domenica 20 settembre 2009

Thailandia, rossi pro-Thaksin in piazza

In occasione del terzo anniversario del golpe che depose Thaksin Shinawatra, i suoi sostenitori sono scesi in piazza a Bangkok chiedendo le dimissioni del premier Abhisit. E l'amnistia per il loro beniamino. Il paese rimane diviso in due e i grattacapi per il governo arrivano anche dai suoi sostenitori

Junko Terao
Domenica 20 Settembre 2009

Le dimissioni del primo ministro Abhisit Vejjajiva, nuove elezioni e l’amnistia per l’ex-premier condannato per corruzione, il tycoon delle telecomunicazioni Thaksin Shinawatra: in occasione del terzo anniversario del colpo di stato che depose il ‘Berlusconi thailandese’ nel settembre del 2006, ieri i suoi sostenitori – indosso la maglietta rossa d’ordinanza - sono scesi in piazza in 25mila nella capitale Bangkok, avanzando a gran voce richieste precise. La pioggia torrenziale non ha scoraggiato i militanti del Fronte unito per la democrazia contro la dittatura (Udd), che si sono dati appuntamento in mattinata davanti alla sede del governo, per poi dirigersi verso l’abitazione di Prem Tinsulanonda, il principale consigliere dell’amato re Bhumibol Adulyadej accusato dalle magliette rosse di essere il macchinatore segreto del golpe del 2006. A dare man forte e aizzare i suoi, incitandoli a “resistere” e a continuare a protestare “per la vera democrazia” è intervenuto telefonicamente dal suo esilio dorato di Dubai proprio lui, Thaksin in persona, che da mesi a questa parte non rinuncia a simili occasioni per ricordare che lui c’è e lotta con loro. “Non lasciatemi morire in mezzo al deserto”, è stato il messaggio rivolto ai suoi, insieme alla promessa che “se tornerò lavorerò per il popolo”. L’ex premier ha persino cantato per loro, chiedendo di “trovare un modo per farmi tornare a lavorare per il paese”. E i thailandesi arrivati numerosi nella capitale dalle campagne - grande bacino di consenso del tycoon – si stanno dando da fare. Il 17 agosto scorso in migliaia si sono presentati fuori dal palazzo reale per consegnare una petizione firmata da almeno 3,5 milioni di cittadini, per chiedere al re Adulyadej di concedergli il perdono. Un’amnistia che consentirebbe a Thaksin non solo di tornare, ma soprattutto di partecipare alle elezioni generali che con molta probabilità si terranno l’anno prossimo. Il paese è ancora chiaramente diviso in due e Abhisit, dopo 9 mesi di governo, non è ancora riuscito a conquistare la fiducia nelle campagne. E difficilmente ci riuscirà, lui, figlio dell’aristocrazia arrivato al governo col sostegno delle potenti elite urbane e dei militari. Memore delle proteste dei mesi scorsi degenerate in violenza – l’ultima ad aprile –, esercito e polizia ieri hanno dispiegato grandi quantità di uomini: strade chiuse, barricate, checkpoint e il mandato di arrestare i facinorosi. Bangkok non è nuova allo stato d’emergenza, decretato più volte a partire dagli ultimi mesi del 2008, quando fiumi di persone si erano riversate nelle piazze, chi pro e chi contro Thaksin. Proprio la protesta delle ‘magliette gialle’ del Pad (Alleanza del popolo per la democrazia), colore scelto dagli oppositori del tycoon e del governo di suoi fedelissimi eletto dopo il colpo di stato, aveva portato nel novembre scorso alla caduta di quel governo, complice l’intervento della Corte suprema che con una sentenza tempestiva aveva dichiarato fuorilegge due partiti della coalizione al potere. Ed è il modo in cui Abhisit è salito al comando il suo maggior punto debole, su cui i suoi oppositori fanno leva gridando al ‘complotto’ e invocando elezioni democratiche. Ma i grattacapi per Abhisit ieri sono arrivati anche da parte dei suoi. Un’altra manifestazione, questa volta ‘gialla’, ha fatto alzare la tensione al confine con la Cambogia, dove i militari dei due paesi presidiano da tempo il tempio Preah Vihear, patrimonio dell’umanità e oggetto di contesa tra i due vicini. Le magliette gialle, circa 2000, rivendicando la sovranità della terra circostante il tempio e accusando il governo di non fare abbastanza per proteggerla, si sono scontrati con gli abitanti della zona. In passato i due eserciti hanno anche aperto il fuoco, mietendo vittime.

http://www.lettera22.it/showart.php?id=10855&rubrica=97

Samuel Butler

“Ogni giorno le macchine guadagnano terreno rispetto a noi. Ogni giorno noi siamo maggiormente sottomessi a loro. Ogni giorno più uomini sono sottomessi al loro servizio, come schiavi incaricati di averne cura; ogni giorno più uomini consacrano tutte le forze della loro vita allo sviluppo della vita meccanica. La conseguenza finale di tutto ciò non è che una questione di tempo, Ma è un fatto che verrà un epoca in cui le macchine avranno la supremazia reale sul mondo e sui suoi abitanti”.

Zhuangzi (o Chuang Tze)

"Ho udito udire dal mio maestro: se uno utilizza le macchine, allora compie macchinalmente tutti i suoi atti; chi compie macchinalmente tutti i suoi atti, ha alla fine un cuor di macchina; ma se uno ha un cuor di macchina nel petto, perde la pura semplicità, diviene incerto nei moti del suo spirito; incertezza nei moti dello spirito è qualcosa di incompatibile con il vero Senso".

Giacomo Leopardi: Zibaldone dei pensieri. Anno 1824

“Se una volta in processo di tempo l'invenzione p.e. dei parafulmini (che ora bisogna convenire esser di molto poca utilità), piglierà più consistenza ed estensione, diverrà di uso più sicuro, più considerabile e più generale; se i palloni aereostatici, e l'aeronautica acquisterà un grado di scienza, e l'uso ne diverrà comune, e la utilità (che ora è nessuna) vi si aggiungerà ec.; se tanti altri trovati moderni, come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi ec. riceveranno applicazioni e perfezionamenti tali da cangiare in gran parte la faccia della vita civile, come non è inverisimile; e se in ultimo altri nuovi trovati concorreranno a questo effetto; certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni, appena chiameranno civile la età presente, diranno che noi vivevamo in continui ed estremi timori e difficoltà, stenteranno a comprendere come si potesse menare e sopportar la vita essendo di continuo esposti ai pericoli delle tempeste, dei fulmini ec., navigare con tanto rischio di sommergersi, commerciare e comunicar coi lontani essendo sconosciuta o imperfetta la navigazione aerea, l'uso dei telegrafi ec., considereranno con meraviglia la lentezza dei nostri presenti mezzi di comunicazione, la loro incertezza ec. Eppur noi non sentiamo, non ci accorgiamo di questa tanta impossibilità o difficoltà di vivere che ci verrà attribuita; ci par di fare una vita assai comoda, di comunicare insieme assai facilmente e speditamente, di abbondar di piaceri e di comodità, in fine di essere in un secolo raffinatissimo e lussurioso. Or credete pure a me che altrettanto pensavano quegli uomini che vivevano avanti l'uso del fuoco, della navigazione ec. ec. quegli uomini che noi, specialmente in questo secolo, con magnifiche dicerie rettoriche predichiamo come esposti a continui pericoli, continui ed immensi disagi, bestie feroci, intemperie, fame, sete; come continuamente palpitanti e tremanti dalla paura, e tra perpetui patimenti ec. E credete a me che la considerazione detta di sopra è una perfetta soluzione del ridicolo problema che noi ci facciamo: come potevano mai vivere gli uomini in quello stato; come si poteva mai vivere avanti la tale o la tal altra invenzione.”
(Bologna. 10. Settembre. Domenica. 1826.)

Mosca firma accordo per basi militari in Abkhazia e Ossezia del sud

È stato firmato ieri a Mosca l'accordo sulla cooperazione militare tra la Russia e le due regioni georgiane separatiste dell'Abkhazia e dell'Ossezia del sud, che Mosca ha riconosciuto dopo la guerra dello scorso agosto con Tbilisi.
Lo riferisce l'agenzia Interfax citando il col. Alexei Kuznetov, portavoce del ministero della difesa russo. L'accordo, firmato dal ministro della difesa russo Anatoli Serdiukov e dai suoi colleghi delle due repubbliche indipendentiste, ha una durata di 49 anni, prorogabili poi per periodi di cinque anni, e prevede la creazione di basi militari russe. Il quartier generale delle forze russe in Abkhazia sarà a Gudauta, mentre quello in Ossezia del sud nella capitale Tshinkvali. Complessivamente il numero dei militari russi sarà di 1700 per ciascuna repubblica.

Liberazione 16/09/2009, pag 8

Marc Augé: «Non dobbiamo temere le frontiere: sono porte da varcare, non barriere»

Marc Augé Etnologo e antropologo del mondo contemporaneo
Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è "Il metrò rivisitato"

Guido Caldiron
«Non ho mai smesso di prendere il metrò, mai smesso di essere parigino (...) Vent'anni dopo, dunque, non si tratta semplicemente di un ritorno nel metrò, quanto di una fermata, di una pausa, di un colpo d'occhio retrospettivo per cercare di fare il punto su cosa è cambiato». Marc Augé, tra gli intellettuali europei più attenti ai mutamenti delle società, delle metropoli e della cultura spiega così il senso del suo viaggio nei sotterranei di Parigi compiuto con Il metrò ritrovato (Raffaello Cortina, pp. 80, euro 8,00) a vent'anni dalla sua prima, storica, indagine raccontata in Un etnologo nel metrò (Elèuthera). Augé che ha partecipato nei giorni scorsi al Festivaletteratura di Mantova sarà tra i protagonisti del Festivalfilosofia che si svolgerà tra Modena, Carpi e Sassuolo a partire da venerdì e che quest'anno è dedicato al tema della "comunità". L'intervento di Augé, centrato sull'idea di "frontiera", è in programma sabato alle 11.30 in Piazza Garibaldi a Carpi.

L'edizione di quest'anno del Festivalfilosofia è dedicata al tema della "comunità", una sorta di "parola maledetta" del Novecento che oggi sembra essere tornata molto in auge. Come la si può usare?
Quello di "comunità" è un concetto che viene utilizzato sempre più spesso anche se non credo abbia sempre un centenuto altrettanto evidente. Mi spiego: si parla di comunità etniche, gli ebrei, gli arabi e via dicendo, di questo o quel paese; si parla di comunità a proposito delle preferenze sessuali di ciascuno, la comunità omosessuale; per estensione di parla anche della comunità docente o di quella scientifica a proposito dei gruppi di insegnanti e di ricercatori; infine c'è la Comunità europea... Insomma, mi viene il sospetto che questa non sia la parola migliore per pensare gli individui all'interno della società. "Comunità" significa che chi ne fa parte dovrebbe condividere con gli altri determinati elementi, ma non credo che questo basti a definire dei gruppi coerenti. Piuttosto il termine è spesso utilizzato in maniera molto pericolosa per descrivere degli insiemi a tutto tondo che si confrontano con insiemi altrettanto chiusi e definiti. In realtà se si guarda bene nessun tipo di comunità è invece così coerente al proprio interno e così valida come punto d'osservazione verso una società. Appare chiaro che come anche "identità" e "cultura", altri due termini molto in voga, il riferimento alla "comunità" serve perciò prima di tutto a negare la voce ai soggetti, agli invidui. Si dice guardiamo alle comunità per sminuire il valore e i diritti dei singoli esseri umani.

