise di lanciare la sua precandidatura presidenziale nelle primarie democratiche, con l’appoggio dell’influente senatore Edward Kennedy. Il finale lo conosciamo già.
La sua immagine di “ragazzo nero di successo” risulta, evidentemente, molto più simpatica di quella della “saputella” Hillary Clinton o di quella dell’ex militare John McCain. Ma è molto lontano dall'essere un outsider, un elemento marginale che è andato guadagnando peso in una dura lotta contro l’apparato del partito democratico. Al contrario, è un prodotto genuino di quell’apparato, la cui figura è stata costruita per potere essere utile in momenti difficili come questo.
Pensare che una sua possibile presidenza possa rappresentare un cambiamento importante nel contenuto della politica statunitense significherebbe credere che politici imperialisti di provata esperienza, come Edward Kennedy, e imprese come Goldman Sachs, investirebbero il proprio peso politico o i propri dollari per appoggiare qualcuno che sarà, sia pure in parte, loro nemico.


LE SUE POSIZIONI POLITICHE
Ora diamo un’occhiata alle sue posizioni, tenendo conto che, come in altri Paesi, i politici statunitensi mascherano le loro vere posizioni durante le campagne elettorali. Nel caso di nuove figure democratiche, come Obama, suole confermarsi una legge: si situano più a sinistra nelle primarie del partito, si spostano più a destra nella campagna nazionale e completano fino in fondo questa svolta accedendo al governo.

a) Le guerre in Iraq ed Afghanistan
Quando era senatore statale, si oppose all’invasione dell’Iraq, cosa che è stata molto sfruttata nelle sue critiche a Hillary Clinton che invece l’appoggiò. Nel suo sito, ha presentato un Obama’s Iraq plan che propone il ritiro delle truppe statunitensi in 16 mesi, contemporaneamente al rafforzamento della loro presenza in Afghanistan per vincere questa guerra. (1) Tuttavia, il suo consulente di politica estera ha chiarito che quel piano prendeva in considerazione “il migliore scenario possibile” e che “sarà rivisto” quando arriverà alla presidenza. (2)

b) Israele e Medio Oriente
Su questo tema, Obama invece ha parlato con estrema chiarezza a fronte della necessità di guadagnare l’appoggio della “lobby pro-Israele” statunitense, di grande peso politico e finanziario, che lo guardava con sfiducia. In una visita all’Aipac (American Israel Public Affairs Comittee) ha dichiarato che esistono “legami indistruttibili tra Israele e Usa”. Ha aggiunto che “tutti quelli che minacciano Israele ci minacciano” e ha promesso di offrire “tutti i mezzi disponibili per difendersi da tutte le minacce provenienti da Gaza o Teheran”. Ha affermato che “la sicurezza di Israele è sacrosanta. Non è negoziabile” terminando col dire che “Gerusalemme continuerà ad essere capitale di Israele, e deve rimanerlo senza essere divisa”. Dopo il discorso, l’ambasciatore israeliano a Washington ha dichiarato che “il discorso che Barack Obama ha pronunciato davanti ai delegati dell’Aipac è stato molto importante e stimolante”. (3)

c) Le crisi economiche
In un discorso pronunciato nel febbraio scorso, Obama ha affermato che l’attuale recessione che vive il Paese e le conseguenze per il popolo americano non erano dovute “a forze fuori del nostro controllo né agli inevitabili cicli dei commerci” bensì alle politiche sostenute dal governo di Bush. (4) Sapere quali misure vuole applicare è già molto più difficile perché il discorso sviluppa solo le critiche a Bush.
Nella sezione “Economia” della sua pagina web presenta la seguente definizione: “Credo che il libero mercato sia stato il motore del grande progresso dell’America. Ha creato la prosperità che è l’invidia del mondo ed ha portato ad un livello di vita ineguagliato nella storia. (…) Siamo uniti in questo. Dai presidenti delle compagnie fino agli azionisti, dai finanzieri fino ai lavoratori delle fabbriche, tutti abbiamo interesse al successo dell’altro perché quanto più prosperano gli americani, tanto più prospererà l’America”. (5) Niente di molto concreto, ma che cosa ci si può attendere da chi considera che la base di tutto è il “libero mercato” e che i lavoratori delle fabbriche “sono uniti in questo” con gli imprenditori, i finanzieri e gli azionisti?

d) La questione degli immigrati
Obama ha partecipato a Chicago alle massicce mobilitazioni degli immigrati del 1º Maggio del 2006. Nel 2008 ha scritto: “Due anni dopo, il nostro problema dell’immigrazione continua senza soluzione, e quelli che vorranno un cambiamento dovranno votare in favore di questo in novembre. Perciò oggi, io invito quelli che vogliono il cambiamento a lavorare votando nei mesi a venire. Il loro voto è la loro decisione”. (6) In altre parole, non continuare la lotta: la soluzione è votarlo come presidente. È difficile sapere come potranno seguire questo consiglio i 12 milioni di immigrati illegali senza nessun diritto politico.
Nella stessa lettera, le sue proposte sono del tutto vaghe: “Voglio ancora esprimere il mio impegno alla riforma integrale dell’immigrazione e che farò tutto il possibile per portare ordine e pietà in un sistema che oggi è a pezzi”. Tuttavia, è molto probabile che, se vincerà, applicherà la stessa politica proposta dal suo mentore, il senatore Edward Kennedy, nel disegno di legge che porta il suo nome (scritto in accordo col governo di Bush). Una legge che cerca dividere gli immigrati illegali. Da una parte, quelli che riusciranno a dimostrare di aver vissuto negli Usa per più di cinque anni potranno aspirare a ottenere la residenza permanente, dopo un lunghissimo processo di permessi temporanei con condizioni molto difficili da adempiere. “Al tempo stesso, questo significa che gli altri 5 milioni di clandestini saranno, in realtà, sloggiati del Paese, benché possano richiedere un visto legale dai loro Paesi, per potere ritornare negli Usa. Siccome la legge propone in realtà una quota annuale di 325.000 visti provvisori di lavoro, la maggioranza, di fatto, non potrà mai ritornare legalmente”. (7)

