mercoledì 31 dicembre 2008

Obama's Gaza silence condemned

Despite growing pressure on Barack Obama to speak out on the crisis in Gaza, the US president-elect has remained silent on the issue.

Obama, holidaying in Hawaii, has made no public remarks on Israel's unrelenting military assault on the Palestinian territory, which has left more than 380 people there dead.

The former Illinois senator spoke out after last month's attacks in Mumbai and has made detailed statements on the US economic crisis.

But some fear that the US president-elect's reluctance to speak out on the Gaza raids could be sending its own message.

"Silence sounds like complicity," Mark Perry, the Washington Director of the Conflicts Forum group, told Al Jazeera.

"Obama has said that Israel has the right to defend itself from rocket attacks but my question to him is 'does he believe that Palestinians also have the right of self-defence?'"

Support for Israel

Israel says the operation is necessary to prevent Palestinian rocket attacks on the south of the country.

And Obama repeatedly spoke out in support for Israel during his election campaign, describing the country as one of the US' greatest allies and has vowed to ensure its security.

He caused anger in the Arab world when he told a pro-Israel lobby group in June that Jerusalem should remain the undivided capital of Israel.

He also visited Sderot, the Israeli town close to Gaza regularly targeted by Palestinian rocket fire, in July, to show his support for residents.

Ehud Barak, the Israeli defence minister, has cited comments Obama made during that visit in his own justification for launching the assault.

"Obama said that if rockets were being fired at his home while his two daughters were sleeping, he would do everything he could to prevent it," Barak was reported as saying on Monday.

Obama's aides have repeatedly said he is monitoring the situation and continues to receive intelligence briefings but that he is not yet US president.

But George Bush, the current US leader, has also remained silent on Israel's attacks although the White House has offered its support to Israel.

Arabs pessimistic

Many Arabs were cautiously optimistic about Obama's election victory in November, in the belief that a fresh face in the White House would be better than Bush, who invaded Iraq and gave strong support to Israel.

But his choice of a foreign policy team, especially Hillary Clinton as US secretary of state and Rahm Emanuel as his White House chief-of-staff, have raised doubts that much will change.

But some see his see his silence as symptomatic of caution over his own position and the power of the Israel lobby.

"He wants to be cautious and I think he will remain cautious because the Arab-Israeli conflict is not one of his priorities," Hassan Nafaa, an Egyptian political scientist and secretary-general of the Arab Thought Forum in Amman, told Reuters.

"Obama's position is very precarious. The Jewish lobby warned against his election, so he has chosen to remain silent (on Gaza)," added Hilal Khashan, a professor of political science at the American University of Beirut.

Protests demand change

However many in the US have called on Obama to speak out personally on events in Gaza.

Protesters gathered at Obama's transition office in Washington DC on Monday, and outside his holiday residence in Hawaii on Tuesday, to demand he do more.

"The Obama administration is working hand in glove with the Bush administration and...there is no reason that they can't work together to get something done," Mike Reitz, a federal government worker, told Al Jazeera at the transition office protest.

At another protest against Israel's actions in Gaza outside the White House on Tuesday, some were sceptical about Barack Obama's commitment to Middle East peace-making.

"Is this the change that you were talking about?," said Reza Aboosaiedi, a computer specialist from Iran.

"If this is the change, you have a very, very deep problem, because if you add them up with the other economic problems and other problems in America, having this kind of problem in the Middle East, I don't think he can manage it."

But others at the protest still saw some hope that the former Illinois senator could make a difference.

"I would like to think that he would be more active than Bush in trying to push an agenda to bring Israel and Palestine together to have peace talks, but I don't know," said Bob Malone, a lawyer.

"But I'm an optimist, so I hope so."

http://english.aljazeera.net/news/americas/2008/12/2008123101532604810.html

mercoledì 24 dicembre 2008

La loro democrazia uccide

Il documento del Politecnico occupato il 6 dicembre subito dopo l’assassinio di Alexis