Al festival lei interverrà parlando della "frontiera" che a suo dire non rappresenta però un limite quanto piuttosto un'occasione di scoperta. Come è possibile?
E' semplice, proprio perché cerchiamo di partire dall'individuo piuttosto che dalla comunità dobbiamo interrogarci su cosa rappresenti oggi l'idea di "frontiera". Infatti, accanto a un mondo fatto di comunità si parla da tempo di un mondo globale senza più frontiere: le frontiere esisterebbero solo tra gruppi definiti, coerenti e formati da simili. Si tratta ovviamente di una rappresentazione della realtà davvero molto rischiosa e inquietante. Proprio per questo si deve partire da una definizione della frontiera. Dal mio punto di vista una frontiera non rappresenta in alcun modo una barriera, bensì una sorta di strumento di passaggio e una soglia da cui guardare dentro qualcosa. Si dice che esistono delle frontiere tra le lingue, ma questo non impedisce che si passa da una lingua all'altra. La nozione di frontiera ci serve perciò non tanto per delimitare il campo della ricerca intellettuale, quanto piuttosto per rendere possibile il riconoscimento dell'"altro". Sono abituato a partire sempre dal punto di vista dell'individuo e mi sembra che in questo senso la frontiera sia il luogo simbolico nel quale può avvenire l'incontro e la scoperta degli altri. In questo senso la frontiera ci offre l'occasione di parlare degli individui e del futuro, piuttosto che di presunte collettività fittizie e del passato.

Le frontiere tornano però spesso nella sua riflessione come elementi che strutturano il mondo frutto dei processi di globalizzazione di questi ultimi decenni: non le frontiere tra le culture e i paesi, ma quelle che continuano ad attraversare ogni singola società. Vale a dire?
L'esempio che faccio spesso riguarda l'accesso all'educazione. Più che le differenze tra gruppi o comunità mi sembra molto significativa quella che mette a confronto le chance che possiede la figlia di un professore di Harvard e il figlio di un contadino afghano: l'una ha di fronte a sé ogni tipo di possibilità, l'altro non è ha probabilmente alcuna. E' tutto ciò, questa profonda disparità non ha nulla a che fare con la loro cultura, invertendo i ruoli si invertirebbero anche le possibilità... Ci sono delle barriere che limitano l'accesso al sapere, all'educazione e, ovviamente anche a molte altre cose. Dovremmo essere in grado di trasformare queste "barriere" in "frontiere" permettendo a tutti il passaggio da una condizione all'altra, da una chance all'altra. In questo l'educazione è la base da cui partire, per tutti. Credo rappresenti una sorta di apprendistato delle frontiere, la base da cui apprendere come si fa a varcare la porta che ci introduce a ciascuna cultura. Per questo l'accesso all'educazione rappresenta una delle sfide principali del mondo globale di oggi.

Parlando di "comunità" con un intellettuale parigino non si può evitare di citare il dibattito che da tempo caratterizza la società francese, dove alla crisi del modello di integrazione repubblicana sembra essersi sostituita una particolare attenzione al "fatto comunitario". Lei è tornato recentemente a visitare il metrò della capitale a vent'anni dalla sua prima indagine: che cosa ha trovato da questo punto di vista?
E' evidente che nel metrò di oggi non si può che cogliere una diversità etnica maggiore rispetto a vent'anni fa. Ci sono molti più asiatici, africani e via dicendo. Il metrò di oggi ha, per così dire, una popolazione sempre più varia e mista. Ma sostenere che si tratta dei rappresentanti di altrettante comunità sarebbe una vera aberrazione: ho studiato e viaggiato abbastanza in Africa per poter dire che cosa siano le vere differenze tra i gruppi umani. No, una cosa è la voglia degli individui di definirsi come gruppo, e penso alle tante culture giovanili che crescono in una metropoli, altra cosa è il percepire queste come "differenze" fondanti qualcosa. Per quanto ho detto fin qui credo si sia capito che io non credo che le comunità esistano davvero nella realtà e siano piuttosto un comodo alibi per non affrontare i temi posti da ciascun individuo.

Parlando di questi temi è difficile non pensare alla crisi delle banlieue: che cosa non ha funzionato nei grandi spazi urbani sorti attorno alle metropoli francesi?
Si tratta di una situazione complessa e gli elementi che andrebbero analizzati sono molti. Una cosa che mi sento di dire è che intanto si deve uscire da una rappresentazione delle periferie costruita sulla base di facili cliché: le banlieue non sono la giungla oltre la porta di casa, questa specie di mondo spaventoso che sta intorno a noi e di cui non possiamo che avere paura. Oggi sembra che ci voglia più coraggio per andare a Sarcelles, banlieue di Parigi, che nella savana o nel Sahara. Decisamente una cosa ridicola. Ciò detto, i problemi sono molti: sul terreno economico, del lavoro, ancora una volta dell'educazione. La politica dell'urbanistica pubblica francese, fin dagli anni Settanta, ha puntato a far vivere tutta una parte della popolazione, la più disagiata, nelle stesse zone, e questo non ha certo reso le cose più facili. Sul fondo c'è però il fatto che ai giovani cresciuti in queste zone la Francia non è stata molto spesso in grado di offrire un percorso educativo degno di questo nome: non si è cercato di farne dei cittadini come tutti gli altri a partire dalla loro educazione. Ed è da lì che si deve ripartire ora per cambiare le cose, non certo dalle politiche repressive e del controllo sociale.