e) Su Cuba
Come nel caso di Israele, anche Obama ha cercato appoggi a destra. In questo caso, nella Fondazione Nazionale Cubano-Americana, a Miami, uno dei settori più reazionari della borghesia cubana esiliata negli Usa, dopo la rivoluzione del 1959. Nel suo discorso, ha ripetuto la vecchia formula di alleanza con questa borghesia affinché la colonizzazione statunitense possa tornare sull'isola, oltre a dichiararsi favorevole al mantenimento dell’embargo commerciale: “Ci troviamo qui nel nostro impegno irriducibile per la libertà. Ed è corretto che lo riaffermiamo qui a Miami (…) insieme, andiamo a difendere la causa della libertà a Cuba. (…) Non esistono migliori ambasciatori della libertà di voi cubano-americani. (…) Voglio mantenere l’embargo. Esso ci fornisce lo strumento necessario per affrontare al regime (…) È così che possono promuoversi trasformazioni reali a Cuba: attraverso la diplomazia forte, intelligente e basata sui principi”. (8)

f) La questione razziale
È un tema molto importante poiché il “voto nero” è stata la base più solida del suo trionfo nelle primarie democratiche e lo sarà anche se vince le elezioni presidenziali. Sicuramente questa base elettorale confida molto che un presidente nero li aiuti a superare la storica situazione di oppressione e discriminazione in cui versa. Tuttavia, nella sua carriera politica, Obama ha sempre cercato di evitare la “questione razziale”; quando è stato costretto ad affrontarne il tema, ne ha relativizzato il peso rivendicando il fatto che la “società americana” era progredita e lo stava superando. Per esempio, in un discorso alla Convenzione Nazionale Democratica del 2004, ha affermato: “Non ci sono un’America liberale e un’America conservatrice bensì gli Stati Uniti d’America. Non ci sono un’America nera e un’America bianca, un’America latina ed una asiatica, bensì gli Stati Uniti d’America”. (9) Più recentemente, per prendere le distanze del pastore della sua chiesa che aveva detto che il razzismo era una componente strutturale e storica della società statunitense, ha dichiarato: “Il profondo errore del reverendo Wright non è stato parlare del razzismo nella nostra società, ma parlare come se la nostra società fosse statica, come se non si fosse prodotto alcun avanzamento, come se questo Paese (…) fosse ancora irrevocabilmente vincolato ad un passato tragico”. (10) Penseranno la stessa cosa i milioni di neri oppressi che hanno votato per lui o gli immigrati latini illegali?


PERCHÉ OBAMA?
Abbiamo visto che Obama è parte del “nucleo” del partito democratico, e quindi del sistema politico bipartitico, e abbiamo dato una rapida occhiata alle sue posizioni. Ora vogliamo analizzare perché la borghesia degli Usa, o per lo meno settori molto importanti, fanno appello a lui.
La spiegazione di fondo è la crisi su vari fronti che l’imperialismo statunitense vive attualmente. In primo luogo, il fallimento della politica di “guerra contro il terrore” di Bush si rivela nel corso sfavorevole delle guerre in Irak ed Afghanistan, e nell’indebolimento di Israele dopo la sua sconfitta nel Libano e la sua impossibilità di piegare la Striscia di Gaza. In Medio Oriente, gli Usa sono finiti in un pantano da cui non possono uscire senza ammettere una sconfitta, che ridimensionerebbe il loro ruolo di “gendarme mondiale”, né aumentare ancora più la loro presenza militare senza aggravare la situazione.
A ciò si somma, in una combinazione eccessivamente pericolosa per la borghesia, la recessione che vive già il Paese e le prospettive di una profonda crisi economica. Cioè, la borghesia dovrà scaricare inevitabilmente una parte del costo di quella crisi sulle spalle dei lavoratori, attraverso la disoccupazione e il ribasso salariale. Qualcosa che succede già in giganti come la General Motors che minaccia di licenziare tutti i lavoratori che non accettino una riduzione dei loro salari alla metà. La classe operaia statunitense è un gigante di 120 milioni di persone. Poche volte nella sua storia è uscito a lottare unita, ma quando lo ha fatto le fondamenta imperialista sono state scosse. La lotta dei lavoratori immigrati, il settore più sfruttato di quella classe, può essere un anticipo di quella prospettiva.
Allo stesso tempo, il fallimento della “era americana” di George W. Bush ha lasciato il partito repubblicano grandemente indebolito e screditato e senza figure di ricambio (come pure, benché in misura minore, si è indebolito il sistema politico nel suo insieme). È molto difficile che i repubblicani possano affrontare una situazione tanto complessa e difficile che, in molti aspetti, hanno contribuito a creare con le loro politiche.
Per la maggioranza della borghesia statunitense è risultato chiara, allora, la necessità di giocare la carta della “alternativa democratica”. Inizialmente, il cavallo su cui scommettere fu la “donna forte” Hillary Clinton. Ma, davanti all’aggravamento della situazione, essa ha cominciato a vedere la necessità di un cambiamento più profondo del “volto” e si sono accresciute le possibilità di Obama, come la figura più capace di difendere i suoi interessi in questo quadro.