Sabato 6 dicembre 2008, il compagno Alexandros Grigoropoulos viene assassinato a freddo, colpito da un proiettile nel petto proveniente dall'arma di una guardia speciale, Epaminonda Karconea.
Contrariamente alle dichiarazioni dei politici e dei giornalisti, suoi complici nell'assassinio, non si tratta di un "caso isolato", ma della massima espressione della repressione statale che in modo sistematico e organizzato ha preso di mira chi resiste, chi insorge, gli anarchici-libertari.
E' il culmine del terrorismo statale che si manifesta attraverso una evoluzione del ruolo giocato dai meccanismi repressivi, il loro continuo attrezzarsi e l'aumento della percentuale di violenza, conseguenza del dogma della "tolleranza zero" e della criminalizzazione - diffamazione nei confronti di chi lotta.
Questa situazione prepara il terreno per l'intensificazione della repressione, tentando di ottenere il consenso sociale e armando le mani degli assassini in divisa che ora hanno sulla loro linea di mira chi lotta, i giovani, i "diavoli" che si rivoltano in tutto lo Stato greco.
La violenza assassina nei confronti di chi lotta ha come obiettivo quello di intimidire, terrorizzare e spingere così verso la subordinazione sociale. È il culmine dell'offensiva generalizzata dello Stato e dei padroni nei confronti di tutta la società e impone condizioni di sfruttamento e di sottomissione sempre più dure. Si tratta di un attacco che quotidianamente si ripercuote sulla povertà, produce l'isolamento sociale, spinge verso l'adattamento nel mondo delle differenziazioni sociali e di classe, conduce la guerra ideologica e l'inganno attraverso i meccanismi direzionali dominanti (i Mass media).
Un attacco che colpisce ogni ambito sociale e pretende da ogni sfruttato la divisione e il silenzio. Dalle gabbie scolastiche e universitarie fino agli inferni dello schiavismo salariale,caratterizzati da centinaia di morti, definite "morti sul lavoro", e le condizioni di sopportazione per la grande maggioranza della popolazione, dalle frontiere blindate, i bliz e gli assassini degli immigrati, i "suicidi" dei detenuti nei centri detentivi fino ai "colpi accidentali" nei posti di blocco, la democrazia mostra i suoi denti.
In queste condizioni di sfruttamento e repressione crudele, di fronte all'oppressione e l'esproprio quotidiano che lo Stato e i padroni attuano succhiando la forza operaia, la vita, la dignità e la libertà degli oppressi, l'asfissia sociale accumulata accompagna oggi la rabbia che si sfoga nelle strade e le barricate per l'uccisione di Alexandros.
Dal primo momento in cui si è diffusa la notizia dell'assassinio, cortei spontanei e scontri si verificano nel centro di Atene, viene occupato il Politecnico, la facoltà di Economia (Asoee) e la facoltà di Giurisprudenza, mentre in varie zone della città vengono effettuati attacchi ad obbiettivi statatali repressivi. Cortei e presidi in città come Patrasso, Volos, Hania, Iraklio, Giannena, Komotini, Ksanthi, Serres, Sparti, Alexandroupoli, Mitilini. In Via Patision, ad Atene, gli scontri durano per tutta la notte. Fuori dal Politecnico i cellerini fanno uso di proiettili di plastica.
Domenica 7 dicembre migliaia di persone manifestano verso la centrale di polizia (Gada) attaccando le forze dell'ordine, successivamente seguono scontri di straordinaria intensità per le strade del centro che durano fino a tarda notte. Durante tali eventi molti manifestanti vengono feriti e alcuni arrestati.
Da lunedì mattina 8 dicembre fino ad ora la rivolta si espande. Gli ultimi giorni sono caratterizzati da infiniti eventi sociali: mobilitazioni combattenti studentesche con cortei - a volte sfociate in assalti - nelle stazioni di polizia, ma anche scontri con le guardie, sia nei quartieri della capitale che in tutto il paese, manifestazioni di massa e scontri dei manifestanti con la polizia al centro di Atene durante le quali vengono attaccate banche, grandi magazzini e ministeri, accerchiamenti del parlamento, occupazioni di edifici pubblici, cortei combattenti e assalti ad obiettivi statali- capitalistici in molte città.
L'aggressione ai giovani e in generale a chi lotta, gli arresti, le botte e in alcune situazioni le minacce con armi oppure la collaborazione della polizia con bastardi parastatali - come nel caso di Patrasso in cui le guardie accompagnate dai fascisti hanno attaccato i rivoltosi della città - è la modalità con la quale i cani statali in divisa mettono in atto il dogma della tolleranza zero sotto gli ordini dei padroni politici, per affrontare l'onda rivoltosa lanciata la sera di sabato scorso. Il terrorismo dell'esercito poliziesco viene completato dal modo in cui viene affrontata la questione degli arrestati attraverso dure accuse e detenzioni in attesa di giudizio. A Larissa 8 arrestati verranno giudicati con la legge sull'antiterrorismo e sono in attesa di giudizio accusati per appartenenza ad associazione sovversiva. Le stesse accuse valgono per 25 immigrati arrestati ad Atene. Inoltre, sempre ad Atene, 5 persone fermate sono state chiuse in carcere per gli eventi di lunedi 7, mentre altre 5 persone fermate la notte di mercoledì sono in stato di arresto con accuse penali e lunedì 15 verranno processate.
Allo stesso tempo si diffonde una guerra ingannevole di propaganda criminalizzante nei confronti di chi insorge che spiana la strada alla repressione, la quale ha come scopo unico il ritorno alla normalità dell'ingiustizia sociale e della subordinazione.
Gli eventi che seguirono l'assassinio, hanno scatenato mobilitazioni internazionali in memoria di Alexandros e in solidarietà con i rivoltosi che lottano per le strade, ispirando il contrattacco alla democrazia nel suo insieme. Si sono svolti presidi, cortei, attacchi simbolici ai consolati greci nelle città di Cipro, della Germania, in Spagna, in Danimarca, in Olanda, in Gran Bretagna, in Irlanda, in Svizzera, Australia, Slovacchia, Russia, Bulgaria, Belgio, Italia, Francia, Polonia, Stati uniti, Croazia, Turchia, Argentina,Cile e in altre parti ancora.
Continuamo l'occupazione del Politecnico che è iniziata sabato 6 creando uno spazio per chi lotta e un luogo permanente di resistenza all'interno della città.
Nelle barricate, nelle occupazioni delle facoltà, nei cortei e nelle assemblee teniamo vivo il ricordo di Alexandros, ma anche quello di Mixalis Kaltezas, di Carlo Giuliani, di Mixalis Prekas, di Xristoforos Marinos e di tutti i compagni assassinati dallo Stato. Non dimentichiamo la guerra all'interno della quale i nostri compagni sono caduti dal fuoco della repressione e teniamo aperto il campo del rifiuto collettivo al vecchio mondo del Potere. Le nostre motivazioni sono cellule vive del non conforme, del mondo libero che noi sogniamo senza padroni e schiavi, senza guardie, eserciti, carceri e confini.
I proiettili degli assassini in divisa, le botte e gli arresti dei manifestanti, la guerra chimica con i lacrimogeni, l'attacco ideologico della Democrazia, non solo non riusciranno ad imporre il terrore e il silenzio, ma diventano le cause per cui s'innalzano le grida della lotta per la libertà di fronte al terrorismo repressivo, sono le cause per cui viene abbandonata la paura di incontrarci - sempre in più persone, giovani, studenti medi ed universitari, immigrati, dissocupati e lavoratori - per le strade della rivolta. Affinché trabocchi la rabbia che li seppellirà.
Lo Stato, i padroni e i loro lecchini
ci prendono in giro, ci rubano, ci uccidono!
Organizziamoci per contrattaccare e spezzarli!
Queste notti sono di Alex!
Tutti e tutte al tribunale lunedì 15 dicembre alle 9.
Immediato rilascio degli arrestati
Mandiamo la nostra solidarietà a tutti-e che occupano facoltà, scuole, manifestano e si scontrano con gli assassini di Stato in tutto il paese.
Mandiamo la nostra solidarietà ai compagni che all'estero si stanno mobilitando riportando la nostra voce ovunque! Siamo insieme nella grande lotta mondiale per la liberazione sociale .
Assemblea dell'occupazione ogni giorno alle 20 al Politecnico.