Liberazione 16/09/2009, pag 12

Prc: Documento Segreteria Nazionale

La crisi capitalistica sta mostrando in modo sempre più evidente i suoi caratteri di crisi strutturale. Le misure assunte dai governi mondiali hanno probabilmente messo a riparo il sistema da verticali collassi finanziari ma non sono in grado di rimetterne in moto lo sviluppo. Il contesto in cui siamo chiamati ad agire nei prossimi anni è quindi un contesto di stagnazione economica prolungata.
La crisi non è però caratterizzata solo dalla recessione. In Italia, mentre il sistema bancario è stato messo sotto protezione dal governo, gli altri settori sono sottoposti ad una gigantesca ristrutturazione che accentua le politiche messe in atto nel ciclo ascendente della globalizzazione: ulteriore precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, delocalizzazioni, concentrazioni, speculazioni fondiarie.
L'intreccio tra recessione e ristrutturazione sta determinando una massiccia espulsione di lavoratrici e lavoratori dal mondo del lavoro. Dall'inizio della crisi abbiamo perso quasi un milione di posti di lavoro. Ad oggi questo fenomeno non è ancora pienamente visibile perché si è scaricato soprattutto sul lavoro precario e perché vi è stato un grande uso di Cassaintegrazione in deroga. A partire dall'autunno la perdita di posti di lavoro è destinata ad accentuarsi con licenziamenti e mobilità.
Parallelamente il governo Berlusconi sta tagliando la spesa del settore pubblico e del welfare: dalla scuola alla sanità ai trasferimenti agli enti locali, aprendo così spazi al settore privato. I tagli all'istruzione e alla ricerca, così come quelli al Fondo Unico per lo Spettacolo, determinano non solo una precarizzazione ed espulsione di massa dal lavoro, ma incidono sulla qualità della scuola pubblica, limitano il pluralismo, determinando complessivamente un impoverimento culturale del paese e aprendo artificialmente spazi al settore privato.
Il governo, in generale, non ha politiche finalizzate all'uscita dalla crisi. Non mette in atto politiche anticicliche ma aspetta la ripresa mondiale - tedesca in primo luogo - per far trainare da quella la ripresa dell'economia italiana. Il governo interviene quindi all'interno della crisi, in particolare per utilizzare la crisi al fine di attuare una modifica strutturale dei rapporti di forza tra le classi e una riduzione strutturale della democrazia nel paese. Un progetto che ha al centro la messa in discussione del contratto nazionale di lavoro e la volontà di costruire un modello sociale neocorporativo in cui il sindacato non è più autonomo rappresentante delle lavoratrici e dei lavoratori ma co-gestore di servizi privatizzati. Un progetto in cui l'attacco al contratto nazionale, al diritto di sciopero, alla magistratura, alla libertà di stampa, il razzismo di stato, le politiche securitarie, l'attacco alla laicità dello stato e all'autodeterminazione delle donne, costituiscono le varie facce di uno stesso disegno: la distruzione delle autonomie dei soggetti sociali e la gestione autoritaria della frantumazione del conflitto, nel superamento sostanziale del quadro costituzionale nato dalla lotta antifascista.
Berlusconi usa quindi la crisi come "crisi costituente", puntando alla realizzazione di un organico disegno di destra, in cui le politiche economiche, sociali e i modelli ideologici di riferimento hanno un elevato grado di coerenza interna. Questo disegno dobbiamo contrastare e sconfiggere nella piena consapevolezza che le opposizioni parlamentari, divise tra un centro cattolico, un centro sinistra moderato e un centro sinistra populista, non sono in grado di contrastare efficacemente il governo perché non sono portatrici di un progetto alternativo di uscita dalla crisi. Parallelamente le ipotesi alternative al berlusconismo che stanno maturando nelle classi dirigenti e nella stessa maggioranza parlamentare, non hanno oggi forza politica autonoma. L'uscita a sinistra dalla crisi e la sconfitta del berlusconismo, nel suo impasto clerical-fascista di politiche antidemocratiche, classiste e sessiste, sono quindi, gli obiettivi immediati che abbiamo dinnanzi.
Ripartire dal conflitto sociale
Il principale terreno di iniziativa politica è quello della costruzione dell'opposizione sociale. Il governo ha meno difficoltà a reggere lo scontro politico ma è invece assai vulnerabile sul terreno sociale. I caratteri populistici del berlusconismo reggono la polemica politica, assai meno la contestazione scoiale. Anche per questo motivo, l'organizzazione consapevole del conflitto sociale è la nostra priorità politica di fase.
Le vertenze, le mobilitazioni e le pratiche di conflitto delle ultime settimane segnano un punto di svolta anche sul terreno simbolico. L'azione collettiva può tornare ad essere nella coscienza di massa strumento efficace per il cambiamento: il caso della Innse ha evidenziato in modo plastico questa possibilità.
E' quindi decisivo che le lotte per l'occupazione non vengano lasciate sole, che si costruisca il massimo di visibilità della lotta, di solidarietà attorno ad esse.
La costruzione di una efficace risposta di lotta, fabbrica per fabbrica, provveditorato per provveditorato, quartiere per quartiere è un punto di partenza decisivo per arrivare alla connessione delle lotte, alla costruzione dei comitati unitari contro la crisi e di un movimento politico di massa per l'uscita dalla crisi da sinistra.
Il blocco dei licenziamenti, l'assunzione dei precari nella scuola e nel pubblico impiego, l'estensione degli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori e le lavoratrici che perdono il posto di lavoro, la creazione di un salario sociale per le/i disoccupate/i, la richiesta di un aumento salariale e del trattamento pensionistico generalizzato, la lotta alla precarietà, sono i punti principali della costruzione di un movimento di massa che coinvolga lavoratrici/ori, occupate/i, cassaintegrate/i, licenziate/i, disoccupate/i. La costruzione di un movimento di massa è l'obiettivo, il suo punto di partenza sono le singole lotte.
Il partito deve ritrovare la sua utilità sociale dentro questo processo.
Così come è fondamentale il ruolo della Cgil e dei sindacati di base.
Per la Cgil è necessaria una chiarificazione di fondo che la faccia uscire dal guado. Nella situazione attuale infatti la Cgil si oppone giustamente alle politiche del governo ma senza mettere in campo una politica sindacale in grado di costruire i rapporti di forza con cui contrastare il governo.
Il punto su cui riteniamo necessario lavorare è quello della massima unità delle forze politiche e sindacali nella costruzione di una efficace mobilitazione sociale contro la crisi, il governo e la Confindustria.
La cura nella costruzione delle lotte, la proposizione delle forme di lotta più radicali come più efficaci, la definizione della piattaforma sindacale più avanzata costituiscono punti decisivi ma non sufficienti: occorre avanzare una proposta di uscita da sinistra dalla crisi che abbia le caratteristiche dell'alternativa, di un diverso progetto di società, la cui qualità non è misurabile in termini di PIL. Di fronte al fallimento della globalizzazione capitalistica abbiamo l'obbligo di proporre una alternativa al berlusconismo e ai cedimenti e ai balbettii della sinistra moderata e populista. La costruzione delle lotte e del progetto di alternativa sono i terreni su cui partire per costruire l'unità di tutte le forze della sinistra anticapitalista. C'è uno spazio enorme lasciato vuoto da un Pd che non sa produrre una opposizione efficace avendo proposto per oltre un decennio una versione morbida del neoliberismo che ci ha portati dentro la crisi.
Il progetto di uscita a sinistra dalla crisi si deve basare su alcuni punti di fondo: redistribuzione del reddito e lotta all'evasione fiscale, redistribuzione del lavoro con riduzione dell'orario di lavoro, intervento pubblico in economia finalizzato ad una riconversione ambientale e sociale della produzione, superamento della divisione sessuata del lavoro di riproduzione sociale, allargamento dei beni comuni, drastica riduzione delle spese militari e riconversione dell'industria bellica.
In questa prospettiva dobbiamo avanzare alcune proposte di legge su cui fare una campagna di massa: estensione degli ammortizzatori sociali alle categorie di lavoratrici e lavoratori che attualmente ne sono escluse e salario sociale alle/ai disoccupate/i; superamento della legge 30 e della Bossi Fini; contrasto alle delocalizzazioni produttive; estensione e miglioramento della Prodi bis con previsione dell'intervento pubblico nella gestione delle aziende in crisi; difesa del contratto nazionale e estensione della democrazia sui posti di lavoro; piano di riconversione ambientale delle produzioni; rilancio della sanità pubblica; piano di manutenzione straordinaria degli edifici pubblici e loro alimentazione con energia solare.
Questi contenuti programmatici, di contrasto alla crisi e di rilancio del welfare, devono anche costituire il terreno su cui aprire il confronto nella sinistra e incalzare il centrosinistra in vista delle elezioni regionali.
Costruire la Federazione della sinistra di alternativa
Il Cpn decide di assumere l'indirizzo emerso nell'assemblea del 18 luglio scorso di porsi l'obiettivo della costruzione della federazione della sinistra di alternativa. Nella piena conferma del mantenimento del Partito della Rifondazione Comunista per l'oggi e per il domani, la scelta della federazione è quella della costruzione di una soggettività politica avente una massa critica efficace al fine di costruire un polo di sinistra anticapitalista autonomo dal Pd e alternativo al suo progetto strategico.
Anche i recenti risultati elettorali della Linke nelle elezioni regionali indicano, nel permanere delle due sinistre, la necessità di questo processo unitario, di aggregazione delle forze della sinistra anticapitalista e comunista; un processo credibile se basato su un programma realmente alternativo, che coinvolga sin dall'inizio in modo aperto tutte le forze politiche, sociali, culturali, associative, singole e singoli disponibili a costruire un polo politico autonomo dal Pd e portatore di un progetto strategicamente alternativo. Un polo della sinistra di alternativa che - nel quadro delle due sinistre - assuma come fondative e discriminanti la connessione tra anticapitalismo, critica al patriarcato, riconversione ambientale e sociale dell'economia, antirazzismo, pacifismo, solidarietà internazionale, lotta contro l'omofobia, critica della politica come attività separata.
Se l'alternatività dei contenuti, del programma, delle proposte è l'elemento centrale, non secondaria è la modalità con cui si procede nel dare vita alla Federazione.
Si tratta di una proposta unitaria, volta ad archiviare una stagione di scissioni, che può darsi solo come processo partecipato e democratico, che deve coinvolgere a pieno titolo e sin dall'avvio tutte le realtà disponibili sia a livello nazionale che territoriale, recuperando le relazioni e le sperimentazioni della Sinistra Europea; un processo realmente partecipato da costruire sulla base di un lavoro politico comune, articolato e sperimentato nei territori e radicalizzato nei conflitti, a partire dalle lotte per il lavoro e per la giustizia sociale.
Per questo è necessario costruire, con tutti coloro che sono disponibili nazionalmente e localmente, assemblee territoriali di presentazione ed articolazione della proposta della Federazione. Tale percorso deve partire da subito in modo da rendere possibile un primo momento di bilancio con una assemblea nazionale prevista per fine autunno.
Il Cpn dà inoltre mandato alla segretaria di comporre, con le altre forze che promuovono la Federazione, i due gruppi di lavoro indicati dall'assemblea del 18 luglio, al fine di predisporre una bozza di "Manifesto" della Federazione e di "regole"per il funzionamento della stessa.
Sconfiggere il bipolarismo per uscire dalla seconda repubblica berlusconiana
I due obiettivi principali dell'autunno sono la costruzione di un efficace conflitto sociale e l'avvio del processo di costruzione della federazione della sinistra di alternativa. In sinergia con questi obiettivi, occorre aprire una campagna di massa, che duri nel tempo, contro il sistema bipolare e contro questa legge elettorale che consegna nelle mani di pochi oligarchi la definizione di tutti i parlamentari. Il bipolarismo è il contesto in cui il populismo berlusconiano è nato e ha potuto esercitare il suo potere. In un sistema proporzionale Berlusconi - che è minoranza nel paese - non avrebbe la maggioranza dei parlamentari, non avrebbe il potere che ha ora e non sarebbe in grado di tenere unita la destra sotto la sua guida.
Il superamento del bipolarismo, la conquista di un sistema proporzionale "alla tedesca", l'uscita dalla seconda repubblica, costituiscono un passaggio fondamentale per sconfiggere il berlusconismo e per superare questo "bipolarismo tra simili" che è alla base della crisi della politica e della sinistra.
E' del tutto evidente che il bipolarismo, producendo una alternanza che ha visto i poteri forti stabilmente al centro del sistema, ha contribuito non poco alla distruzione della credibilità della politica. Nel sistema italiano l'alternanza non si è in alcun modo declinata come l'anticamera dell'alternativa ma anzi ha compromesso le ragioni e la forza dell'alternativa.
In secondo luogo, il bipolarismo, in presenza di una destra fascistoide come quella di Berlusconi, ha continuamente messo la sinistra di alternativa di fronte ad un bivio suicida: o fare l'accordo con le forze della sinistra moderata per battere le destre, trovandosi poi a gestire il paese su posizioni e con un personale politico impresentabile, oppure non fare l'accordo ed essere immediatamente additata come responsabile della vittoria di Berlusconi o in ogni caso considerata come voto "inutile".
Dobbiamo lavorare a rompere questo meccanismo perverso, per la democrazia del paese e per la possibilità di costruire una sinistra in grado di costruire l'alternativa nel paese.
Nella piena consapevolezza che non esistono i presupposti per costruire una coalizione politica per governare il paese con le forze dell'attuale opposizione parlamentare, proponiamo quindi di costruire un accordo elettorale tra tutte le forze di opposizione disponibili a dar vita ad una brevissima legislatura di salvaguardia costituzionale. Un accordo che permetta di mettere in minoranza Berlusconi al fine di approvare una nuova legge elettorale proporzionale e una legge sul conflitto di interessi, per poi tornare a votare con le nuove regole.
Sconfiggere Berlusconi e superare la gabbia del bipolarismo costituiscono i nostri obiettivi di fase sul piano istituzionale.
Costruire l'alternativa, rilanciare la rifondazione comunista
E' del tutto evidente che il berlusconismo non è solo un fenomeno istituzionale ma è l'autobiografia della nazione. La sconfitta del berlusconismo deve avvenire su tutti i piani: sociale, politico, culturale.
Da questo punto di vista, il rilancio della rifondazione comunista è un punto centrale perché solo dalla rinnovata critica del capitalismo e del patriarcato può nascere un pensiero che sia in grado di contrapporsi efficacemente ai valori di individualismo egoista ed impaurito che caratterizzano la crisi sociale e civile in cui prospera il berlusconismo.
Ci impegniamo quindi a rilanciare il processo della rifondazione comunista, a costruire momenti di elaborazione e di dibattito, al fine di costruire un progetto politico che sia in grado di presentare una sua analisi, una sua lettura della situazione attuale, una sua proposta non solo politica ma anche etica. Con ogni evidenza la crisi che viviamo oggi è sociale e morale, vede la distruzione di valori sino a poco tempo fa dati come condivisi, in un contesto in cui l'intolleranza, il razzismo e l'omofobia permeano significativi strati sociali. Per questo una proposta di alternativa non si situa solo a livello dei provvedimenti economico-sociali, ma pone il tema della ricostruzione del tessuto sociale in termini di civiltà di intreccio tra eguaglianza, differenza e rispetto delle diversità.
Il rilancio della rifondazione comunista non si può quindi esaurire nella pur necessaria verifica critica della nostra storia ma deve misurarsi sulla costruzione di una nuova narrazione, di un "pensiero forte" che sappia consolidare gli elementi essenziali di una cultura politica all'altezza dei tempi, capace di valorizzare le esperienze anticapitalistiche che maturano sul piano internazionale, tra cui spicca la costruzione del socialismo del XXI secolo che i compagni e le compagne latinoamericani hanno posto all'ordine del giorno.
Costruire la gestione unitaria del partito
Il Congresso di Chianciano non ha indicato solo una linea politica, che ribadiamo e che in questi mesi è venuta arricchendosi grazie all'apporto di tutti i compagni e le compagne ( basti pensare alla proposta della federazione), ma ha anche proposto immediatamente la gestione unitaria del partito. Questa non è stata immediatamente possibile e anzi abbiamo subito una scissione dolorosa quanto dannosa. Il tema della gestione unitaria è stato rilanciato dall'ultimo Comitato Politico Nazionale con un deliberato specifico. Oggi possiamo raccogliere i frutti di una lavoro unitario fatto in questi mesi con l'allargamento della segreteria e l'ingresso nella stessa di due compagni e compagne della seconda mozione.
Il rilancio della gestione unitaria si basa su due considerazioni:
- vi sono la necessità, l'urgenza, l'interesse , di valorizzare tutte le intelligenze, le energie, le disponibilità, le capacità, nella costruzione/definizione dei gruppi dirigenti. Il nostro partito ha bisogno di tutte e tutti.
- questo è obiettivamente possibile perché vi è una piattaforma politica largamente condivisa il cui sforzo di realizzazione e di proposizione all'esterno per la costruzione di azione sociale consapevole, deve prevalere su elementi di differenza che possono permanere.
La scelta della gestione unitaria è per noi da attuare sempre, ad ogni livello del partito, anche in risposta alle grandi difficoltà che stiamo affrontando.
La scelta che facciamo oggi di allargamento della segreteria vuole essere un segnale a tutto il partito per arrivare a ogni livello di direzione politica a forme di gestione unitaria e alla valorizzazione piena di tutti i compagni e le compagne. Con questa decisione vogliamo chiudere gli strascichi di un congresso durato troppo a lungo e impegnarci unitariamente per il pieno rilancio del Partito che passa anche attraverso un impegno straordinario - che dobbiamo realizzare in questi mesi - per il tesseramento e il sostegno a Liberazione . Ci siamo dovuti impegnare - subito dopo il congresso di Chianciano - per contenere i danni di una sciagurata scissione, così come siamo dovuti intervenire su Liberazione e sull'apparato centrale del partito per evitare che si creasse una situazione economica insostenibile per il partito.
Tutto questo è alle nostre spalle. Oggi occorre quindi lavorare per ricostruire il partito. E' importante, a partire dalle assemblee sul tesseramento che si terranno a settembre e dal convegno nazionale che si terrà a metà ottobre, che tutto il partito si impegni per una grande campagna di iscrizione al partito e di diffusione di Liberazione .
Approvato con 109 voti favorevoli