UN NEMICO ANCORA PIÙ PERICOLOSO
In sintesi, settori importanti della borghesia imperialista hanno deciso di utilizzare qualcuno che, per certe caratteristiche (giovane, nero, di padre musulmano) può essere spacciato come parte di coloro contro i quali si preparano i peggiori attacchi, così cercando di addormentare la loro reazione.
Per l’appunto, negli ultimi decenni, i democratici si sono distinti per aver presentato “volti nuovi” nelle elezioni presidenziali. Per esempio, il “giovane modello” John Kennedy, dopo del fine del maccartismo, o Bill Clinton, antico oppositore della guerra in Vietnam.
Alcuni giornalisti hanno tracciato un’analogia tra Obama e Jimmy Carter, che fu eletto presidente nel 1977, dopo la sconfitta in Vietnam e il procedimento politico che destituì Richard Nixon. Sebbene vi siano profonde differenze fra i due, esiste un chiaro punto in comune: la necessità di affrontare una profonda crisi dell’imperialismo e del suo sistema politico e, per questo, l'apparire "diversi". Per esempio, durante la campagna elettorale, Carter iniziava tutti i suoi discorsi con la frase: “Non sono avvocato, non sono di Washington”.
Ma quelle “differenze” si limitano agli aspetti esteriori: tutti hanno difeso ad oltranza gli interessi dell’imperialismo statunitense, nelle condizioni concrete in cui toccò loro agire. Perciò, se vincerà le elezioni presidenziali, Barack Obama sarà il principale nemico dei popoli del mondo e dei lavoratori degli Usa. In questo, nulla cambierà rispetto a Bush. Ma sarà un nemico molto più insidioso perché cercherà di mascherare questo carattere attraverso la sua immagine nuova e diversa. La conclusione è molto chiara: se giungerà alla presidenza degli Stati Uniti, i lavoratori ed i popoli del mondo dovranno combatterlo con tutte le loro forze.


Il finanziamento dei candidati
Business are business

Come nel resto del mondo, negli Usa, la borghesia finanzia i suoi partiti e i suoi candidati. La differenza risiede nel fatto che, mentre in altri Paesi questi legami tendono a restare nascosti, la legislazione statunitense esige che tutto sia pubblico e documentato. In tal modo, la pagina web www.opensecrets.org offre un riassunto di dati molto interessanti, classificati per settore economico, imprese che più hanno finanziato, quanto ha ricevuto ogni candidato, ecc.
Da lì sappiamo, per esempio, che, fino a maggio del 2008, “gli eventuali nominati hanno ricevuto più di 500 milioni di dollari, un cifra record”, distribuiti nella seguente maniera:
Barack Obama: 265.439.277;
Hillary Clinton: 214.883.437;
John McCain: 96.654,783. (11)
Analizzando la sequenza storica, è possibile vedere come si sia andato producendo uno spostamento di finanziamenti dei repubblicani verso i democratici, dal 2006 al 2008, e come siano cresciute le donazioni ad Obama, fino a farlo essere il primo della lista.
I dati ci permettono di analizzare anche a che settori borghesi è più legato ogni partito (benché le imprese per tradizione cercano di “tenere i piedi in due staffe”). Considerando la percentuale di finanziamenti a ciascun partito, i repubblicani si appoggiano maggiormente sulle industrie petrolifere (73%), automobilistiche (68%), chimiche (68%), costruzioni (62%) ed agrobusiness (quasi 60%). Da parte loro, i democratici sono forti invece nel settore educazione (72%) e salute (55%). Il settore finanziario-assicurativo-immobiliare, il settore economico che più finanzia le diverse campagne (248 milioni), ha concesso loro il 54%. Tra le grandi imprese del settore, la preferenza democratica è chiara: Goldman Sachs ha destinato loro il 73% dei quasi 3,7 milioni di contributi; Citigroup il 61% di 3 milioni e Morgan Chase il 64% di 2,5.


Nasce il “trotskismo obamista”?