Liberazione (Queer) 21/12/2008, pag 3

venerdì 19 dicembre 2008

TORNANO LE TIGRI ASIATICHE MA QUESTA VOLTA CAVALCANO L’ASSE DELL’ANTICRISI

di Carlo Benedetti

L’Asia torna alla grande sulla scena mondiale avviando una delle trasformazioni strutturali più significative del sistema internazionale moderno dell’era della rivoluzione industriale. Si muovono all’attacco tre paesi: Giappone con i suoi 127.435.000 abitanti; la Cina che ne conta 1.330.503.000 e la Corea del Sud che tocca i 44.044.790. E tre, di conseguenza, i leader in pista per contrastare la globalizzazione occidentale: il Primo ministro di Tokyo Taro Aso; il leader di Pechino Wen Jintao, primo ministro; i coreani Lee Myung-bak, capo di stato e il Capo di governo Han Seung-soo. Si annuncia - come ritengono molti esperti dell’economia asiatica - un processo geopolitico di trasformazione tecnica e scientifica che potrebbe produrre una frattura radicale nell’ordine mondiale rimettendo in questione gli equilibri internazionali contemporanei. E tutto questo anche in riferimento al fatto che l’Asia orientale, che include le regioni più popolate del mondo – i due terzi dell’umanità -, rappresenta un vasto insieme demografico, estremamente diversificato dal punto di vista economico, culturale e politico.

Si è, in pratica, ad un momento di svolta (a Mosca lo sottolinea il quotidiano economico “Kommersant” ) perché la dinamica di sviluppo e modernizzazione regionale ha fatto emergere in Asia orientale e meridionale, nell’arco di pochi decenni, economie industriali spesso altamente avanzate e tecnologicamente intensive, trasformando zone e paesi considerati marginali in attori chiave dell’economia mondiale, sul piano commerciale e finanziario.

Ed ecco che ora la crisi finanziaria ed economica globale spinge le tre potenze dell'Estremo Oriente[1] - Giappone, Cina e Corea del Sud - a organizzare il loro primo vertice trilaterale, autonomo e non agganciato, come in passato, alle riunioni dell'Asean, l'Associazione delle nazioni dell'Asia del sud-est. Si è quindi alla presenza di un radicale cambiamento di strategia. Perché a Fukuoka, nel Giappone meridionale del sud, il primo ministro nipponico, Taro Aso[2], il premier cinese, Wen Jintao, e il presidente sudcoreano, Lee Myung-bak, si incontrano nel pieno delle forti turbolenze internazionali - amplificate dalla recente bocciatura al Senato statunitense del piano di salvataggio del settore automobilistico - nel tentativo di trovare una risposta coordinata. Tutti e tre, quindi, impegnati nel voltare pagina convinti del fatto che nei grandi processi di crisi e di svolta a contare dovrebbero essere le “culture” economiche e non le ideologie.

Ed ecco, di conseguenza, che sono in molti a ritenere che si è alla soglia di un futuro asse privilegiato Tokyo-Pechino-Seul che, pur se denso di implicazioni, può essere sempre un’arma vincente nell’arena della concorrenza mondiale. E questo risulta anche dal comunicato emesso al termine del summit, dove Giappone, Cina e Corea del Sud concordano sul fatto di aver "avviato una nuova era nella partnership tripartita che produrrà pace e sviluppo sostenibile nella regione". Per questo svilupperanno ancora di più la cooperazione negli anni a venire.

I tre leader ritengono, infatti, che le rispettive economie siano dinamiche, resistenti e strettamente correlate tra loro. "Noi - si legge nella dichiarazione - rimarchiamo le responsabilità per la creazione di un futuro pacifico, prosperoso e sostenibile sia per la regione dell'Estremo Oriente, sia per la comunità internazionale". E in questo contesto Tokyo, Pechino e Seul si avventurano sul terreno della sfida globale nei confronti dei mercati finanziari ed economici. A tale proposito - si afferma nella dichiarazione - “siamo determinati a definire una solida cooperazione di carattere politico, economico, sociale e nei settori culturali sia all'interno dell'attività di governo sia al di fuori".

Nel corso del vertice di Fukuoka i “Tre” hanno poi parlato di quel terreno minato relativo all’opera di denuclearizzazione della penisola coreana (con l'esame sulla questione della Corea del Nord), dell'ambiente, del disarmo e della non proliferazione. E poi della riforma dell'Onu. Una nota positiva - che ha smorzato i toni duri assunti dal dibattito - è però venuta con l'annuncio che la Corea del Sud potrà fare affidamento su un forte ampliamento degli accordi di swap valutario (si tratta di operazioni di riporti in divisa con le quali una banca centrale vende una valuta a un altro istituto di emissione per riacquistarlo a termine ad un prezzo determinato, secondo un definito rapporto di cooperazione) e cioè accordi siglati con Cina e Giappone per stabilizzare il proprio sistema finanziario. Quello di Seul con Pechino, ad esempio, sarà portato a circa trenta miliardi di dollari, includendo anche i quattro miliardi di dollari dell'intesa in corso; l'altro raggiunto con il Giappone, invece, consente alla Corea del Sud di aumentare i fondi disponibili da tre a venti miliardi di dollari. E così sommando i trenta miliardi di dollari messi a disposizione dalla Federal Reserve a fine ottobre, Seul potrà tentare di uscire dalle secche che hanno strozzato il suo sistema finanziario, facendo precipitare la sua moneta ufficiale - il won - ai minimi verso il dollaro, anche se le stime di crescita del 2009 sono state tagliate dalla banca centrale a un misero due per cento, il livello più basso degli ultimi undici anni.

Gli altri Paesi, comunque, non se la passano meglio: il Giappone, con il crollo dell'export, è ufficialmente in recessione, mentre la Cina sarà costretta a fronteggiare pesanti squilibri interni e ad abbandonare il prossimo anno il tasso di crescita a due cifre. Negli Stati Uniti, intanto, dopo il mancato accordo al Senato sul piano di salvataggio dell'industria automobilistica, l'amministrazione Bush ha fatto sapere che prenderà in considerazione l'ipotesi di attingere ai fondi del "Tarp" (Troubled Assets Relief Program), il pacchetto di aiuti da 700 miliardi di dollari approvato dal Congresso in autunno contro la crisi finanziaria.

"In condizioni economiche normali - ha detto la portavoce della Casa Bianca, Dana Perino - preferiremmo che fossero i mercati a determinare le sorti delle aziende private, ma, in considerazione dell'attuale stato dell'economia americana, se necessario considereremo altre opzioni".