Liberazione 17/09/2009, pag 14

mercoledì 16 settembre 2009

MUTO a wall-painted animation by BLU

http://www.youtube.com/watch?v=uuGaqLT-gO4

Tra Usa e Cina scoppia la guerra degli pneumatici

Washington impone dazi

Si combatterà sugli pneumatici la nuova battaglia nella guerra commerciale tra gli Usa e la Cina, dopo la decisione annunciata da Washington di imporre pesanti dazi sulle importazioni dei copertoni fabbricati oltre la Grande Muraglia.
Una mossa che ha provocato le furie di Pechino, secondo cui si tratta di un abuso protezionistico che produrrà ripercussioni negative in vista del prossimo G20 di Pittsburgh, con effetti deleteri sulla ripresa globale.
Il caso è esploso con l'annuncio della Casa Bianca di «porre rimedio all'evidente disgregazione della industria degli pneumatici Usa» determinata dai prodotti a minor costo provenienti dalla Cina. La misura difensiva consisterà in una pesante imposizione doganale, del 35% nel primo anno e con un decalage nei successivi: 30% il secondo e 25% per il terzo anno. Si tratta di un dazio che si sommerà all'attuale, limitato al 4%. Dietro la mossa dell'amministrazione Obama c'è il dispetto per l'andamento del settore industriale nazionale e c'è anche la rivendicazione dell'organizzazione sindacale metalmeccanica: le importazioni di pneumatici sono triplicate dal 2004, con gli inevitabili effetti di chiusura di fabbriche americane e con la perdita di 5.100 posti di lavoro. La Usw (United Steelworkers) ha festeggiato la decisione di Obama. immediatamente

Liberazione 13/09/2009, pag 6

Chavez fa un favore a Putin e riconosce Abkhazia e Ossezia

Per la stampa, sarebbe la contropartita all'aiuto per l'arsenale voluto da Caracas

Con una mossa a sorpresa, il presidente venezuelano Hugo Chavez ha annunciato ieri nel suo incontro con il leader del Cremlino Dmitri Medvedev il riconoscimento dell'Abkhazia e dell'Ossezia del sud. Dopo la Russia e il Nicaragua, Caracas diventa così il terzo paese a legittimare l'indipendenza delle due regioni georgiane separatiste, ad un anno dalla guerra tra Mosca e Tbilisi.
Il Cremlino, rimasto finora isolato su questo fronte anche dagli ex partner sovietici, incassa un nuovo successo diplomatico nel lontano Sudamerica, sempre più nuova frontiera dell'espansionismo energetico russo, come confermano gli accordi in materia firmati oggi. «Il Venezuela da oggi si unisce al riconoscimento dell' Ossezia del sud e dell'Abkhazia», ha dichiarato Chavez, che ieri sera davanti ad una platea di studenti universitari a Mosca aveva accusato gli Usa di essere «il principale terrorista del mondo», un «boa che inghiotte le piccole nazioni». «Grazie Hugo», ha replicato un compiaciuto Medvedev che parla già di «relazioni strategiche» tra i due Paesi. «Non siamo indifferenti al destino di questi due Stati. Vorrei ringraziarvi per aver preso una tale decisione», ha aggiunto.
Ironico il commento di Tbilisi, che ha definito la decisione una «anomalia politica» senza «conseguenze politiche importanti», presa da una figura «marginale». Ma dietro il riconoscimento venezuelano, secondo alcuni analisti, ci sarebbe la pressione del Cremlino. Un vero e proprio baratto, dato che Caracas ha bisogno di un credito di Mosca per acquistare l'arsenale ventilato dai media: un centinaio di carri armati 100 T-72 e T-90, tre sottomarini, mezzi corazzati, elicotteri e missili.

Liberazione 11/09/2009, pag 8

"Lebanon", l'opera prima di Samuel Maoz

"Lebanon", l'opera prima di Samuel Maoz sulla guerra del 1982
Un'ora e mezza dentro a un carro armato israeliano in azione

Davide Turrini
Venezia
«L'uomo è d'acciaio, il carro armato è solo ferraglia». E' scritto sulla parete di un carro armato israeliano usato nell'82 per entrare in territorio libanese e in poche ore fare tabula rasa di abitazioni ed esseri umani. Shmulik, Assi, Hertzel e Yigal sono i quattro carristi che devono portare a compimento la missione. Ma dentro alla pancia del carro armato fa un caldo bestiale. Si suda, ci si assorda, ci si squaglia corpo e cervello, si trema. Il quarantasettenne regista Samuel Maoz fa rivivere con Lebanon , ieri in Concorso a Venezia 66, la sporca guerra che ha vissuto in prima persona dentro a quel tank. Alle sei e quindici del sei giugno 1982 Maoz ha ucciso un uomo puntando il mirino e premendo il tremolante tasto del fuoco. «Non lo feci per scelta, né perché mi era stato ordinato - ha affermato - fu un'istintiva reazione di autodifesa, dettata solo dal primordiale istinto di sopravvivenza». E il film è il racconto verosimile di quella concitata mattinata con la macchina da presa installata all'interno del cingolato e per un'ora e mezza mai spostata al di fuori. Le uniche inquadrature possibili del film sono i primi piani, dei quattro soldati. Oppure la trovata da videogame dell'obiettivo nel mirino, movimento di macchina avvolto dal fastidioso clangore della ferraglia, da metà film in avanti perfino lente crepata a seguito di un razzo lanciato contro il carro armato. Una rigidissima e singhiozzante via di fuga per l'occhio fatta di dettagli macabri e sanguinolenti (cadaveri straziati di animali e uomini, moncherini, frattaglie, macerie di case), unica possibile e imposta veduta dell'orrore della guerra. I soldati perdono subito il controllo, accecati dai rivoli di sudore, dal sangue schizzato dei compagni feriti, dall'acqua e dal vapore condensati dentro all'autoblindo. «Volevo mostrare quanto sanguinano le anime dei quattro soldati - ha dichiarato Maoz - l'esperienza di guerra gli spettatori pensano di capirla, ma non si può spiegare. Ecco perché non ho raccontato agli attori la sensazione claustrofobica e di soffocamento che si vive dentro un carro armato. Li ho invece rinchiusi in un container buio e torrido percuotendo le pareti del container con sbarre di ferro, lasciandoli bollire lì dentro per ore». Lebanon è anche una dichiarazione lampante delle nefandezze compiute dell'esercito israeliano in Libano come la strage di Shabra e Shatila, grazie all'appoggio e all'esecuzione materiale degli alleati falangisti cristiani e alle bombe al fosforo: «Quei soldati non hanno il tempo di pensare, di rispondere alla domanda se la guerra è giusta o meno: domina solo l'istinto di sopravvivenza che supera la morale e lacera la coscienza». Un'autobiografia sofferta e a lungo rimandata, che ricorda molto il processo creativo del recente Valzer con Bashir : «Mi ero già cimentato prima con il contenuto, ma ogni volta che iniziavo a scrivere, l'odore della carne umana carbonizzata riaffiorava nelle mie narici e mi impediva di continuare. Questa breve esperienza di scrittura è stata per me come un elettroshock, una scossa che mi ha risvegliato da una lunga ibernazione e ha resettato tutti i miei interruttori».

09/09/2009, pag 12

Essere migrante nell'anno della recessione

Gli effetti della crisi sul fenomeno migratorio globale in un rapporto del Migration policy institue

Meno partenze, meno rimesse, leggi più dure


Martino Mazzonis
La recessione che il mondo ha sperimentato nell'ultimo anno ha effetti ad ogni punto della scala sociale e in ogni angolo del mondo. Anche tra chi vive in villaggi lontani dalla finanza, da internet e dalle linee di comunicazione più trafficate. E per chi a questa gente manda miliardi di dollari l'anno in rimesse.
E' questo uno dei fenomeni individuati da Migration and the global recession ("Migrazioni e recessione globale"), lungo rapporto diffuso ieri dal Migration policy institute e commissionato dalla Bbc world service (quando si dice un servizio pubblico).
Se è vero che il mondo è diventato più piccolo, è altrettanto vero che questo si è molto diversificato e che gli effetti della crisi sulla popolazione migrante e sui flussi migratori cambiano a seconda del Paese di origine, di quello di arrivo e della legislazione vigente. Secondo l'Onu, il 2005 è stato l'anno in cui le migrazioni globali hanno raggiunto il loro massimo. Nell'anno appena passato, la situazione è più complicata. Il repporto del Mpi fa alcuni esempi. In Spagna e Regno Unito il numero di ingressi è calato in maniera drastica e molti lavoratori est-europei, che hanno diritto a muoversi all'interno dell'Ue, sono tornati a casa, dove reggono meglio l'eventuale disoccupazione - in Spagna il ritorno a casa vale anche per le persone provenienti dal Marocco, con il quale Madrid ha un accordo. Un esempio clamoroso è quello delle domande di ingresso in Gran Bretagna, che negli ultimi due trimestri del 2006 erano più di 120mila e nei primi due del 2009 erano poco più di 40mila.
Le storie di persone che vanno e vengono sono normali - e questo è un enorme cambiamento con la fase delle grandi migrazioni del '900. Migliaia di emigrati con alto titolo di studio cinesi e indiani tornano a casa, mentre, ricorda il rapporto, del milione e 300mila est europei passati per la Gran Bretagna a lavorare, ben 800mila sono tornati a casa. Tra l'89 e oggi molte cose sono cambiate nell'est europeo e per tanti l'esperienza migratoria è stata una fase della vita, non un cambiamento definitivo. Del resto, se non si è africani sub-sahariani diretti in Europa, per andare e tornare dall'America o dall'Europa, basta un biglietto aereo, non uno di terza classe su un bastimento. Anche i contatti con la propria terra di origine sono più facili e così è più semplice capire se e quando è ora - o è possibile - tornare a casa.
Durante una recessione, lo sviluppo del Paese di origine è un altro dei fattori che cambia tutto. La recessione ha infatti determinato un calo piuttosto significativo nell'emigrazione dall'India verso gli stati petroliferi del Golfo e dei messicani verso gli Stati Uniti (meno 40 per cento). Da una parte c'è la diminuzione della domanda di manodopera a basso costo per i lavori più duri, dall'altra lo sviluppo di due Paesi emergenti rende più facile l'opzione "rimanere a casa" quando il futuro all'estero non è promettente.
L'esempio opposto sono le FIlippine, da dove il flusso migratorio non si interrompe: nel 2008 sono partite quasi un milione e 200mila persone. Per Paesi come l'arcipelago asiatico, la cui economia è sostenuta in maniera determinante dalle rimesse, il 2009 è stato un anno duro. Per coloro che lavorano spesso in edilizia, nella ristorazione, nelle pulizie e nei servizi alla persona, l'effetto della recessione è stato pesante. Il calo delle rimesse in Moldavia è del 37 per cento. Una tragedia per un Paese che si regge per un terzo dell'economia, sui soldi spediti a casa dai lavoratori partiti per l'Europa. Per qualcuno, i soldi spediti a casa continuano ad aumentare anche quest'anno. Non basta il settore di inserimento lavorativo a spiegare il crollo delle rimesse, anche il Paese di arrivo è importante. Gli unici quattro Paesi verso cui il flusso non è calato sono Pakistan, Bangladesh, Capo Verde e Filippine e, la maggior parte dei quattrini arrivano da India e Arabia Saudita. Per chi è emigrato verso Europa e Stati Uniti (dall'est e dal Centroamerica), le cose sono andate molto peggio.
La recessione ha avuto un altro effetto importante. Va dato atto - per modo di dire - al governo italiano di non essere stato l'unico ad aver dato una stretta, il rapporto cita Paesi molto diversi tra loro che in varie forme hanno cercato di ridurre i flussi migratori: dalla Tanzania, al Kazakistan, dalla Russia, alla Corea del Sud, alla Tailandia.
Caso a parte lo fa la Cina, che con i suoi 140 milioni di migranti interni, vive un fenomeno speciale. Anche nel gigante asiatico gli effetti della crisi si sono fatti sentire: la vacanza del Capodanno cinese è il momento in cui tutti tornano nelle campagne per festeggiare. Quest'anno, molti sono rimasti a casa.