In questa stessa edizione, segnaliamo che la candidatura presidenziale di Barack Obama ha generato “anche molta confusione che tocca persino alcune correnti di sinistra”.
Ne è una chiara espressione l’articolo "Il fenomeno Obama" che sta circolando su Internet. Il suo autore è Olmeto Beluche, dirigente del Partito di Alternativa Popolare del Panama e membro di una corrente di cui fanno parte il Mes (Movimento di Sinistra Socialista) del Brasile, il Mst (Movimento Socialista dei Lavoratori) dell’Argentina e l’Iso (International Socialist Organization) degli Usa. Ci sembra importante polemizzare con questo articolo perché esprime un meccanismo di ragionamento che, mascherato di “tattica marxista intelligente”, conduce alla capitolazione totale alla politica imperialista. Non sappiamo se queste posizioni siano condivise o no dall’insieme delle organizzazioni della sua corrente ma, fino ad ora, non ci risulta che sia stato pubblicato alcun materiale di critica.
L’articolo parte da una definizione che sembra chiaramente demarcatoria: “Ovviamente, sarebbe una vana illusione e un grave errore da parte nostra, credere che se in novembre venisse eletto Obama, come per incanto sparirebbe la politica imperialista dagli Stati Uniti nel mondo. Anche lui rappresenta un settore importante dell’’establishment’ nordamericano”.
Per aggiungere dopo: “La vittoria democratica, specialmente se il candidato è Barack Obama, non significherà la fine dell’imperialismo yankee, né della politica guerrafondaia, ed è probabile che neanche significherà la fine immediata della guerra in Iraq. Ma mi sembra che - questo sì - segnerà un cambiamento di tono, un’attenuazione di certi tratti terribili di un regime nordamericano che, dopo l’11 settembre, incarna una certa forma di neofascismo” (corsivo nostro).
Fino a qui, la conclusione, in certi limiti, è corretta. Il trionfo di Obama rappresenterà “un cambiamento di tono” della politica imperialista rispetto a quella applicata da Bush. Ma occorrerebbe aggiungere due cose. La prima è che questo “cambiamento” sarebbe il necessario adattamento dell’imperialismo statunitense per affrontare le conseguenze del fallimento di quella politica. La seconda è che, come segnaliamo nell’articolo principale, i democratici sono esperti nella presentazione di una “nuova immagine” senza cambiare l’essenziale. Da questo punto di vista, Obama non è una “novità” bensì solo un’altra variante di qualcosa che è già tradizionale nella politica statunitense. Qualcosa che l’autore dimentica pericolosamente.
Per questo, dopo una lunga disquisizione sulla logica hegeliana e la contraddizione tra “essenza” e “apparenza”, ci dice: “Il discorso radicale di Obama ha catalizzato la volontà di milioni di nordamericani per ‘il cambiamento’ che si oppongono alla continuazione dei ‘falchi’, rappresentanti diretti del capitale industriale-militare. Questo è di per sé progressivo. E se Obama non rispetterà (il che è molto probabile) questo ampio settore dell’elettorato yankee, gli farà fare un passo in avanti nella sua presa di coscienza politica e lo porrebbe in condizioni migliori per mobilitarsi per le istanze che oggi crede di poter incanalare attraverso Obama” (corsivo nostro).
Cioè, per guadagnare le primarie democratiche, egli ha creato un “movimento oggettivamente progressivo” le cui rivendicazioni o sono mantenute dalla sua presidenza (la cosa meno probabile) o si crea un salto nella coscienza e nella mobilitazione delle masse. In qualsiasi caso, il processo non comporterebbe perdite per le masse né per i rivoluzionari. È quasi incredibile che l’articolo apra alla possibilità, benché minima, che Obama, pressato dalle masse, mantenga le sue promesse e il suo “discorso radicale”. In altre parole affermi che, per “pressione oggettiva” e al di là delle sue stesse intenzioni, Obama svolgerebbe un “ruolo progressivo”.
Perfino se lasciamo da parte quest’alternativa, continua ad essere un ragionamento completamente falso che non ha nulla a che vedere coi fatti. In primo luogo, Obama non ha creato (né “catalizzato”) alcun movimento: questo esisteva già nella realtà, nelle mobilitazioni contro la guerra e nella gran caduta di consenso del popolo statunitense, nelle mobilitazioni degli immigrati, nei primi scioperi operai, ecc. Per l’appunto, egli è la figura scelta dalla borghesia imperialista per frenarlo ed evitare che cresca, facendogli abbandonare le piazze e portandolo sulla via morta delle elezioni. L’autore sembra dimenticare tutte le lezioni storiche. Esiste, ovviamente, la possibilità che le masse facciano l’esperienza con Obama ed avanzino nella loro coscienza e nella loro mobilitazione. Ma esiste anche la possibilità, e questo è il principale rischio oggi, che egli riesca a “addormentare” la loro coscienza e fallisca il processo.
In qualsiasi caso, questo è il compito che gli hanno assegnato. Perciò ha ricevuto l’appoggio di sperimentati politici imperialisti, come Edward Kennedy e Zbigniew Brezinski, e l’appoggio finanziario delle grandi imprese. Pensare che questa gente abbia buttato nel piatto il proprio peso politico e il proprio denaro con lo scopo di creare, “obiettivamente”, un “movimento progressivo” che si rivolterà contro di essi, è non solo un abuso della dialettica ma anche un insulto all’intelligenza dei cervelli imperialisti.
Ma l’autore è conseguente fino alla sua conclusione: “ (…) mi sembra che rispetto a queste elezioni non siano la stessa cosa l’uno e l’altro. E bisognerebbe scommettere sulla sconfitta dei repubblicani. Perfino a rischio di essere accusato di opportunismo, se il sistema yankee fosse di due turni, proporrei apertamente che la sinistra nordamericana (…) votasse criticamente Obama contro McCain”.

Fino ad ora, molte correnti di passata provenienza trotskista avevano utilizzato il ragionamento dell’“oggettivamente progressivo” per giustificare la loro capitolazione e il loro appoggio ai governi borghesi di Chávez, Evo Morales e Correa, e il loro appoggio elettorale a monsignor Lugo. In questi casi, avevano almeno la scusa che quelli del Venezuela, Bolivia ed Ecuador sono governi di Paesi coloniali con “un contrasto con l’imperialismo”, e che in Paraguay si trattava di “sconfiggere il Partido Colorado”.
Con questa proposta, l’autore fa un salto qualitativo: la ricerca di “sfumature” nell’’imperialismo, tra “falchi” e “colombe”. Una logica che, fino ad ora, aveva utilizzato solo, nel passato, lo stalinismo per giustificare accordi a lungo termine tra l’ex Urss e gli “imperialismi democratici” contro gli “imperialismi guerrafondai” o con le “correnti democratiche dell’imperialismo” contro le “correnti belliciste”. (12) L’abbandono dei principi rivoluzionari da parte di diversi sedicenti “trotskisti” ci ha abituati già alle loro permanenti capitolazioni. Tuttavia, capitolare all’imperialismo statunitense significa essere arrivati molto lontano su questa strada. Come diceva Don Chisciotte della Mancia: “Vedrai cose, Sancho, alle quali non crederai”.

NOTE

(1) Ripreso da www.barackobama.com/issues/iraq.
(2) Citato da www.politico.com/blogs/bensmith.
(3) Si veda: afp.google.com/article, 4/6/2008.
(4) Ripreso da blogdoalon.blogspot.com, 13/2/2008.
(5) Ripreso da www.barackobama.com/issues/economy.
(6) “Proposta agli immigrati”, Gray Brooks, 1/5/2008.
(7) Correo Internacional, 12/4/2006 (www.litci.org).
(8) www.folha.uol.com.br/folha/mundo, 23/5/2008.
(9) Presidenciais2008.wordpress.com/2008/02/03.perfil-de-barack-obama.
(10) Foro.univision.com/uni vision, 18/3/2008.
(11) I finanziamenti ai democratici sono stati più concentrati che non quelli ai repubblicani. Ad esempio, fra questi ultimi, chi ha ricevuto di più è stato Mitt Romney (quasi 105 milioni) e terzo si è posizionato l’ex sindaco di New York, Giuliani, con 54 milioni.
(12) Ad esempio, questa è stata la base per giustificare i fronti popolari con settori della borghesia imperialista in Europa, negli anni ‘30, o per appoggiare Roosevelt negli Stati Uniti.