Intanto gli osservatori diplomatici fanno riferimento ad un altro “vertice” che si è svolto a Pechino dove si sono riuniti i rappresentanti di Cina, Stati Uniti, Russia, Giappone, Corea del Sud e Corea del Nord. Nel corso della riunione si è compreso chiaramente che gli Stati Uniti dovranno riformulare la loro strategia per indurre Pyongyang a smantellare le centrali nucleari in avanzata fase di costruzione. E tutto questo va messo in relazione al fatto che i segnali di sfida lanciati da Pyongyang a Seul e a Tokyo poco prima dell’apertura degli incontri non hanno lasciato spazio a previsioni positive.

La distensione economica è ancora lontana. Ma l’Asia dei “tre” - con Giappone, Cina e Corea del Sud - si appresta ad avere un ruolo sempre più importante in un’epoca tormentata da conflitti ed incertezze di natura, appunto, geoeconomica[3]. E in tal senso l’obiettivo annunciato al vertice di Fukuoka consiste nel dare il via ad una mutazione fondamentale che influenzi e stravolga la struttura del sistema internazionale. Come si vede le tigri asiatiche[4] stanno lasciando, a poco a poco, i recinti del loro zoo[5].


NOTE

[1] Nell’ultimo quarto di secolo, negli ultimi 25 anni, la quota dell’Asia orientale e meridionale nel Prodotto Interno Lordo (PIL) mondiale, a parità di potere d’acquisto, è quasi triplicata, passando dal 12% circa del PIL mondiale nel 1980 al 34% circa del PIL mondiale di oggi. Nello stesso arco di tempo, anche il PIL mondiale ha pressoché triplicato il suo valore (16.059 miliardi di dollari nel 1973, 33.725 miliardi nel 1998, 44.645 miliardi nel 2005). Supponendo che questa tendenza persista nel tempo (supponendo una crescita lineare) ed escludendo l’ipotesi di shock endogeni (crollo dello Stato cinese) o esogeni (una guerra generale, o una guerra regionale con effetti sufficientemente drammatici e catastrofici da rimettere in discussione queste dinamiche) dalle conseguenze sistemiche, l’Asia nel suo insieme potrebbe rappresentare il 40% del PIL mondiale nel 2020 e più del 50% del PIL mondiale nel 2050. Ed è sottinteso che anche la ricchezza globale sarà raddoppiata entro il 2050.

[2] Sulla scia del Giappone – precursore negli anni Sessanta e Settanta, unico paese non occidentale ad essersi appropriato della rivoluzione industriale già nel XIX secolo – i nuovi paesi industrializzati dell’Asia nord orientale (Corea del Sud e Taiwan) e i paesi emergenti del Sud Est asiatico (Singapore, Tailandia, Malesia, Indonesia, ecc.) sono riusciti ad uscire dal "terzo mondo" e, in meno di due generazioni, sono stati raggiunti o stanno per essere raggiunti, successivamente, dalla Cina e dall’India. La Cina e l’India – spazi continentali, immensi spazi demografici – conoscono a loro volta, rispettivamente dagli anni Ottanta e Novanta, una dinamica d’espansione e modernizzazione eccezionale per intensità e durata nel tempo.

[3] Tra gli effetti della mutazione asiatica sull’economia internazionale conviene citare la ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro; la nuova distribuzione territoriale globale dei fattori di produzione, delle manifatture e dei servizi; la deflazione mondiale dei prezzi dei prodotti manifatturieri (su una gamma sempre più vasta di prodotti, che si estende dal tessile agli elettrodomestici ed alla telefonia); la riorganizzazione e la ristrutturazione del capitalismo mondiale – la cosiddetta "globalizzazione". Inoltre, l’ascesa dell’Asia comporta la deindustrializzazione parziale o totale, in Occidente, di settori produttivi come il tessile; un impatto non trascurabile e spesso deleterio sugli equilibri tra capitale e lavoro, a detrimento del lavoro, nei paesi occidentali avanzati; un’alterazione globale dei prezzi delle materie prime, in particolare degli idrocarburi e soprattutto del petrolio; asimmetrie finanziarie internazionali sempre più marcate (il deficit americano, il surplus cinese).

[4] Se si decompone il quadro generale dell’insieme asiatico in termini di specificità nazionali, l’analisi fa emergere lo scenario seguente: il PIL attuale dei tre paesi altamente industrializzati e tecnologicamente intensivi dell’Asia nord orientale - Giappone, Taiwan, Corea del Sud – costituisce il 9,3% del PIL mondiale; quello dei paesi capitalisti del Sud Est asiatico il 3,5%; quello dell’India il 6% e quello della Cina il 14%. Ora, nel 2020 l’economia cinese potrebbe rappresentare circa un quarto del PIL mondiale e l’economia indiana potrebbe rappresentarne circa il 9%, mentre la quota del Giappone dovrebbe mantenersi attorno al 6%.

[5] In conclusione, la mutazione asiatica attualmente in corso nell’ambito della globalizzazione induce uno spostamento del centro, un processo di decentramento e ricentramento grazie al quale la Cina e l’Asia nel suo insieme stanno diventando un cuore del mondo. Benché queste dinamiche non siano destinate a produrre la scomparsa dell’Occidente – né degli Stati Uniti né dell’Europa -, il processo di decentramento e ricentramento in atto costituisce un fenomeno storico di prima importanza e di eccezionale ampiezza.

mercoledì 17 dicembre 2008

Nelle mani della malavita

di Vincenzo Mulè

su Left del 28/11/2008

È boom di bambini stranieri in Italia. L’ 83,6 per cento tra quelli giunti non accompagnati è senza permesso di soggiorno. Provengono da Albania, Marocco e Romania per finire nelle maglie delle organizzazioni criminali

«La sempre più marcata presenza straniera è la vera e più macroscopica dinamica di mutamento nello scenario, altrimenti piuttosto statico, della società italiana». Inizia così il dossier Accoglienza e integrazione dei minori stranieri curato dal Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. Nello studio viene sottolineato come siano proprio i minori la componente in più rapida crescita all’interno dell’incremento della popolazione straniera.