Liberazione 09/09/2009, pag 7

Studiava le gang, ucciso nel Salvador, Christian Poveda

Autore del documentario "La vida loca"

Il documentarista e giornalista francese Christian Poveda è stato ucciso mercoledì in Salvador. Cinquantatre anni, una lunga esperienza di studio e ricerca sulle bande criminali giovanili che agiscono soprattutto in Centroamerica, Poveda, secondo quanto hanno ricostruito fin qui le forze dell'ordine, sarebbe stato ucciso in una strada di Tonacatepeque, località situata 16 km a nord di San Salvador. Il suo corpo senza vita è stato trovato dentro un'auto, la morte sarebe dovuta a un solo colpo di pistola eploso da distanza ravvicinata alla testa: una vera esecuzione. Il giornalista stava tornando in macchina verso la capitale dopo avere girato delle immagini alla Campanera, un sobborgo povero e sovrappopolato, oltre che roccaforte della Mara 18, una delle più importanti gang del paese. Il presidente del Salvador Mauricio Funes ha detto di essere "scioccato" dall'omicidio e di avere ordinato un'inchiesta approfondita.
Nel piccolo paese centroamericano Poveda era diventato una sorta di simbolo e la sua morte ha avuto vasta eco sui media locali. Il giornalista era infatti arrivato una prima volta a El Salvador all'inizio degli anni Ottanta per seguire la guerra civile e vi era tornato dopo la fine del conflitto armato che aveva diviso il paese per seguire l'emergere delle bande di strada, vero flagello del paese. Le autorità stimano infatti che ci siano circa 30 mila cosiddetti "mareros" dediti alla vendita di droga, al traffico dei migranti e alle estorsioni. La Mara 18 e la rivale Mara Salvatrucha, le due principali gang del paese, hanno costruito una rete criminale con ramificazioni a Los Angeles, dove vivono molti immigrati salvadoregni e nel resto del Centroamerica.
A questa cultura criminale Poveda aveva dedicato La Vida Loca un documentario che uscirà nelle sale francesi il 30 settembre ma che aveva già fatto discutere molto in Salvador perché oltre a raccontare la vita quotidiana di diversi affiliati della Mara 18, alcuni dei quali sono stati uccisi o arrestati durante le riprese del film, critica apertamente le strategie della polizia locale e la politica degli Stati Uniti, paese dove le bande latine hanno una grande diffusione. E' in quello che Poveda aveva visto o filmato per realizzare il documentario che vanno ricercati i motivi del suo omicidio, si chiedono ora in molti nel paese centroamericano.

Liberazione 04/09/2009, pag 8

Berlusconi e il piano P2 sulla stampa

Paolo Ferrero
Prima, la querela al gruppo Repubblica-Espresso, "colpevole" di avergli posto dieci domande, dieci, sulla moralità dei suoi comportamenti privati e pubblici. Poi, quella all'Unità, e alle sue giornaliste, "colpevoli" sempre dello stesso, unico, "delitto": lesa maestà. E cioè di voler indagare e chiedere conto al premier, non tanto dei suoi vizi privati, quanto della sua assoluta mancanza di pubbliche virtù. Nel mezzo, la campagna denigratoria, volgare e offensiva condotta dal suo Giornale (di famiglia, in quanto controllato direttamente dal fratello Paolo) - dove ha richiamato in servizio Vittorio Feltri, che aveva dato il peggio di sé, in questi anni, dirigendo Libero - contro il direttore di Avvenire Dino Boffo. Campagna che è arrivata a costringere lo stesso Boffo alle dimissioni. Una campagna che aveva il chiaro obiettivo di "rimettere in riga" quella Chiesa cattolica che ha osato, in questi mesi, prendere posizioni non sempre (o, almeno, non tutte) favorevoli al governo, dal dl sicurezza ai diritti di profughi e migranti. Ecco perché, pur nella assoluta differenza di posizioni politiche e di ogni considerazione sui comportamenti personali, che non rientrano nelle nostre valutazioni, al giornale dei vescovi e al suo direttore va, oggi, la nostra piena solidarietà.
Non è una novità - e, direbbero i giornalisti, forse neppure "una notizia" - l'atteggiamento del premier nei confronti del mondo dell'informazione. Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, infatti, ha sempre avuto una concezione tutta e solo "proprietaria", nel senso classico e peggiore del termine, quello ottocentesco, dei giornali e delle televisioni. Per il premier, cioè, i media o sono "i suoi" o non devono mai disturbare il manovratore. Senza voler risalire alla notte dei tempi, e cioè all'origine del suo impero mediatico (Fininvest e, poi, Mediaset) e dunque delle sue fortune, basti ricordare un dato di fatto, ormai consegnato alla storia. Berlusconi era un membro affiliato della Loggia massonica segreta P2 di Licio Gelli, che puntava a sovvertire l'ordinamento costituzionale anche (o soprattutto) attraverso il controllo para-golpista di giornali e della Rai-tv.
E il Berlusconi della Loggia P2 è lo stesso Berlusconi che, quando l'allora già "Cavaliere nero" stava per accingersi a scendere in politica, la prima cosa che fece fu di mettere in riga i giornali (e le tv) in suo possesso. Possesso, peraltro, già allora in "flagranza di reato", visto che violava le norme della legislazione antitrust.
E ' lo stesso Berlusconi che licenziò, dalla sera alla mattina, un giornalista e uno scrittore apertamente di destra ma dalla specchiata indipendenza e libertà come Indro Montanelli.
Ed è sempre lui, Berlusconi, che, tornato al potere per la seconda volta, nel quinquennio 2001-2006, una delle prime cose che fece è il famigerato "editto bulgaro" (in quanto lanciato da Sofia, capitale della Bulgaria) contro Enzo Biagi e il suo "Fatto", Michele Santoro e il suo "Anno Zero" e, persino, contro il comico e show-man Daniele Luttazzi. Oggi, tornato nuovamente al potere, Berlusconi non ci ha messo molto per ripercorre la strada a lui più congeniale. Quella dell'intimidazione e del puro ricatto. Occupata, manu militari, la Rai attraverso il controllo del suo pacchetto azionario, Commissione di Vigilanza e cda Rai, nonostante i due presidenti siano due personalità autonome come Sergio Zavoli e Paolo Garimberti, la prima mossa del governo è stata quella di porre il servizio pubblico sotto occhiuta e odiosa tutela. La campagna elettorale alle europee - che non ha solo "cancellato" la presenza della nostra lista comunista e anti-capitalista da tutti i tg e dai principali talk-show ma che mirava, anche se vi è riuscita solo in parte, a sopprimere ogni voce politica indipendente e autonoma - ne è stato l'esempio più eclatante. Poi, con le nomine del nuovo cda Rai, tutto di fedele e stretta osservanza berlusconiana con qualche spruzzatina di An, mentre l'opposizione era confinata nel ‘recinto' Tg3, siamo arrivati alla "democratura", come direbbe il professor Sartori, e cioè al regime. Un regime che non sopporta stecche né voci "fuori dal coro", come dimostra in modo tristemente lampante il Tg1. Un telegiornale che, pur forte di riconosciute e storiche professionalità, è stato ridotto a farsi megafono del premier, sfiorando spesso il ridicolo, nel dare le notizie. Notizie che il Tg1 del "trombettiere" di Berlusconi, il giornalista Augusto Minzolini, ex "retroscenista" di fiducia del premier, tratta in un modo da far rimpiangere l'Eiar di epoca fascista e che, neanche stesse confezionando, per gli ignari telespettatori, un moderno cinegiornale Luce, glorificano le imprese del novello Duce "a prescindere".
Questo abbiamo visto accadere, sotto i nostri occhi, negli ultimi mesi e settimane, quando i palesi e giganteschi conflitti tra il governo e la Chiesa sugli sbarchi dei clandestini, i casi "Papi" e D'Addario, per non dire di tutte le conflittualità sociali scoppiate nel Paese contro il mordere della crisi ma anche contro la gestione al ribasso e ‘minimal' che ne fa il governo, sono stati derubricati a piccoli incidenti. Resta, volendo, il Tg3, ma anche lì si vive sotto costante e continua minaccia, da parte di un premier che ha eletto i suoi redattori a principale bersaglio.
Cosa dobbiamo aspettarci, ancora? Le minacce dirette, a livello fisico, dei giornalisti che ancora osano porre domande scomode, al premier? Speriamo di no ma l'emergenza democratica, oggi in Italia, è emergenza informazione. Ecco perché abbiamo deciso da subito, come Rifondazione comunista, di aderire all'appello promosso dall'associazione di giornalisti "Articolo 21", associazione - e sito omonimo (www.articolo21.info) già meritoria per mille motivi, a partire dalla campagna giustamente rigorosa e costante che svolge su un dato altamente drammatico, le morti sul lavoro. Ecco perché, nel pieno rispetto della libertà di tutti gli organi d'informazione, di tutti i giornalisti italiani e del loro autonomo e libero sindacato, la Fnsi, saremo al loro fianco, sabato 19 settembre, in questa battaglia fondamentale, decisiva fatta per avere un'informazione veramente libera.
Al premier Berlusconi, quel giorno, diremo, con tutto il fiato che abbiamo in gola, una frase molto semplice. Quella che è diventata un'icona per ogni giornalista e che viene pronunciata da Humprey Bogart in un film degli anni Trenta, L'ultima minaccia . Film dove il personaggio-giornalista Bogart fa sentire il rumore delle rotative del giornale in stampa al padrone che cerca di mettere le "mani sulla città" e controllare tutti i giornali, e gli urla: «E' la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente!».

Liberazione 04/09/2009, pag 1

Film siriano vietato in patria al festival di Abu Dhabi

Il film siriano Una lunga notte , bandito nelle sale della Siria, parteciperà come unica opera del Paese al Middle East Film Festival (Meiff). Lo rende noto un articolo apparso ieri sul sito Middle East Online. La visione del film è stata impedita poichè affronta la spinosa questione del trattamento dei prigionieri politici e dei dissidenti siriani. Una lunga notte , il cui regista è Hatem Ali, ha partecipato al Taormina film festival, lo scorso giugno, vincendo il prestigioso Tauro d'oro. Il Meiff che è alla sua terza edizione ed è organizzato dall'Autorità per la cultura ed il patrimonio artistico di Abu Dhabi, si terrà dall' 8 al 17 ottobre prossimo nella città emiratina.