(Traduzione dall’originale in spagnolo di Valerio Torre)

La proposta di Lula: «Il G20 prenda il posto di Fmi e Banca mondiale»

Riunione dei ministri economici a San Paolo. Il Brasile: una Bretton Woods 2
La proposta di Lula: «Il G20 prenda il posto di Fmi e Banca mondiale»

Angela Nocioni
Rio de Janeiro
Da una parte i ministri che aspettano lumi dal Fondo monetario internazionale, dall'altra quelli dei Paesi che continuiamo a chiamare emergenti anche se sono emersi da un pezzo: Russia, Cina, Brasile, India.
Questi ultimi l'hanno chiesto chiaramente: riforma immediata degli organismi internazionali del credito, Fmi e Banca mondiale vanno ridisegnati in compiti e funzioni. Non hanno ricevuto risposte positive, tutti gli altri Paesi presenti alla riunione del G20 a San Paolo in vista del vertice di sabato a Washington sulla crisi economica mondiale hanno risposto che no, nell'emergenza bisogna aspettare e usare quel che c'è senza affrettarsi a ridisegnare tutto.
Il presidente brasiliano Lula da Silva, presidente pro tempore del G20, ha chiesto esplicitamente nel discorso d'apertura «una nuova architettura finanziaria mondiale» e ha proposto che il G20 - in alternativa al G7, club delle principali economie del pianeta - diventi la nuova struttura del potere economico globale.
Gli ha risposto il ministro canadese delle finanze, Jim Flaerthy: «Non è questo il momento di pianificare nuovi schemi finanziari mondiali, né nuove organizzazioni di alcun genere». «Ora - ha concluso con enfasi il ministro - c'è da spegnere l'incendio».
Anche il direttore del Fondo monetario internazionale, Strauss-Kahn, da giorni rilascia interviste per dire che non c'è da chiedere decisioni epocali all'incontro convocato per sabato da George W. Bush. «Non aspettatevi cambiamenti radicali, solo aggiustamenti pragmatici nell'emergenza» ha ripetuto anche ieri.
Nelle riunioni preliminari al G20 di San Paolo i ministri economici di Brasile, India, Cina e Russia avevano sollecitato invece un intervento drastico. Guido Mantega, il ministro brasiliano, aveva chiesto addirittura un «Bretton Woods 2», un nuovo anno zero dell'architettura finanziaria globale, come quello che prima della fine della seconda guerra mondiale disegnò le strutture finanziarie che governano il pianeta da allora, ma nessuno gli dà retta.
Mantega ha rassicurato sulle prospettive di tenuta del gigante economico brasiliano, la potenza continentale latinoamericana. «Quando sarà necessario interverremo per assicurare equilibrio - ha detto - sempre preservando l'equilibrio fiscale, bisogna riattivare i canali di credito e aumentare la liquidità, per questo la nostra politica di tassi è flessibile». Ha poi raccomandato che i Paesi più ricchi collaborino ad impedire la fuga di capitali dai Paesi con strutture bancarie più deboli.
Lula ha rincarato la dose. Alla riunione di San Paolo ha iniziato il suo discorso così: «L'economia mondiale attraversa il momento più grave da decenni. Le misure che abbiamo preso finora ci hanno salvato dal peggio, ma rimangono i rischi e crescono le incertezze sulla tenuta dei Paesi meno forti. Chissà quanto reggeranno ancora il commercio e la finanza globale. E' evidente il disordine che regna nella finanza internazionale. Questo disordine minaccia l'economia reale. Non possiamo continuare a ignorare che tutto questo non si risolverà finché non ci decideremo a una governabilità più partecipativa». Sapendo di poter contare sull'effetto Obama, almeno per adesso, ha concluso: «Già sappiamo cosa successe nel 1929, quegli avvenimenti dovrebbero averci insegnato che le misure unilaterali solo rimandano il problema, non lo risolvono e fanno crescere la sfiducia». E ha dettato la linea secondo i desideri brasiliani: «Il sistema finanziario globale dovrebbe essere orientato da due principi: rappresentatività e legittimità delle istituzioni multilaterali». I Paesi del G7, mugugnano dietro le quinte gli addetti ai lavori di Brasile e Argentina, fanno orecchie da mercante perché preferiscono dare più strumenti al Fondo monetario internazionale per tamponare gli effetti della crisi nel malconcio sistema creditizio dei Paesi dell'est Europa entrati nell'Unione europea.
Lula non l'ha detto, ma la sua posizione era talmente chiara da essere suonata come sfida alle vecchie potenze industriali. «I Paesi sviluppati non devono scaricare la crisi sui Paesi che sono ancora ad una fase precedente della crescita - ha concluso il presidente brasiliano - non c'è uscita solitaria da quest'emergenza, la situazione è così grave che o la si risolve tutti insieme o non la si risolve». Più chiaro di così era difficile.