Nel nostro Paese la popolazione minorile è passata dalle 128mila unità del 2001 alle 765.481 conteggiate al gennaio del 2008. Secondo gli ultimi rilevamenti, è minorenne uno straniero ogni cinque soggetti che risultano regolarmente iscritti all’anagrafe. Accanto, però, a situazioni molto vicine alla normalità e all’ufficialità, si fa sempre più crescente il peso in questo quadro dei minori stranieri non accompagnati. Al 31 dicembre 2007 risultano segnalati in Italia 7.548 minori stranieri non accompagnati, tre quarti dei quali sprovvisti di un qualunque documento di riconoscimento. Nella sola Sicilia, in soli quattro mesi un terzo dei minori collocati in comunità è scappato. Di loro, ben presto si perdono le tracce. Secondo quanto reso noto dal Comitato per i minori stranieri, l’83,6 per cento dei minori stranieri non accompagnati che giungono in Italia sono senza permesso di soggiorno. Di questi, il 75 per cento provengono da Albania, Marocco e soprattutto Romania. Quest’ultimo Paese, tra l’altro, vive una situazione particolarmente delicata seguita alla chiusura di numerosi istituti e orfanotrofi in cui i ragazzi romeni privi di famiglia venivano accolti.

Le autorità rumene non erano pronte a questo provvedimento, non essendo state predisposte strutture di accoglienza alternative, lasciando questi ragazzi, la maggior parte dei quali provenienti da situazioni di degrado, soli e allo sbando. Molti di loro sono poi divenuti facile oggetto di sfruttamento e reclutamento da parte della malavita. Lo confermano i dati raccolti nei centri di prima accoglienza e negli istituti penali minorili, soprattutto del nord e centro Italia. Proprio con la Romania, che fa registrare tra l’altro il tasso di crescita più alto in fatto di ingressi, l’Italia ha firmato lo scorso giugno un accordo sulla cooperazione per la protezione dei minori romeni non accompagnati che si trovino sul territorio italiano. Un accordo che più di una volta ha fortemente vacillato sotto i colpi della realtà. Di Gratian Gruia, il bambino romeno rimpatriato lo scorso 27 ottobre per disposizione del Tribunale dei minori di Roma, abbiamo già raccontato.

I lettori più attenti ricorderanno la sua vicenda: abbandonato dalla madre e seviziato dal papà e dalla nonna che lo aveva costretto a mendicare per le strade di Roma e poi affidato subito a una casa famiglia. Nel corso del giudizio aperto su richiesta del pm per la declaratoria dello stato di abbandono, la Romania ha chiesto la sua riconsegna, ottenuta l’8 luglio 2008, quando il Tribunale dei Minori ha disposto la consegna del minore alle autorità rumene. La decisione del tribunale e le modalità del rientro - Gratian è stata affidato di nuovo alla nonna, nel frattempo tornata in Romania - hanno fatto alzare più di una voce di protesta, compresa quella del ministro degli Esteri Frattini. Tanto che la commissione per l’infanzia presieduta da Alessandra Mussolini ha fissato al prossimo 16 dicembre una missione in Romania, nel villaggio Sopotul Vechi nella regione del Caras Severin, dove si trova la casa famiglia che ospita il bambino.

Il caso Grutia è «irripetibile» secondo il prefetto Mario Ciclosi, direttore centrale immigrazione e asilo presso il ministero dell’Interno, il quale ha sottolineato come la vicenda del minore si sia svolta attraverso canali esterni all’organismo centrale di raccordo costituito da Italia e Romania per la regolamentazione dei rientri. «L’accordo dello scorso giugno è stato aggiornato a metà novembre - continua il prefetto - e ora è tutto più chiaro. Niente si svolgerà più fuori dalle procedure condivise. Stiamo lavorando duramente - ha concluso Ciclosi - ma sia chiaro che i prossimi saranno rientri strettamente monitorati, per almeno due anni». In questo contesto, emergerebbe un ulteriore elemento di potenziale attrito tra i due Paesi: la Romania, infatti, sarebbe intenzionata a chiedere il rimpatrio solo di bambini molto piccoli, ignorando quasi le altre fasce d’età. «Uno strano comportamento - sottolinea Elisabetta Zamparutti - se si considera la situazione dell’infanzia rumena».

In una lettera indirizzata ad Alessandra Mussolini, presidente della commissione per l’infanzia, la deputata radicale eletta nelle liste del Pd citando fonti non governative sottolinea come nel Paese vivano 72mila bambini abbandonati, la maggior parte dei quali malati di aids. «Dalle fonti ufficiali - continua Zamparutti - vi è il dato che vi sono state nell’anno in corso 2576 attestati di abilità all’adozione e 1294 poi adottati all’interno dello stesso Paese». In Romania, infatti, le adozioni e gli affidi internazionali sono bloccati dal 2001. Osservazioni rispedite al mittente da parte delle autorità rumene, che anzi denunciano la politica di assistenza dei minori stranieri non accompagnati da parte del nostro Paese. «Siamo in attesa di altri 3mila minori di ritorno dall’Italia», fanno sapere da Bucarest. Una cifra ritenuta eccessiva da più parti ma che, se confermata, svelerebbe un quadro molto più drammatico di quanto emerso finora.

I giganti asiatici si uniscono per rispondere alla crisi economica

di Martino Mazzonis

su Liberazione del 14/12/2008

Gli ex nemici Cina, Corea e Giappone: «Più scambi monetari e un piano di stimolo nei prossimi mesi»