Liberazione 02/09/2009, pag 9

Ferrero: «Accordo d'opposizione, anche con l'Udc»

«Facciamo cadere Berlusconi, poi il voto». Bertinotti: «I cervelli sociali si devono unire e creare dissenso»

Carlo Magi
Ulivo sì, Ulivo no la scelta infinita. L'esito delle elezioni regionali tedesche interroga la sinistra italiana, dandole almeno un pò di verve nella pazzia mediatica fra sparate di Berlusconi e gossip a go-go. La Linke di Lafontaine potrebbe diventare determinante per il futuro della Grosse Koalition che regge da anni sul delicato equilibrio fra la sua componente centrista e quella più socialista. Sembrerebbe un pò la situazione italiana, tanto che adesso sono gli stessi politici tedeschi ad invocare un'unione che segua il modello dell'Ulivo di Prodi.
E da noi? Alla vigilia di un congresso Pd la cui novità più interessante sarà con chi vorrà allearsi il nuovo segretario, l'asse Prc-Pdci e la neonata Sinistra e Libertà come intendono muoversi? «Io propongo una federazione di tutto ciò che sta a sinistra del Pd, che sia anticapitalista, vicina alla Cgil e che combatta le peggiori politiche neoliberiste» ha detto ieri il segretario del Prc, presente alla festa nazionale del Pd a Genova. Ferrero ha delle proposte da fare al Pd: «Facciamo, anche con l'Udc, un "accordo d'opposizione" per far cadere Berlusconi. Poi nell'arco di un anno serve fare un governo per una legge elettorale nuova sul modello tedesco e una legge che vieti il conflitto di interessi. Poi torniamo alle urne». Prima di questo però ci sono le elezioni regionali e là «dove c'è un governo unitario, come in Toscana dove sono state fatte buone cose, se il Pd vuole a noi sta bene continuare. Ma nessuna alleanza con l'Udc, soprattutto in quei casi, come in Piemonte con Vietti, dove l'Udc vorrebbe privatizzare la sanità». Al segretario del Prc è stato chiesto poi di indicare una preferenza per il prossimo segretario democratico: «Fra Bersani e Franceschini non è che veda grandi differenze sulle politiche economiche e sociali. Sul sistema elettorale preferisco Bersani che è contro il bipolarismo e a favore del sistema tedesco». Alla stessa festa è intervenuto anche l'ex segretario del Prc Fausto Bertinotti, che sul come uscire dalla "lunga notte" ha un'idea diversa da Ferrero: «La sinistra è in coma e in Italia non c'è nessuna Linke» e quindi la vecchia convinzione delle due sinistre va rivista: «Le due sinistre si sono sciolte con la fine del ciclo della globalizzazione, adesso serve una sola sinistra che vada oltre gli schieramenti e che sia capace di intercettare l'aerea di discontento per questo regime leggero». Bertinotti non usa più la parola "movimento" ma dice che «tutti quei cervelli sociali, dagli operai arrabbiati perché perdono il lavoro ai migranti minacciati dalle politiche di questo governo, dalle donne offese dalla considerazione di loro che ha Berlusconi, agli intellettuali allo sbando, devono essere coesi e solidali fra di loro per creare dissenso».
Massimiliano Smeriglio (Sinistra e Libertà) ha invece un altro approccio alla questione: «Un'affermazione come quella della Linke in Italia la vedo improbabile, perché a sinistra del Pd - e un pò anche dentro il Pd - c'è una mancanza assoluta di identità e l'incapacità dei gruppi dirigenti di dotarsi di una visione che vada oltre il contingente. Sono molto contento per i fratelli tedeschi, ma noi siamo immersi in una crisi difficile da superare. Autorevoli esponenti della sinistra sono attendisti. Guardare con attenzione al congresso Pd è giusto ma noi non siamo il Pd, siamo un'altra cosa. Il problema è nostro, c'è uno spazio politico e noi regaliamo voti a un partito giustizialista come l'Idv. La strada sarà lunga, ma mancano idee e la capacità di stare dentro la contemporaneità».

Liberazione 02/09/2009, pag 6

Ritratto di un dittatore "democratico"

Muahmmar Abù Minyal Al Qaddafi, meglio conosciuto come Gheddafi

Stefano Galieni
Basta guardare la banconota da 10 dinari (circa 6 euro) per comprendere l'immagine che Muahmmar Abù Minyal Al Qaddafi, meglio conosciuto come Gheddafi, si ostina a voler trasmettere ai cittadini libici. Sulla banconota sono raffigurati gran parte dei leader africani e arabi, viventi e no, da Arafat a Mandela. Al centro, vestito nel tradizionale costume nomade, c'è lui,il Colonnello che da 40 anni esatti governa il Paese, le braccia aperte e il sorriso benevolo di un padre affettuoso e accogliente. Chissà cosa pensano, nel vedere quella banconota, i tanti migranti e richiedenti asilo provenienti dall'Africa profonda che assaporano sin dall'ingresso nel paese la durezza del regime.
Gheddafi è un personaggio controverso, capace in 40 anni di un pragmatismo cinico che lo ha portato a stringere e rompere alleanze, a costruirsi nuove identità sopravvivendo a se stesso e portando il Paese a divenire una potenza non solo continentale.
Nato il 7 giugno del 1942 a Sirte, entra presto nella scuola ufficiali. La Libia, ufficialmente indipendente è governata dalla monarchia di Re Idris ma le sue risorse erano ancora nelle mani delle potenze coloniali. Tra la fine degli anni 50 e i primi anni 60 il pensiero socialista e nazionalista di Nasser è il punto di riferimento per chi reclama il cambiamento. Fra il 26 agosto e il 1 settembre del 1969 un gruppo di 12 ufficiali che si autodefinisce "Consiglio del Comando Rivoluzionario" prende il potere: «Voi che siete stati testimoni della sacra lotta di Omar al Mukhtar per la Libia per l'arabismo e per l'islam. Voi che avete combattuto al fianco di Ahmed Al Sharif, per un giusto ideale, voi figli del deserto, delle nostre antiche città, voi figli delle nostre verdeggianti campagne dei nostri ridenti villaggi: l'ora del lavoro è giunta. Avanti dunque». Recita il primo comunicato degli insorti che trasformano così un golpe in una rivoluzione. Il ruolo del giovane colonnello di 27 anni è determinante ma quello che gli fa acquisire peso politico è legato a una serie di riforme strutturali che stravolgono l'economia e la società libica. Un paese che nella storia non esiste - le tre regioni Tripolitania, Cirenaica e Fezan- di fatto non avevano ancora alcuna struttura accomunante - vengono coinvolte in un processo di modernizzazione che non è erroneo definire "di stampo Giacobino". Raddoppiano i salari minimi, si nazionalizzano le industrie e le risorse, si dimezzano le rendite. Il 7ottobre del 1970 ( giorno della vendetta) vengono espropriati i beni degli italiani rimasti dopo la perdita delle colonie. Agli italiani viene fatto obbligo di andarsene. Negli anni successivi il ruolo di Gheddafi diviene sempre più visibile, sia nelle scelte di politica estera con i tentativi di realizzare forme di unione con gli altri stati rivieraschi - Egitto e Siria nel 1972, Tunisia nel 1974, Marocco nell'1984 - sia nella realizzazione di una nuova forma statuale. E' del 2 marzo 1977 la proclamazazione della Grande Jamàiryya Democratica e Socialista, nuovo nome dello stato. L'idea è quella di una democrazia diretta in cui potere esecutivo e legislativo non siano separati fondata su un meccanismo piramidale, dai Comitati Rivoluzionari territoriali fino alla "Guida della rivoluzione". Tra il 1976 e il 79 escono i tre volumi del "Libro Verde", una "terza via" fra Comunismo e Capitalismo che, stampati anche in occidente, riscuotono interesse tanto nella sinistra radicale quanto nella destra post fascista. Negli anni migliora la qualità della vita per i cittadini libici, grazie anche ad una attenta politica di utilizzo delle risorse petrolifere di cui il Paese è ricco, e cresce il prestigio di Gheddafi. E pensare che nel 1972 i Servizi Segreti Britannici descrivevano il Colonnello come un leader in preda alla schizofrenia e alla depressione, prossimo al suicidio.
I tentativi panafricani di Gheddafi falliscono miseramente, anche per quello che riguarda la questione centrale per l'area, quella palestinese, il comportamento libico resta perennemente ambiguo. Da una parte il sostegno ufficiale e proclamato all'OLP di Arafat, dall'altra i cospicui finanziamenti ai gruppi radicali che non accettano alcuna possibilità di interrelazione con Israele. Il regime si trova isolato negli anni Ottanta, per gli U.S.A. di Reagan, Gheddafi è il "Cane Pazzo", dittatore di uno "Stato canaglia", finanziatore di gruppi terroristici antiamericani in tutto il mondo. Il 15 aprile del 1986 Gheddafi, che dormiva e dorme ogni notte in una tenda diversa, sia per ragioni di immagine sia di sicurezza, viene attaccato militarmente. Perde una figlia adottiva, si salva, pare, perché avvisato in tempo da Craxi e Andreotti. L'attentato ad un aereo di linea che porta alla morte di centinaia di innocenti sul cielo di Lockerbie, Scozia, è attribuito ai libici, al rifiuto di consegnare i presunti attentatori scatta l'embargo che chiude totalmente i rifornimenti alla Libia. Ma la svolta è rapida, Gheddafi condanna nel '90 l'invasione del Irakena Kwait e nel 92 fa consegnare gli attentatori alle autorità britanniche. La rottura dell'embargo avviene mentre si va rapidamente modificando la stessa società libica. Gheddafi smessa la divisa militare si presenta sempre più come il solo difensore dell'islam - nel frattempo la resistenza integralista viene debellata con la stessa brutalità con cui in passato erano stati eliminati gli altri dissidenti - il paese si apre alla modernizzazione, al turismo, alle privatizzazioni. La Jamahiryya di oggi è uno Stato senza amministrazione reale, senza partiti politici e forze sociali organizzate, in cui 5 milioni di persone si contendono un discreto livello di benessere facendolo pagare ai tanti lavoratori stranieri e privi di diritti presenti nel paese, almeno 2 milioni. Un paese in cui diminuiscono i diritti delle donne ma che contemporaneamente si sta dotando di un ceto medio e in cui si sta formando una nuova classe dirigente. Un paese e un leader che governano col cinismo più assoluto utilizzando anche migranti e richiedenti asilo come arma per rapportarsi con l'occidente e che ha ricostruito un rapporto di affari e di interessi con l'Italia - primo partner economico - uniti dall'identico cinismo.