Liberazione 11/11/2008

Le borse applaudono il maxipiano cinese

Timori negli Usa per General Motors. Obama chiamato a una svolta
Le borse applaudono il maxipiano cinese

Salvatore Cannavò
Forse Obama si interesserà più da vicino all'esempio cinese per provare a tirare fuori il capitalismo statunitense dalla crisi attuale. Brilla, infatti, la differenza tra il piano straordinario "anticrisi" messo a punto dal governo di Pechino, che ha stanziato 4mila miliardi di yuan, pari a 586 miliardi di dollari per rilanciare l'economia reale, e il piano da 700 miliardi di dollari che l'amministrazione Bush ha messo in campo sostanzialmente per salvare la finanza. A cogliere la differenza, ad esempio, sono state le borse mondiali a partire da quella di Tokyo in rialzo di oltre il 5%, che ha trainato quelle occidentali (in apertura Wall Street saliva dell'1,86%), Milano compresa. Segno di una certa fiducia che l'economia cinese possa reggere all'urto della crisi e limitare i danni di una discesa del Pil interno che, visto il grado di investimento internazionale, può dare respiro a molte multinazionali estere.
Le misure adottate dal governo cinese, e rese note domenica, si basano su un pacchetto di investimenti destinati a dieci programmi che riguardano, tra l'altro, le politiche per la casa per i meno abbienti, le infrastrutture rurali, le reti di trasporti, l'ecologia, le innovazioni tecnologiche e le ricostruzioni a seguito di disastri naturali. E' previsto anche l'aumento dei prestiti per le piccole e medie imprese.
La cifra, che corrisponde a circa un quinto del Pil cinese sarà stanziata entro il 2010. Dei 4mila miliardi di yuan, 100 milioni dovrebbero essere utilizzati già in questo trimestre. La decisione era già stata anticipata nei giorni scorsi e segue lo stanziamento da 225 miliardi di euro circa per il rilancio della rete ferroviaria, deliberato alla fine di ottobre.
Lo scopo dichiarato delle misure è quello di stimolare la domanda interna, dopo il rallentamento dell'economia nel terzo trimestre quando il Pil è cresciuto del 9%, contro il 10,4% del trimestre precedente. Ma soprattutto in previsione delle stime future, tutte negative: molti economisti, infatti, ritengono plausibile un crollo della produzione interna dal +12% del 2007 a un più modeso +6% nel 2009 se non verranno prese misure adeguate. Che sembrano essere arrivate.
La mossa cinese fa da contraltare alle modalità scelte dagli Stati Uniti, e segnatamente dall'amministrazione Bush sia pure con il via libera dell'allora candidato Obama, per fronteggiare la crisi. Un pacchetto di 700 miliardi di dollari utilizzati finora per sanare i bilanci delle banche in rosso e delle assicurazioni a cui si aggiungono altri provvedimenti parziali che complessivamente potrebbero costare corca 2000 miliardi di dollari. Una cifra che sta contribuendo a portare il debito pubblico Usa a circa il 90% del Pil e il rapporto tra deficit e Pil intorno al 10%. Insomma un disastro per le casse pubbliche che Obama sta vagliando da vicino con i suoi collaboratori e con il suo staff economico. Qui sta il punto forse più nevralgico che riguarda le prossime azioni del neo-presidente Usa: seguirà la linea tracciata da Bush o apporterà modifiche sostanziali? E in che direzione? Da Detroit, sede dell'industria automobilistica,arrivano grida disperate per aumentare gli aiuti a colossi come General Motors e Ford che minacciano licenziamenti massicci. Non a caso, in una lettera rivolta al Segretario al Tesoro, Paulson, il capogruppo democratico al Senato, Harri Reid e la speaker del Congresso, Nancy Pelosi, hanno chiesto di dirottare una parte dei fondi del "piano Paulson" proprio all'industria automobilistica, «il cuore del nostro settore manifatturiero in cui decine di migliaia di posti di lavoro sono a rischio». Espressione non tanto propagandistica se si guardano i dati diffusi dal Center of Automotive Research e resi noti dalla Camera di Commercio Usa: calcolando un taglio della produzione automobilistica del 50% - calcolo non impossibile visto che General Motors ha perso nel terzo trimestre 2,5 miliardi e 70 miliardi negli ultimi quattro anni - si perderebbero nel 2009 circa 2,5 milioni di posti di lavoro, calcolando anche l'indotto. Se pensiamo che il tasso di disoccupazione Usa già oggi sta schizzando verso l'8%, il punto più alto dal 1980 - e negli Usa il calcolo della disoccupazione è molto disinvolto, quindi il tasso effettivo è più alto - è facile immaginarsi quali conseguenze sociali potrebbe comportare un crollo dell'industria manifatturiera nel suo complesso.
Obama sta cercando di capire come utilizzare la fase di transizione - il suo insediamento è previsto il 20 gennaio 2009 - per varare provvedimenti urgenti e anche per questo sta cercando di capire quali margini offra la Costituzione americana per programmare interventi preventivi. Sta di fatto che i segnali che giungono dall'attuale Amministrazione sono divergenti dalle preoccupazioni dei Democratici. Se la portavoce del Tesoro, Zuccarelli, ha risposto alla lettera di Pelosi e Reid dicendo che la priorità è oggi «dare stabilità al sistema finanziario», ieri il governo ha stanziato altri 40 miliardi di dollari per il colosso assicurativo Aig che nel terzo trimestre si è ritrovata con un buco di bilancio di oltre 24 miliardi. Con questo stanziamento sono oltre 160 i miliardi che finora sono stati impiegati per una singola compagnia. L'intervento più rilevante nella storia degli Usa.