Non hanno perso tempo gli asiatici. C'è la crisi e bisogna mettersi d'accordo. Anche tra nemici giurati per storia tradizione come Giappone, Corea del Sud e Cina. In un summit tripartito tenutosi ieri, i tre Paesi hanno «avviato una nuova era nella partnership tripartita che produrrà pace e sviluppo sostenibile nella regione». Per questo, i Paesi svilupperanno più «una cooperazione negli anni a venire, costruendola sui progressi da fare passo dopo passo». Nel primo summit a Fukuoka, in Giappone, il premier giapponese Taro Aso, quello cinese, Wen Jiabao, e il presidente sudcoreano Lee Myung-Bak, ritengono che le rispettive economie siano «dinamiche, resistenti e strettamente correlate tra di loro. Noi - si legge nella dichiarazione - rimarchiamo le visioni e le responsabilità per la creazione di un futuro pacifico, prosperoso e sostenibile sia per la regione dell'estremo Oriente sia della comunità internazionale». Assieme per ritagliarsi uno spazio internazionale. Anche questa è una novità interessante: i Paesi asiatici tendono ad avere un'agenda diplomatica ristretta e molto legata ai loro interessi. In vicende come quella del nucleare coreano hanno però giocato un ruolo cruciale. E sentono di avere diritto e dovere di cominciare a fare qualche passo in più nei luoghi che contano della diplomazia. Lo stesso G20 immediatamente convocato all'esplodere della crisi finanziaria è un segnale in questo senso.
I leader convengono sulla opportunità di cooperare sulla base dei principi «di apertura, trasparenza, reciproca fiducia e comune interesse e rispetto per le nostre diverse culture». Si tratta di parole molto importanti: nei mesi passati Cina e Giappone avevano litigato sulla storia e su qualche isoletta nel mare che divide i due Paesi; tensione c'era stata anche tra Seoul e Tokyo sempre per ragioni legate ai crimini di guerra commessi dai giapponesi durante i conflitti del primo 900. Quanto alle relazioni tra Cina e Corea, il riavvicinamento è un altro pezzo di storia del XX secolo che se ne va.
A Fukuoka si è discusso anche di come affrontare le sfide «nei mercati globali finanziari ed economici». A tale proposito, «siamo determinati a definire una solida cooperazione di carattere politico, economico, sociale».
I tre Paesi decidono di coordinare gli sforzi annunciando un pacchetto di stimolo regionale e prevedendo l'aumento degli scambi di valuta - che significa connettere di più i sistemi finanziari tra loro. Ne hanno bisogno. L'export e l'import cinese hanno conosciuto una flessione per la prima volta in sette anni e l'economia giapponese, che ha conosciuto una crisi feroce negli anni 90, non gira come dovrebbe.

sabato 6 dicembre 2008

La Cina e le guerre del Congo: AFRICOM, il nuovo Comando militare degli Stati Uniti

La Cina e le guerre del Congo: AFRICOM, il nuovo Comando militare degli Stati Uniti

Di F. William Engdahl. Da www.minumir.altervista.it, 30 novembre 2008

A poche settimane dalla costituzione formale, con la firma del Presidente George W. Bush, di un nuovo comando militare dedicato all'Africa, AFRICOM, gli sviluppi recentemente emersi nel continente ricco di risorse suggeriscono che il Presidente di origini keniote Obama dovrà impegnare le risorse statunitensi, militari e non, occupandosi della Repubblica del Congo, del Golfo di Guinea ricco di petrolio, del Darfur (anch'esso ricco di petrolio) nel Sudan meridionale e del crescente “pericolo pirati” che minaccia le rotte marittime nel Mar Rosso e nell'Oceano Indiano. È legittimo chiedersi se il fatto che l'Africa stia proprio ora diventando un nuovo “punto caldo” geopolitico sia una semplice coincidenza o se vi sia un collegamento diretto con l'ufficializzazione di AFRICOM.

Ciò che più colpisce è la tempistica. Mentre AFRICOM diventava operativo, nell'Oceano Indiano e nel Golfo di Aden si verificavano incidenti spettacolari provocati dalla cosiddetta pirateria somala, mentre nella provincia di Kivu, nella Repubblica del Congo, scoppiava un nuovo sanguinario conflitto. Ciò che accomuna questi fatti è la loro rilevanza, insieme al Darfur nel Sudan meridionale, per il futuro flusso di materie prime verso la Cina.

Il conflitto più recente nella parte orientale del Congo (DRC) è scoppiato alla fine di agosto quando i miliziani tutsi appartenenti al Congrès National pour la Défense du Peuple (CNDP, Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo) del Generale Laurent Nkunda hanno costretto le truppe lealiste delle Forces armées de la République démocratique du Congo (FARDC, Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo) a ritirarsi dalle loro posizioni nei pressi del Lago Kivu mettendo in fuga centinaia di migliaia di civili, tanto che il Ministro degli Esterni francese, Bernard Kouchner, ha avvisato del rischio imminente di “enormi massacri”.

Nkunda, come il suo mentore, il dittatore ruandese appoggiato da Washington, Paul Kagame, è un tutsi che afferma di proteggere la minoranza tutsi da ciò che resta dell'esercito hutu del Ruanda, fuggito in Congo dopo il genocidio ruandese del 1994. I peacekeeper della missione MONUC delle Nazioni Unite non hanno riferito di simili atrocità commesse contro la minoranza tutsi nella regione nordorientale di Kivu. Secondo fonti congolesi gli attacchi contro tutti i gruppi etnici sono all'ordine del giorno nella regione. Le truppe di Laurent Nkunda sono responsabili della maggior parte di questi attacchi, sostengono.

Strane dimissioni
Un ulteriore passo verso il caos politico in Congo è stato fatto a settembre, quando l'83enne Primo Ministro della Repubblica Democratica del Congo, Antoine Gizenga, si è dimesso dopo due anni alla guida del governo. Alla fine di ottobre, con una scelta dei tempi sospetta, il comandante dell'operazione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Congo (MONUC, Missione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite in Congo), il Tenente Generale spagnolo Vicente Diaz de Villegas, si è dimesso dopo meno di due mesi citando una “mancanza di fiducia” nella leadership del Presidente Joseph Kabila. Kabila, il primo Presidente democraticamente eletto del Congo, è stato anche coinvolto nella negoziazione di un accordo commerciale da 9 miliardi di dollari tra la DRC e la Cina, cosa di cui Washington non può ovviamente rallegrarsi.

Nkunda è un vecchio seguace del Presidente ruandese, Kagame, spalleggiato dagli Stati Uniti. Tutti gli indizi fanno pensare a un pesante benché segreto ruolo della CIA nelle ultime uccisioni perpetrate in Congo dagli uomini di Nkunda. Lo stesso Nkunda è un ex ufficiale dell'esercito congolese, insegnante e pastore della Chiesa Avventista del Settimo Giorno. Ma sembra che uccidere sia la cosa che gli riesce meglio.

Buona parte dei soldati di Nkunda, bene equipaggiati e relativamente disciplinati, viene dal vicino Ruanda, e il resto è stato reclutato dalla minoranza tutsi della provincia congolese di Nord Kivu. Il sostegno materiale, politico e finanziario a questo esercito congolese ribelle viene dal Ruanda. Secondo l'American Spectator, “Il Presidente Paul Kagame del Ruanda è un vecchio sostenitore di Nkunda, che era un ufficiale dei servizi all'epoca del rovesciamento a opera del leader ruandese del dispotico governo hutu nel suo paese”.