Liberazione 30/08/2009, pag 2

L'accordo fra Roma e Tripoli e la diplomazia degli affari

Il Cavaliere erede del "pragmatismo" di Craxi

L'accordo di "Amicizia" fra Italia e Jamahiryya, entrato in vigore con l'attuale governo, è in realtà il frutto di un lungo percorso diplomatico, una relazione con il regime libico mai interrottasi, anche durante gli anni dell'embargo, mantenuta dal pragmatismo di Andreotti prima e di Bettino Craxi poi, e fatta anche di scambi economici e finanziari. Ma il nesso stretto fra accordi economici e militari con il "contrasto all'immigrazione clandestina" inizia con il governo Dini. Spesso si tratta di decisioni informali, prese fra i rispettivi capi della Polizia e dei ministeri dell'interno, mai rese pubbliche, mai controfirmate in Parlamento. Il regime libico da sempre ha rivendicato il diritto al risarcimento dei danni causati dal colonialismo italiano, brandendo da una parte l'opportunità di un prezzo agevolato per gli idrocarburi nonché commesse per le grandi imprese italiane in grado di realizzare le opere infrastrutturali di cui la Libia necessita, dall'altra il ricatto di decine di migliaia di richiedenti asilo, profughi, migranti economici, che dalle coste del paese africano potrebbero essere spinte verso l'Italia.
Un cinismo che ha pagato: l'accordo di "Amicizia, partenariato e cooperazione" si ispira alla reciproca volontà di "costruire pace nel Mediterraneo" ed è suddiviso in 23 articoli che individuano le politiche generali. Nei primi si richiama al rispetto della legalità internazionale (sic), all' "Eguaglianza sovrana" (rispetto reciproco) all'affermazione che nessuna delle due parti stipulanti utilizzerà mai la forza contro l'altra per risolvere eventuali controversie. Tale articolo ha creato non pochi problemi nell'alleanza Nato in cui non è forte la fiducia verso Gheddafi.
Ci si impegna poi a non interferire negli affari interni reciproci, spuntando così qualsiasi spazio diplomatico per poter intervenire per il rispetto dei diritti umani, soprattutto verso migranti e profughi detenuti. Le parti poi, di comune accordo, agiscono conformemente alle rispettive legislazioni, agli obiettivi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, (ovviamente la Libia non è chiamata a ratificare la Convenzione di Ginevra). Il Capitolo di "Chiusura del passato e dei contenziosi" poggia su un impegno finanziario italiano per 5 miliardi di dollari da erogare in 20 anni. Risorse per infrastrutture - il sogno della grande autostrada da Tunisi a Il Cairo - che verranno realizzate da aziende italiane. I fondi per la loro messa in essere verranno gestiti dalle aziende italiane che avranno a disposizione terreni, materiali, procedure doganali agevolate, energia elettrica e idrica a basso costo. Viene costruita a proposito una commissione mista incaricata di vagliare i lavori e comitati misti per definire programmi speciali come borse di studio in Italia, cure per i feriti da mine coloniali, la restituzione dei beni sottratti durante il colonialismo, la realizzazione di unità abitative.
In cambio è restituita ai cittadini italiani espulsi nel 1970 la possibilità di avere un visto di ingresso per la Libia. Un'altra struttura apposita, legata ai rispettivi ministeri degli affari esteri sarà il Comitato di partenariato che, attraverso continue consultazioni politiche dovrebbe dare prospettive di lungo termine agli accordi. Dall'articolo 16 si cominciano a definire gli ambiti di cooperazione: scientifica, culturale, economica e industriale, energetica - su questi ultimi si giocano gran parte degli interessi italiani - e la «collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all'immigrazione clandestina».
In un unico articolo (19) sono riunite, nello stesso ordine degli accordi con il governo Dini, le emergenze comuni, con in più l'impegno italiano a provvedere con il 50% dei costi (il resto spetterà all'Ue) al controllo elettronico delle frontiere terrestri libiche. Sono inoltre previste iniziative bilaterali verso i paesi di provenienza dei migranti per scoraggiare gli ingressi. La collaborazione nel settore militare - scambio di missioni di esperti, istruttori e tecnici, informazioni militari - viene posta sullo stesso piano delle iniziative di collaborazione nel settore della non proliferazione e del disarmo.
Un testo apparentemente innocente ma che se da una parte porta ad ammettere i crimini coloniali, dall'altro definisce bene la centralità della diplomazia degli affari. I 5 miliardi di dollari di indennizzo ricadranno sulle bollette energetiche mentre aziende italiane avranno la possibilità di accrescere i profitti. L'importante sarà voltare lo sguardo dall'altra parte quando da qualche carcere o centro di detenzione libico si sentiranno le urla di chi paga con la propria vita questo straordinario business per pochi.
S.G.

Liberazione 30/08/2009, pag 3

Nasce NaqaTube

Il sito islamico sarà alternativo a Youtube

Nasce l'alternativa islamica per i fedeli musulmani offesi dalle immagini troppo promiscue di YouTube, la piattaforma di video sharing più nota in Occidente. Si chiamerà NaqaTube, sito web appena lanciato in Arabia Saudita sul quale i sudditi di re Abdullah potranno caricare e guardare i loro video preferiti, certi di non contraddire le sensibilità morali-religiose e gli standard culturali del regno. La nuova piattaforma virtuale, come spiegano i suoi creatori al quotidiano Arab News Daily, ospiterà clip di YouTube precedentemente editati da censori che taglieranno le immagini giudicate di cattivo esempio per i cittadini sauditi. In linea con i principi wahhabiti seguiti dal governo della monarchia araba, su NaqaTube saranno vietati musiche e immagini di donne.

Liberazione 28/08/2009, pag 11

Dall'Olanda all'Albania, le mafie internazionali cercano nuovi business

Arresti e operazioni di polizia non fermano l'espansione degli intrecci

Gemma Contin
Prima notizia: Gianluca Racco, trent'anni, affiliato alla cosca di Siderno, inserito nell'elenco dei cento latitanti più pericolosi d'Italia, è stato arrestato venerdì in Olanda, in un quartiere alla periferia di Amsterdam.
Per Nicola Gratteri, procuratore aggiunto alla Dda di Reggio Calabria, si tratta di un'operazione importante, nata dai rapporti di forte collaborazione che dopo l'eccidio di Duisburg si sono instaurati tra la magistratura antimafia italiana e le autorità di polizia di tutta Europa.
Operazione che rivela, dice Gratteri, «la dimensione sempre più internazionale assunta dalla 'ndrangheta, con molti latitanti che vivono in Olanda, Germania, Spagna e da qualche tempo anche nel sud della Francia».
Secondo notizia: ieri notte in un raid in mare, nel canale tra l'Albania e Otranto, unità aeronavali della Guardia di Finanza pugliese hanno intercettato un gommone da diporto che procedeva ad alta velocità. A bordo c'erano quattro persone che stavano trasportando 316 chili di droga: hashish, marijuana e pasta base per la preparazione di eroina. Stupefacenti destinati alle cosche italiane per lo smercio sul territorio nazionale e forse per essere avviate alle piazze europee. L'imbarcazione procedeva a luci spente e stava cercando di raggiungere la costa salentina.
Sono solo le ultime due notizie di una lunga serie di operazioni, intercettazioni, arresti e indagini che stanno scoperchiando il pentolone ribollente delle cosiddette "mafie allogene", della dimensione internazionale delle mafie nostrane, del carattere transnazionale delle grosse operazioni che riguardano non solo il narcotraffico, o il traffico delle armi, o quello delle merci taroccate che arrivano a tonnellate nei porti di Napoli e Gioia Tauro chiuse in migliaia di containers, provenienti soprattutto dalla Cina e dal sudest asiatico, che nessuno riesce a controllare, ma ancor di più il traffico di essere umani, uomini donne e bambini, e soprattutto del gran giro delle movimentazioni finanziarie che spostano "virtualmente", senza neppure bisogno di maneggiare il denaro, i proventi criminali da un conto all'altro, da un paradiso fiscale all'altro, da un continente all'altro. Come raccontava dieci anni fa Nicola Calipari nella sua indagine sulla 'ndrangheta australiana, che da Griffith e Canberra faceva arrivare i versamenti sui conti correnti di banche calabresi intestati a sodali e parenti.
Ora la Direzione investigativa antimafia dedica al fenomeno delle "organizzazioni criminali allogene" un lungo capitolo, molto dettagliato. Ma cosa sono, e da dove provengono le mafie straniere che sono presenti a vario titolo, e con diversi ambiti operativi e dislocazioni geografiche, sul territorio italiano, o che con il nostro Belpaese e la sua criminalità organizzata intrattengono consistenti "business"?
La Dia elenca la mafia albanese, cinese, romena, nigeriana, sudamericana, maghrebina e nordafricana, russa, bulgara e rom, quest'ultima specializzata nell'organizzazione di furti e rapine in appartamento, nello sfruttamento di minori nell'accattonaggio ma anche nelle estorsioni, l'usura, il riciclaggio. Vediamole a una a una, non senza aver chiarito preliminarmente che qui si parla di organizzazioni criminali, e si vuole tenere fermo il fuoco sulla mafia nelle diverse componenti con cui è presente, opera e si caratterizza in Italia; e non si parla invece, né deve essere fraintesa alcuna traslazione che riguardi le comunità, i gruppi etinici o i popoli e i paesi di provenienza; esattamente come non ci può mai essere alcuna traslazione tra le mafie locali e le popolazioni o gli abitanti delle corrispondenti regioni e città del Mezzogiorno.
A proposito della mafia albanese la Dia scrive: «I riscontri confermano la pervasività della criminalità organizzata albanese, strutturata in sodalizi dediti al traffico internazionale di stupefacenti e allo sfruttamento della prostituzione, capeggiati da soggetti dimoranti nella madrepatria, dove vengono normalmente reinvestiti i proventi delle attività illecite».
Nel 2008, a carico della mafia albanese, ci sono 148 persone segnalate per rapina, 70 per estorsione, 35 per associazione per delinquere, 14 per riciclaggio, 6 per incendi, 264 per danneggiamenti, 53 per produzione traffico e spaccio di stupefacenti, 64 per sfruttamento della prostituzione e pornografia minorile. Le città in cui sono state condotte le più significative operazioni di contrasto sono Monza, Cremona, Pescara, Milano, Bologna, Verona. Ma la Dia scrive che le attività della mafia albanese riguardano soprattutto Liguria, Lombardia, Piemonte, Veneto, Abruzzo, Emilia Romagna, Toscana, Campania e Puglia. Infine, «per quanto riguarda le sinergie con le realtà mafiose endogene, viene confermato il collegamento storicamente consolidato con la 'ndrangheta».
Sulla mafia cinese , la Dia scrive che «nel panorama complessivo degli insediamenti stranieri in Italia, la comunità cinese occupa una posizione di rilievo per le elevate capacità di inserimento nel contesto economico e imprenditoriale. Forti delle loro tradizioni e della radicata tendenza all'emigrazione, i cittadini cinesi hanno infatti intrapreso percorsi produttivi e commerciali spesso coronati da successo stabilendo consolidate reti internazionali di rapporti, e hanno sviluppato attività produttive estremamente competitive e remunerative nei settori della ristorazione, dell'abbigliamento, dell'import-export di prodotti artigianali, dell'alberghiero e del turismo, facendo ampio ricorso a connazionali clandestini, sfruttati come forza lavoro e obbligati a prestare la loro opera in un regime di violazione delle normi fiscali e in materia di tutela del lavoro».
Pochissimi nel 2008 i casi di cinesi segnalati per reati: appena 8 persone accusate di rapina, 11 di estorsione, 12 di associazione per delinquere, 5 di riciclaggio, 37 di danneggiamento, 6 di produzione e traffico di stupefacenti, 195 di sfruttamento della prostituzione e pornografia minorile, 162 persone infine sono state accusate di contraffazione di marchi e prodotti industriali. Le regioni di penetrazione preferite dai cinesi sono Emilia Romagna, Lombardia, Campania, Lazio, Veneto e Toscana.
Di tutt'altro livello di crimine organizzato si tratta quando si parla di mafia romena , che nel 2008 ha accumulato 3 persone segnalate per attentati, 246 per rapine, 147 per estorsioni, 80 per associazione a delinquere, 33 per riciclaggio, 9 per incendio, 753 per danneggiamento, 129 per sfruttamento della prostituzione e pornografia minorile. Trieste, Mantova, Udine, Monza, Cremona, Torino, Genova e Bologna le città e le province preferite dai romeni.
Per quanto concerne la mafia nigeriana la Dia scrive che «il nord Italia si conferma quale polo privilegiato di attrazione per le forme delittuose di tipo associativo, con particolare riferimento alla Lombardia, al Piemonte e al Veneto, seguite dall'Emilia Romagna e dal Lazio». I delitti sono soprattutto quelli di sfruttamento della prostituzione anche minorile, un vero e propio monopolio, come peraltro ha scritto in un bellissimo libro sulle donne africane Laura Maragnani, che «viene consuetamente gestito inauna situazione di accordi di pacificazione con la criminalità endogena insistente sul territorio, mentre permane il ricorso a minacce e violenze per l'assoggettamento delle vittime».
La mafia sudamericana invece si occupa soprattutto di «importazione della cocaina e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, che costituiscono le forme principali delle attività illegali dei cittadini sudamericani e dell'area caraibica, operanti principalmente in Lombardia e in Liguria».
Pericolosissima e diffusa anche la mafia maghrebina e nordafricana , che nel 2008 ha avuto segnalazioni a 8 persone per attentati, 1055 per rapine, 239 per estorsioni, 136 per associazione a delinquere, 63 per riciclaggio, 32 per incendio, 1427 per danneggiamento, 110 per produzione traffico e spaccio di stupefacenti, 48 per sfruttamento della prostituzione e pornografia minorile, 82 per contraffazione di marchi e prodotti industriali.
Ancora agli esordi risulta la mafia russa , molto cauta e guardinga, più annidata nel business "legale" della ristorazione e del turismo, degli approvvigionamenti energetici, della compravendita di immobili e del gioco d'azzardo. Le persone segnalate dalla Dia nel 2008 sono pochissime: 2 per rapina, 3 per estorsione, 11 per associazione a delinquere, 1 per riciclaggio, 22 per danneggiamenti, 1 per produzione e traffico di stupefacenti, 1 per sfruttamento della prostituzione, 1 per contraffazione di marchi industriali.