Liberazione 11/11/2008

sabato 1 novembre 2008

Il Fondo monetario salva le “periferie” con la solita strategia

Dopo l’aiuto all’Ungheria tocca al Pakistan

Salvatore Cannavò
In tempi di crisi si utilizzano tutti gli strumenti possibili per arginare cadute e disastri. Non deve stupire quindi che per cercare di tamponare le falle che si sono aperte alla "periferia" del sistema si sia ricorso in queste settimane al Fondo Monetario Internazionale che invece nel complesso della crisi ha avuto un ruolo secondario. I dati parlano di un prestito, varato ieri, di 25 miliardi di dollari all'Ungheria che stava rischiando il default. Pacchetto arrivato dopo il prestito di 2,1 miliardi concesso all'Islanda, i 16 miliardi all'Ucraina e che potrebbe fare da apripista all'intervento di salvataggio nei confronti di Pakistan e Bielorussia. Sembra un intervento periferico, appunto, ma che ha diverse conseguenze e significati politici: sia per quanto attiene al ruolo del Fmi che per la portata "geopolitica" delle varie operazioni.
Il Fondo, come dicevamo, è rimasto finora a guardare la crisi limitandosi a commentarla e a stilare le previsioni macroeconomiche. Del resto la quantità di risorse necessarie è così rilevante che le casse del Fmi possono fare ben poco. Ma c'è una ragione più strutturale. Il Fmi paga ancora gli effetti delle sue inefficienze relative alla crisi asiatica del '97 e a quella argentina del 2001-2002 per le quali è finito sotto accusa non certo in quanto cattivo consigliere ma per non aver saputo dare l'allarme per tempo. Inoltre, la fase unilateralista intrapresa dall'Amministrazione Bush dal 2001 in poi ha messo in ombra tutti gli organismi multilaterali scaturiti dagli accordi di Bretton Woods, come il Fmi e la Banca Mondiale - e che, tra l'altro, hanno anche subito la contestazione del movimento antiglobalizzazione negli ultimi dieci anni.
Oggi si assiste a un timido ritorno. Si tratta di interventi marginali, dell'ordine delle decine di miliardi di dollari. Ma sono comunque interventi rilevanti sul piano politico e molto sostenuti da quei paesi che hanno degli interessi da proteggere.
E' stata l'Unione europea a domandare di assistere l'Ungheria la cui crisi avrebbe potuto innescare un effetto a catena tale da depotenziare un'area strutturalmente vitale per l'export dell'Europa occidentale e soprattutto per la sua politica di delocalizzazione. Ancora più evidente l'importanza dell'intervento in Pakistan, che dovrà essere varato ne prossimi giorni e per il quale si sta spendendo non poco il governo tedesco. Nel caso dell'unica potenza atomica del mondo islamico è chiaro quali possano essere le preoccupazioni occidentali, a partire dagli Stati Uniti: un'instabilità improvvisa a Islamabad potrebbe avere effetti incalcobabili.
Insomma, il buon vecchio Fondo monetario può tornare utile a tamponare falle e a recuperare il controllo geopolitico. Sapendo che nell'Istituto diretto dal francese (e socialista...) Strauss-Kahn la ricetta è sempre la stessa. In cambio dei prestiti che probabilmente saranno aspirati dalle borse nel giro di una settimana, il Fmi chiede interventi strutturali sulla spesa pubblica e il ripristino di clausole sociali dure e dolorose.
Solo se i paesi dimostreranno di poter varare piani finanziari "virtuosi" potranno essere beneficiari dei pacchetti di salvataggio. Cosa significhi ciò per un paese come il Pakistan con un'inflazione al 25% e in cui un quarto della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà è facile immaginare. Ma i prestiti dovranno essere rimborsati e quindi non va esclusa la possibilità che tramite il Fondo si reinneschi quella politica del "debito" che permise agli inizi degli anni 80 di recuperare margini di profitti grazie allo sfruttamento del debito estero dei paesi terzi. Ovviamente, le risorse non sono ingenti e quindi gli interventi limitati e mirati. E, curiosamente ma non casualmente, riguardano paesi le cui difficoltà hanno molto a che vedere con il dollaro. Il biglietto verde dall'inizio della crisi, infatti, si è progressivamente rafforzato in quanto gli Stati Uniti sono tornati a essere il paese rifugio di capitali spaventati dalle dimensioni e dalle implicazioni della crisi.
Questo "ritorno a casa" ha messo nei guai le riserve valutarie di moltissimi paesi che hanno visto la loro moneta crollare- è il caso di tutti quelli citati sopra e interessati dagli "aiuti" del Fmi - le loro importazioni aumentare di costo e quindi la loro bilancia dei pagamenti entrare in territorio minato. Questa dinamica va tenuta d'occhio perché indica come non scontata l'apertura di una fase di declino degli Stati Uniti i quali se certamente dovranno dividere il potere mondiale con altri paesi, restano però lo Stato con la più grande Banca centrale del mondo, con le riserve maggiori e con la valuta che fa ancora da riserva mondiale.
Una piccola dimostrazione di questa centralità arriva dalle fortissime oscillazioni che si sono verificate ieri in attesa della riduzione dei tassi (all'1%) annunciata dalla Fed. La prospettiva di una diminuzine del costo del denaro rianima chi vuole fare shopping in borsa a prezzi contenuti anche se l'intera dinamica andrà verificata alla luce dei dati sul prodotto interno lordo del terzo trimestre che saranno resi noti oggi. Lì si saprà se è cominciata la recessione e quanto è grande.