Come ha riferito il 30 ottobre l'agenzia di informazione congolese, “Alcuni hanno accettato il pretesto di una minoranza tutsi in pericolo in Congo. Non si manca mai di affermare che Laurent Nkunda starebbe combattendo per proteggere 'il suo popolo'. Ma non ci si è chiesti quali siano i suoi veri fini, che consistono nell'occupare la provincia di Nord Kivu, ricchissima di minerali, saccheggiare le sue risorse, e combattere nel Congo orientale per conto del governo ruandese a guida tutsi di Kigali. Kagame vuole un punto d'appoggio nel Congo orientale così che il suo paese possa continuare a beneficiare dei saccheggi e dell'esportazione di minerali come la columbite-tantalite (coltan). Molti esperti oggi concordano sul fatto che le risorse sono il vero motivo per cui Laurent Nkunda continua a creare caos nella regione con l'aiuto di Paul Kagame”.

Il ruolo degli Stati Uniti e AFRICOM
Secondo prove presentate in un tribunale francese e rese pubbliche nel 2006, Kagame organizzò l'abbattimento dell'aereo su cui volava il Presidente hutu del Ruanda, Juvénal Habyarimana, nell'aprile del 1994, fatto che scatenò l'uccisione indiscriminata di centinaia di migliaia di hutu e tutsi.

Il risultato finale dell'eccidio, nel quale morì forse un milione di africani, fu che Paul Kagame – spietato dittatore addestrato alla scuola militare di Fort Leavenworth, nel Kansas, e spalleggiato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito – si ritrovò saldamente al potere come dittatore del Ruanda. Da allora ha sempre segretamente appoggiato le ripetute incursioni militari del generale Nkunda nella ricca regione di Kivu con il pretesto di difendere una piccola minoranza tutsi. Kagame aveva più volte respinto i tentativi di rimpatriare quei profughi tutsi in Ruanda, temendo evidentemente di poter perdere un prezioso pretesto per occupare il ricco Kivu.

Almeno fin dal 2001, secondo fonti congolesi, l'esercito statunitense ha una base a Cyangugu, in Ruanda, naturalmente costruita dalla vecchia compagnia di Dick Cheney, la Halliburton, e comodamente vicina al confine con la regione di Kivu.

Il massacro di civili hutu e tutsi del 1994 fu, come l'ha descritta il ricercatore canadese Michel Chossudovsky, “una guerra non dichiarata tra la Francia e l'America. Sostenendo il rafforzamento degli eserciti ugandese e ruandese e intervenendo direttamente nella guerra civile congolese, Washington ha anche la responsabilità diretta dei massacri etnici commessi nel Congo orientale, comprese le centinaia di migliaia di persone morte nei campi profughi”. Aggiunge Chossudovsky: “Il Generale Maggiore Paul Kagame era uno strumento di Washington. La morte di tanti africani non aveva importanza. La guerra civile in Ruanda e i massacri etnici erano parte integrante della politica estera statunitense, attentamente orchestrati in conformità con precisi obiettivi strategici ed economici”.

Adesso l'ex ufficiale dei servizi di Kagame, Nkunda, guida le sue ben equipaggiate truppe su Goma nel Congo orientale secondo un piano che sembra essere quello di staccare la regione ricca di risorse da Kinshasha. Con l'esercito degli Stati Uniti che a partire dal 2007 ha preso a rafforzare la propria presenza in Africa con AFRICOM, sembra essere tutto pronto per l'attuale sottrazione di risorse da parte di Kagame e del suo ex ufficiale, Nkunda.

Oggi il bersaglio è la Cina
Se il bersaglio segreto della “guerra surrogata” degli Stati Uniti nel 1994 era la Francia, oggi quel bersaglio è chiaramente la Cina, vera minaccia al controllo statunitense delle ricchezze minerarie dell'Africa Centrale.

La Repubblica Democratica del Congo è stata così rinominata nel 1997, dopo che l'esercito di Laurent Désiré Kabila ha messo fine al regno di Mobutu, durato 32 anni. Prima di allora si chiamava Repubblica dello Zaire. Gli abitanti chiamano il loro paese Congo-Kinshasa.

La regione congolese di Kivu è sede geologica di minerali tra i più strategici al mondo. Il confine orientale, tra il Ruanda e l'Uganda, corre lungo il bordo orientale della Rift Valley, che i geologi considerano una delle zone più ricche di minerali sulla faccia della terra.

La Repubblica Democratica del Congo contiene più della metà del cobalto mondiale. Ha un terzo dei suoi diamanti, e, cosa estremamente significativa, tre quarti delle risorse mondiali di columbite-tantalite o “coltan”, componente primario dei microchip e dei circuiti stampati, essenziale per i telefoni cellulari, i portatili e altri moderni dispositivi elettronici.

L'America Minerals Fields, compagnia pesantemente coinvolta nell'ascesa al potere di Laurent Kabila nel 1996, all'epoca della guerra civile in Congo aveva il proprio quartier generale a Hope, Arkansas. I principali azionisti comprendevano vecchie conoscenze dell'ex Presidente Clinton che risalivano ai tempi in cui era Governatore dell'Arkansas. Alcuni mesi prima della caduta del dittatore dello Zaire sostenuto dai francesi, Mobutu, Laurent Desire Kabila si stabilì a Goma, nello Zaire orientale, e rinegoziò i contratti minerari con diverse compagnie statunitensi e britanniche, compresa l'American Mineral Fields. Il governo corrotto di Mobutu fu rovesciato con la forza e con l'aiuto del Fondo Monetario Internazionale sotto la direzione degli Stati Uniti.

Washington non era del tutto soddisfatta di Laurent Kabila, che finì assassinato nel 2001. In uno studio pubblicato nell'aprile del 1997, appena un mese prima che il Presidente Mobutu Sese Seko fuggisse dal paese, il Fondo Monetario Internazionale aveva raccomandato di “interrompere completamente e bruscamente l'emissione monetaria” nell'ambito di un programma di risanamento economico. Pochi mesi dopo aver assunto il potere a Kinshasa, il nuovo governo di Laurent Kabila Desire ricevette dall'FMI l'ordine di congelare gli stipendi dei funzionari statali per “ripristinare la stabilità macroeconomica”. Eroso dall'iperinflazione, il salario mensile medio nel settore pubblico era crollato a 30.000 nuovi Zaire (NZ), l'equivalente di un dollaro statunitense.