Liberazione 23/08/2009, pag 6

Tutti contro il colonello, ma tutti pronti a fare affari

Sdoganata dalle diplomazie occidentali, oggi la Libia fa shopping in Europa

Simonetta Cossu
Tutti contro il colonnello, ma tutti pronti a firmare affari con Muhammar Gheddafi. La retorica e la doppiezza dei governi europei di fronte al leader libico ha dell'incredibile. C'è chi parla di realpolitik, chi di necessità. Ma l'unica verità è che oggi la Libia è un paese con a disposizione un sacco di soldi e li vuole spendere e chi compra forse è più spegiudicato del venditore. Sospetti terroristi liberati, stragi di innocenti davanti alla propria porta di casa? Non contano. Come non contano i diritti umani, la libertà e l'uguaglianza.
E sono tanti in Italia ad aver fatto affari con il collonello libico. A guidare la pattuglia sono tre big: Eni, Finmeccanica e Enel. L'Eni è in Libia dal 1959 dai tempi di Enrico Mattei. Oggi pompa dai pozzi petroliferi libici più di 250mila barili al giorno, in pratica il 30% di quanto importiamo. Anche il 12%del gas che compriamo arriva dalle stesse sponde da cui partono i barconi della disperazione. Ma chi gongola di più è l'industria bellica italiana che dopo la ratifica del trattato di cooperazione italo-libico potrebbe fare en plein. All'articolo 20 del Trattato si prevede infatti "un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari", nonché lo sviluppo della "collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate", mediante lo scambio di missioni di esperti e l'espletamento di manovre congiunte (anche se è dal 2001 che le marine militari di Italia e Libia effettuano annualmente l'esercitazione "Nauras" nel Canale di Sicilia).
Per non parlare delle opere "compensatorie" dei crimini coloniali italiani in base al quale sono previsti cantieri per 5 miliardi di dollari da realizzare in Libia nei prossimi 20 anni. Il Trattato di cooperazione Italo-libico prevede espressamente che saranno le aziende italiane a realizzare i progetti infrastrutturali.
Intanto il capitale libico fa incetta di pacchetti azionari delle maggiori società italiane. Acquisito il 4,9% di Unicredit, la Central Bank of Libya starebbe per rilevare una quota tra l'1 e il 2% di Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale. I libici starebbero pure per fare ingresso in Impregilo, il colosso delle costruzioni italiane, general contractor per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, del Mose di Venezia e di importanti tratte della TAV ferroviaria. I libici punterebbero ad acquistare circa il 5% del capitale, ottenendo pure un posto nel consiglio d'amministrazione d'Impregilo. In Libia, del resto, il gruppo italiano ha costituito qualche mese fa una joint venture per realizzare tre università nelle città di Misuratah, Tarhunah e Zliten (valore del contratto, 400 milioni di euro).
Ma non è solo l'Italia la nuova preda del colonello. La strategia è semplice: investire per fare soldi e per condizionare quando c'è ne bisogno le scelte economiche e politiche. Un esempio eclatante di questa strategia i recenti casi in Svizzera e Gran Bretagna.
La Sivezzera il 15 luglio 2008 ha arrestato in un albergo di Ginevra il figlio Hannibal Gheddag e la moglie incinta dopo la denuncia di due domestici per maltrattamenti. Due giorni di cella e poi il rilascio su cauzione. I due dipendenti hanno poi ritirato la denuncia e tutto è stato archiviato. Ma non per la Libia. Chiusi gli uffici libici delle multinazionali svizzere, come Nestlè e Abb. Chiusi i rubinetti del petrolio e del gas, mentre due uomini d'affari elvetici sono di fatto ostaggi del regime e non possono lasciare la Libia. E dulcis in fondo ha ritirato dai forzieri delle banche elvetiche 7 miliardi di depositi che ora stanno afflunedo in Italia, Spagna e Gran Bretagna. Per correre ai ripari il presidente della Confederazione Hans-Rudolf Merz si è precipitato a Tripoli e ha chiesto scusa per gli arresti "ingiustificati".
Il caso britannico va oltre. Sono veramente pochi coloro che possano pensare che la Scozia avrebbe potuto mettere in libertà il sospettato terrorista condannato per l'attentato di Lockerbie. La sua libertà è lastricata di contratti e trattati firmati a fine dell'anno scorso tra il governo britannico e libico. Accordi che vanno da quelli fiscali, contratti civili e commerciali e anche di trasferimento di prigionieri. Il fatto che siano stati tutti firmati in contemporanea, fa notare il quotidiano britannico Times significava che erano collegati fra loro. A marzo il ministro della Giustizia Jack Straw scrisse al presidente della commissione per i diritti umani del parlamento e lo sollecitava a ratificare i quattro trattati in contemporanea altrimenti «la «Libia potrebbe mettere in dubbio la nostra volontà a concluderli».
E a proposito di automatismi il giorno prima della libertà di Megrahi la compagnia British Petroleum ha annunciato che era alla ricerca di partner per iniziare le trivellazioni nel bacino di Ghadames, accordo siglato con i libici l'anno precedente per 1 miliardo di sterline. Ma non solo petrolio. E' di ieri l'annuncio che Tripoli si prepara ad investire milioni di sterline nel mercato immobiliare londinese. E questo è solo la punta di un iceberg. Spagna, Francia e Germania hanno tutte sottoscritto accordi bilaterali.
Ironia: il nuovo colonizzatore dell'economia e finanza europea è un ex colonia.

Liberazione 26/08/2009, pag 4

E per la morte in cella di Niki rogatoria da San Marino all'Italia

Trovato senza vita in circostanze non chiare nel carcere di Sollicciano

Daniele Nalbone
Caso diplomatico fra San Marino e Italia: un Segretario di Stato chiama, un Ministro non risponde. Ovviamente non ci riferiamo al titolare del ministero dell'economia, Giulio Tremonti, sempre attento ai rapporti con il suo alter ego sammarinese, Gabriele Gatti, ma al Guardasigilli Angelino Alfano e alla sua mancata risposta alla rogatoria internazionale presentata dal Tribunale Commissariale della Repubblica di San Marino sulla morte di Niki Aprile Gatti, avvenuta nel carcere di Sollicciano il 24 giugno 2008.
Evidentemente il ministro della Giustizia italiano è troppo preoccupato a trovare i due miliardi di euro necessari per la costruzione di diciassette nuovi istituti penitenziari per rispondere a chi chiede lumi sulla morte dell'allora ventiseienne informatico abruzzese che lavorava a San Marino e arrestato per sospetta truffa telefonica in un'inchiesta che riguarda decine di società "di 899".
Da Palazzo Piacentini e da Firenze, tribunale italiano di competenza per il caso Aprile Gatti, tutto tace: a nulla sembrano valere tanto l'interrogazione parlamentare presentata lo scorso 20 aprile dall'on. Annapaola Concia, il cui iter risulta tutt'ora in corso, quanto la rogatoria internazionale presentata dal Segretariato di Stato alla Giustizia di San Marino.
Lunedì scorso il Governo sammarinese ha indetto una conferenza stampa per difendersi da quelli che considera «gli attacchi mediatici» dei giornali, sammarinesi e italiani, in tema di economia e giustizia «che dipingono la nostra Repubblica con tinte da tragedia, creando ingiustificati allarmismi e dando un'immagine fuorviante»: scudo fiscale e rogatorie internazionali al centro della polemica, quindi.
Riguardo ai rapporti con il Governo Berlusconi, nulla di nuovo è affiorato da quel "Porto delle Nebbie" che si erge in cima al Monte Titano: le trattative fra il ministro Tremonti e il Segretario di Stato alle Finanze, Gabriele Gatti, proseguono «ed entro settembre» spiegano i vertici del governo sammarinese «si giungerà alla firma degli Accordi in campo finanziario e del Protocollo di modifica di quello contro le doppie imposizioni fiscali».
Ma quando a prendere la parola è stato il Segretario di Stato alla Giustizia, Augusto Casali, ai giornalisti più vigili non può essere saltato un passaggio chiave, un caso concreto che dovrebbe far gridare allo scandalo: quello relativo al caso di Niki Aprile Gatti.
Dopo gli innumerevoli attacchi dei governi italiani a Reggenti di San Marino che troppo spesso hanno mancato di rispondere alle rogatorie internazionali, nel caso di Niki le parti si sono rovesciate: a chiedere spiegazioni, in questo caso, è il Governo sammarinese. A tacere, quello italiano.
Niki Aprile Gatti lavorava come informatico per un gruppo di aziende coinvolte nell'inchiesta "Premium", uno dei tanti casi di truffe telefoniche sull'asse San Marino - Italia - Londra. Decine le società incriminate con sede nel Regno Unito, quattro quelle sammarinesi (Oscorp Spa, Orange, OT&T e TMS), una quella italiana, la Fly Net di Piero Mancini, presidente dell'Arezzo Calcio.
Fra le diciotto persone arrestate fra il 19 e il 21 giugno 2008 nella retata ordinata dai pm fiorentini Canessa e Monferini c'è anche Niki che, pur incensurato, sarà tradotto nel carcere di Sollicciano per essere sottoposto a custodia cautelare.
La mattina del 24 giugno, quindici ore dopo aver deposto ed essersi dichiarato pronto a rispondere a qualsiasi domanda dei magistrati sull'inchiesta Premium verrà trovato impiccato in cella. Per tutti è suicidio. Ma non per la madre, Ornella Gemini: troppo forte l'amore di Niki per la vita, per sua madre e il suo fratellino ma soprattutto troppe le incongruenze fra l'autopsia e la perizia medica di parte. Eppure qualcuno, in tutta fretta, vorrebbe archiviare questo caso.
Ma dopo la conferenza stampa degli esponenti del Governo sammarinese, oltre un anno dopo l'inizio della lotta per la verità, questa "madre coraggio" ha raggiunto un piccolo ma significativo risultato: le indagini, nonostante la richiesta del Tribunale di Firenze di archiviazione, stanno continuando. E tutto grazie all'impegno di Ornella e a una sua lettera indirizzata ai Capitani Reggenti e pubblicata, a fine maggio, dal quotidiano L'Informazione di San Marino .
Da quel giorno sul monte Titano qualcosa si è mosso: in conferenza stampa il Segretario di Stato alla Giustizia, Augusto Casali, ha portato proprio il caso di Niki come esempio di mal funzionamento del sistema delle rogatorie internazionali sull'asse San Marino - Italia per cause inerenti al ministero di Alfano «e non viceversa: da quando è in carica questo governo (dicembre 2008) non ce n'è stata nemmeno una inevasa» mentre «sono diverse le rogatorie presentate da San Marino all'Italia alle quali non c'è stata risposta». Un caso per tutti, quello di Niki Aprile Gatti. Dal suo blog ( http://nikiaprilegatti.blogspot.com ) Ornella Gemini commenta laconicamente: «farebbe davvero sorridere se, dopo le accuse lanciate a San Marino di non rispondere alle rogatorie, fosse ora la stessa Italia a non collaborare in una vicenda tanto delicata». Quindi un appello-avvertimento al ministro della Giustizia, Angelino Alfano: «rompete questo silenzio! Diteci la verità, diteci che cosa è accaduto dentro a quella maledettissima della numero 10 della quarta sezione del carcere di Sollicciano» perché «la prossima tappa sarà Strasburgo e la Corte di Giustizia Europea». Perché, come sottolineano dal Comitato Giustizia e Verità per Niki, «è decisamente arrivato il momento di rompere questo assurdo silenzio».

Liberazione 20/08/2009, pag 6