Liberazione 30/10/2008

Dalla Finanziaria soldi per le banche

Italia a rischio recessione, tutti gli errori di Tremonti
Dalla Finanziaria soldi per le banche e non per difenderci dalla crisi

Salvatore Cannavò
Inutile sperare che le nuvole si rischiarino, inutile ascoltare gli appelli di chi, quotidianamente, dice che il peggio è passato. Il peggio deve ancora venire, perché, a differenza di Detroit o di alcuni distretti industriali degli Stati Uniti, qui da noi i "veri" licenziamenti non sono ancora cominciati e la recessione non si è ancora fatta sentire sulla carne viva delle persone. E' di recessione, infatti, che stiamo parlando anche se ancora non immaginiamo concretamente cosa questo voglia dire. Una prima idea l'ha data il segretario della Cgil, Epifani, quando, domenica, ha avvertito sulla Cassa integrazione straordinaria: «Di questo passo - ha detto - fra due mesi saranno finiti i fondi». Segno che quei fondi da qualche parte andranno trovati ma segno anche che la perdita di posti di lavoro si annuncia pesante. Dicevamo di Detroit. L'altro ieri la Chrysler ha annunciato il taglio di 5000 posti di lavoro tra i suoi impiegati, cioè il 25% dei colletti bianchi in forza all'impresa. Ma le cose non vanno meglio per General Motors che si avvia a fermare la produzione di Opel in Europa o per Renault che annuncia 4000 "esuberi" in Francia e 2000 in Europa o per Peugeot che deve tagliare la produzione. E per la prima volta negli ultimi sette anni, un calo delle vendite su base trimestrale ha colpito anche la Toyota che, nel periodo luglio-settembre, ha visto scendere le vendite del gruppo del 4% su base annua. Ma nemmeno per Fiat che sta già utilizzando la cassa integrazione mentre le previsioni per il 2008 parlano di un utile operativo intorno ai 3,4 miliardi di euro (quanti ne verranno utilizzati per tamponare la crisi tra i lavoratori?).
La recessione è globale e lo si deduce da un indice poco noto e poco utilizzato ma molto osservato dagli operatori industriali, il Baltic Dry Index (Bdi) cioè l'indicatore della costruzione di navi da trasporto a livello mondiale. Dopo aver raggiunto il suo record storico a maggio il Bdi è sceso dell'86%! Praticamente non si costruiscono più navi-merci a significare le reali previsioni che vengono fatte dall'industria manifatturiera mondiale.
Che la situazione sia nera, del resto, lo conferma l'inarrestabile caduta delle borse mondiali. Come al solito a fare effetto sono i titoli dei bancari - anche per le conseguenze che potrebbero generare sui risparmi di milioni di lavoratori - ma anche i titoli industriali non scherzano. La bolla finanziaria è esplosa e ora si sta sgonfiando progressivamente "bruciando" migliaia di miliardi di euro (o dollari) e facendo retrocedere l'economia "reale". Che si trova a corto di domanda - trainata, soprattutto nel mondo anglosassone proprio dal rigonfiamento innaturale del debito e della finanza - a corto di credito - perché le banche sono bloccate dai propri stessi bilanci - e a corto di liquidità. La riprova della crisi è data dalla speranza che il capitalismo occidentale sia supportato dai Fondi sovrani, cioè quei fondi di proprietà degli Stati che beneficiano della rendita energetica (Libia, Arabia Saudita, Dubai) o del surplus commerciale (la stessa Cina). Ieri è stata addirittura la presidente di Confindustria a fare appello al loro intervento. «I fondi sovrani rappresentano un'opportunità che va colta e portata avanti», ha spiegato al Forum Internazionalizzazione 2008, promosso da Abi e Confindustria. «In una logica di governance e di regole che vanno definite - sostiene Marcegaglia - dobbiamo considerare i fondi sovrani un'opportunità da cogliere per riattivare l'economia in rallentamento». Quando si è con l'acqua alla gola tutto va bene pur di superare ‘a nuttata e dopo aver considerato l'intervento dello Stato "un male necessario" ora gli industriali mostrano di apprezzare anche i capitali libici o arabi purché permettano loro di galleggiare nel mare disastrato della crisi globale.
Solo che ai banchieri e agli industriali pensano un po' tutti i governi. Il cosiddetto neo-interventismo statale altro non è che un modo pragmatico di salvaguardare profitti e accumulazione del capitale. Ma di misure per il lavoro finora non si vede traccia. I rinnovi contrattuali promessi dal ministro Brunetta sono un pannicello caldo che solo l'ansia di farsi riconoscere dalla controparte che anima Cisl e Uil (senza dimenticare una parte significativa della Cgil) può contrabbandare per un successo. Quanto a misure sociali, nella gigantesca torta finora messa a disposizione dei mercati non si intravede nemmeno uno spicchio.
Quello che non si è ancora messo in evidenza - lo ha fatto finora solo Scalfari in un suo domenicale su Repubblica - è che la famosa Finanziaria dei 9 minuti di Tremonti e Berlusconi è un macigno micidiale sopra la crisi. Lì si sono immaginati tagli traversali e indiscriminati che non possono non incidere pesantemente sulla recessione. L'allarme, in verità, lo ha appena lanciato il Sole24Ore (non a caso) che ha dato molto risalto alla fotografia scattata il 30 settembre dalla Ragioneria generale dello Stato e rielaborata dall'Ufficio Studi della Camera. Da lì emerge, ad esempio, che al Ministero dello Sviluppo economico si tagliano circa 3 miliardi di euro e stiamo parlando del ministero che dovrebbe presidiare l'economia reale. Ma lo stesso pesano i tagli all'Ambiente - ormai indicato, su scala mondiale, come un possibile settore di uscita dalla crisi - o quelli al ministero del Lavoro - quindi agli ammortizzatori sociali - o, come segnala il movimento studentesco, all'Istruzione. In realtà, il "genio" di Tremonti ha sbagliato le previsioni. Lo diciamo facendo nostro il suo punto di vista: se davvero il ministro dell'Economia aveva compreso la portata della crisi in arrivo, non doveva realizzare una manovra così restrittiva tanto più che gli accordi europei permettono di sforare parzialmente i parametri di Maastricht. Oggi l'Italia sarà costretta comunque a incrementare la propria spesa complessiva ma solo per comprare azioni di banche in crisi e non invece per iniettare liquidità direttamente nel sistema attraverso un aumento o un sostegno ai salari e ai redditi più colpiti dalla recessione. Ammesso che serva a impedire la recessione. Ma questo è un altro discorso.

Liberazione 28/10/2008