Secondo Chossudovsky le imposizioni dell'FMI equivalevano a mantenere l'intera popolazione in uno stato di disperata povertà. Preclusero fin dall'inizio una significativa ricostruzione economica postbellica, contribuendo dunque alla continuazione della guerra civile congolese che ha portato alla morte di quasi 2 milioni di persone.

A Laurent Kabila successe il figlio, Joseph Kabila, che divenne il primo Presidente democraticamente eletto del Congo e sembra avere avuto maggiormente a cuore il benessere dei suoi connazionali.

E adesso arriva l'AFRICOM. In un discorso all'International Peace Operations Association (Associazione per le Operazioni di Pace Internazionali) tenuto a Washington il 27 ottobre, il Comandante di AFRICOM Generale Kip Ward ha così definito la missione del comando: “di concerto con altri organi governativi degli Stati Uniti e con i partner internazionali, [condurre] prolungati impegni per la sicurezza attraverso programmi di cooperazione militare, attività sponsorizzate dall'esercito e altre operazioni militari dirette a promuovere un ambiente africano stabile e sicuro a sostegno della politica estera statunitense”.

Le “operazioni militari dirette a promuovere un ambiente africano stabile e sicuro a sostegno della politica estera statunitense”, oggi, sono chiaramente pensate per bloccare la crescente presenza economica della Cina nella regione.

Di fatto, come dichiarano apertamente diverse fonti di Washington, l'AFRICOM è stato creato per contrastare la crescente presenza della Cina in Africa, compresa la Repubblica Democratica del Congo, dove si assicura contratti economici a lungo termine per le materie prime africane in cambio degli aiuti cinesi e di accordi di production sharing [ripartizione della produzione, N.d.T.] e royalties. Secondo fonti bene informate, i cinesi sono stati molto più furbi. Invece di offrire l'austerità e il caos economico imposti dall'FMI, la Cina sta offrendo consistenti crediti e prestiti a tassi agevolati per la costruzione di strade e scuole così da instaurare buoni rapporti con i paesi interessati.

Il dottor J. Peter Pham, un importante insider di Washington che lavora come consulente per i Dipartimenti di Stato e della Difesa degli Stati Uniti, dice francamente che tra gli scopi del nuovo AFRICOM c'è quello di “proteggere l'accesso agli idrocarburi e ad altre risorse strategiche che l'Africa possiede in grande abbondanza... compito che prevede la salvaguardia dalla vulnerabilità di quelle ricchezze naturali e far sì che terze parti come la Cina, l'India, il Giappone o la Russia non ottengano monopoli o trattamenti preferenziali”.

Nella sua testimonianza al Congresso a favore della creazione di AFRICOM, nel 2007, Pham, che è strettamente legato alla neo-conservatrice Foundation for Defense of Democracies (Fondazione per la Difesa delle Democrazie), ha dichiarato:

“Questa ricchezza naturale rende l'Africa un obiettivo invitante per la Repubblica Popolare Cinese, la cui economia dinamica, che ha registrato una crescita media annua del 9% negli ultimi vent'anni, ha una sete quasi insaziabile di petrolio e una necessità di altre risorse naturali per sostenerla. La Cina sta attualmente importando circa 2,6 milioni di barili di greggio al giorno, circa la metà del suo consumo; più di 765.000 di quei barili – all'incirca un terzo delle sue importazioni – vengono da fonti africane, soprattutto il Sudan, l'Angola e il Congo (Brazzaville). Non ci si meraviglia dunque che... forse nessun'altra regione possa competere con l'Africa agli occhi di Pechino e dei suoi interessi strategici a lungo termine. Lo scorso anno il regime cinese ha pubblicato il primo libro bianco ufficiale in cui si elaboravano le linee guida della sua politica africana.

Quest'anno prima del suo tour di dodici giorni in otto nazioni africane – il terzo viaggio di questo tipo da quando ha assunto l'incarico, nel 2003 – il Presidente cinese Hu Jintao ha annunciato un programma triennale da 3 miliardi di dollari in prestiti preferenziali e vasti aiuti per l'Africa. Questi stanziamenti si aggiungono ai 3 miliardi in prestiti e i 2 miliardi in crediti all'esportazione annunciati da Hu nell'ottobre del 2006 all'apertura dello storico summit di Pechino del Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC) che ha portato nella capitale cinese quasi cinquanta capi di stato e ministri africani.

Intenzionalmente o no, molti analisti si aspettano che l'Africa – soprattutto gli stati della costa occidentale, ricca di petrolio – diventi sempre più un teatro di competizione strategica tra gli Stati Uniti e il loro unico vero concorrente quasi alla pari sulla scena mondiale, la Cina, dato che entrambi i paesi cercando di estendere la loro influenza e assicurarsi l'accesso alle risorse”.

Cosa degna di nota, alla fine di ottobre le ben armate truppe di Nkunda hanno circondato Goma nel Nord Kivu e chiesto che il Presidente del Congo Joseph Kabila negoziasse con lui. Tra le richieste di Nkunda c'era la cancellazione di una joint venture Congo-Cina da 9 miliardi di dollari in base alla quale la Cina ottiene i diritti sulle estese risorse di rame e cobalto della regione in cambio di 6 miliardi per la costruzione di strade, due dighe idroelettriche, ospedali, scuole e collegamenti ferroviari con l'Africa meridionale, con la provincia di Katanga e con il porto di Matadi sull'Atlantico. I restanti 3 miliardi saranno investiti dalla Cina nello sviluppo di nuove aree minerarie.

Curiosamente gli Stati Uniti e la maggioranza dei media europei tralasciano questo piccolo dettaglio. Sembra che il compito di AFRICOM sia quello di opporsi alla Cina in Africa. La cartina al tornasole sarà rappresentata dalla persona del Presidente Obama in Africa e il suo eventuale tentativo di indebolire il Presidente del Congo Joseph Kabila sostenendo le squadre della morte di Nkunda, naturalmente nel nome del “ristabilimento della democrazia”.