sabato 19 dicembre 2009

Politica in Filippine

http://en.wikipedia.org/wiki/Philippine_general_election,_2010

http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_political_parties_in_the_Philippines


http://en.wikipedia.org/wiki/Bayan_Muna

http://www.bayanmuna.net/

http://en.wikipedia.org/wiki/Satur_Ocampo


http://en.wikipedia.org/wiki/Anakpawis

http://www.kilusangmayouno.org/


Walden Bello

http://en.wikipedia.org/wiki/Walden_Bello

http://en.wikipedia.org/wiki/Akbayan

http://www.akbayan.org

http://akbayanfriends.wordpress.com/


Gabriela

http://en.wikipedia.org/wiki/GABRIELA

Diego e Gabriela Silang

http://en.wikipedia.org/wiki/Diego_Silang

http://en.wikipedia.org/wiki/Gabriela_Silang

venerdì 18 dicembre 2009

Bombe Usa sullo Yemen?

16/12/2009

I ribelli sciiti di Al-Houthi denunciano raid aerei statunitensi che avrebbero ucciso decine di civili

L'imam Abdul Malik Al-Houthi, leader dei ribelli sciiti che dal 2004 combattono contro il governo filo-occidentale yemenita, ha dichiarato ieri che caccia statunitensi hanno bombardato il loro territorio nel nord-ovest del paese, uccidendo almeno 120 persone, tra cui molti civili, e provocando una quarantina di feriti.

La denuncia dei ribelli Houti. Secondo la denuncia di Al-Houthi, i raid dell'aviazione Usa, condotti tra lunedì e martedì assieme all'aviazione saudita, hanno colpito un mercato, un campo profughi e due moschee della provincia di Saada, al confine con l'Arabia saudita.
Il leader ribelle ha dichiarato che l'aviazione Usa ha colpito ventotto volte lunedì e altre tredici il giorno successivo, accusandola di aver compiuto "uno sconvolgente massacro contro i nostri cittadini", "un crimine selvaggio che mostra il vero volto degli Stati Uniti, che cancella i loro ripetuti proclami sulla protezione dei diritti umani, sulla promozione della libertà dei cittadini e della democrazia".

Nessun commento da Washington. Nessun commento da Washington. Anche il governo yemenita ha scelto il silenzio.
Il coinvolgimento dell'aviazione Usa rimane quindi, al momento, una notizia priva di conferme indipendenti.
Una notizia che, tra l'altro, arriva all'indomani delle dichiarazioni rilasciate all'emittente Al-Arabiya dal generale David Petraeus, capo del Comando Centrale delle forze armate Usa, sul sostegno americano al governo yemenita contro la ribellione Houti, e di un articolo del Daily Telegraph che, sempre domenica, citava fonti anonime del governo Usa sull'invio di forze speciali americane in Yemen per impedire che il paese diventi una nuova base del terrorismo internazionale ‘di riserva' rispetto a quelle tradizionali in Afghanistan, Pakistan e Somalia.

Aumenta il coinvolgimento saudita. Nessun mistero, invece, sul sempre più pesante coinvolgimento delle forze armate saudite nel conflitto yemenita. Da settimane l'esercito e l'aviazione di Riyad conducono attacchi oltreconfine sulle roccaforti dei ribelli sciiti.
Domenica gli Houti avevano già denunciato l'uccisione di 70 persone, in gran parte civili, in un bombardamento aereo condotto dall'aviazione saudita sul villaggio di Bani Maan, roccaforte ribelle nel distretto di Razeh. Le bombe sganciate dai caccia di Riyad avrebbero colpito anche un mercato, uccidendo decine di civili.
Dall'inizio dell'operazione ‘Terra Bruciata', lanciata in agosto dalle forze armate yemenite, sarebbero centinaia i civili uccisi negli attacchi delle forze governative e saudite, e decine di migliaia i nuovi sfollati: 175mila dal 2004 secondo l'Unhcr.

E.P.

http://it.peacereporter.net/articolo/19396/Bombe+Usa+sullo+Yemen%3F

Gli universitari bloccano la città

Repubblica — 21 marzo 2003 pagina 2 sezione: ROMA

In non più di due ore, dalle 10 alle 12 di ieri, gli studenti dei tre atenei romani hanno bloccato quasi tutte le vie d' accesso alla città. Sono usciti dalle aule della Sapienza, di Roma tre e di Tor Vergata e hanno sfilato in corteo nella strade di quartiere e poi, carichi di striscioni e bandiere contro la guerra, si sono diretti verso la stazione ferroviaria più vicina alla propria università per continuare la protesta in un sit-in sui binari. E così a mezzogiorno Roma era racchiusa nella protesta dei giovani dei Collettivi universitari. Il tam tam è cominciato alla Sapienza quando duemila studenti hanno interrotto le lezioni in tutte le facoltà irrompendo nelle aule. Allo sciopero della didattica, annunciato nei giorni scorsi come una delle mobilitazioni contro la guerra, hanno aderito anche docenti e ricercatori. «Abbiamo formato un corteo interno - ha spiegato Francesco, dei Collettivi universitari - e siamo entrati nelle aule di tutte le facoltà per interrompere le lezioni e poi abbiamo raggiunto i Disobbedienti. Spontaneamente, senza nessun piano prestabilito abbiamo cercato di unirci nel dissenso». Sempre alle 10, un centinaio di persone ha bloccato per mezz' ora la stazione Tiburtina. Quando la situazione si è leggermente calmata i manifestanti hanno fatto un sit-in prima all' interno poi fuori dalla stazione. Alle 11 altri studenti della Sapienza hanno invece invaso i binari della stazione Termini, bloccata la circolazione di quasi tutti i treni. Contemporaneamente i ragazzi dei Collettivi hanno fermato la circolazione stradale davanti al ministero dell' Aeronautica. E via con i blocchi stradali anche in altri parti della città: sulla Colombo e poi manifestazione sotto la sede di Confindustria. Con gli studenti i pacifisti. Alle 12.30 bloccata la via Ostiense dagli studenti di Roma Tre. Via Tiburtina bloccata dai lavoratori all' altezza della stazione di Santa Maria del Soccorso. Sit-in e manifestazioni anche in via Nomentana, nei pressi di piazza Sempione. E nel quartiere Spinaceto dove si sono riuniti circa 200 manifestanti. Il Gra, all' altezza della Romanina, è stato invaso da circa 500 studenti di Tor Vergata, che si sono seduti in terra bloccando la circolazione. Un gruppo di Disobbedienti è entrato nell' aeroporto militare di Centocelle dove c' è un comando interforze della Nato. L' occupazione dell' aeroporto, tra la Casilina e la Tuscolana, è arrivata dopo un corteo spontaneo di un centinaio di persone partito da Cinecittà. Oggi e domani atenei aperti, manifestazioni decise nel corso della giornata. La Sapienza, invece, ha promosso per il 25 marzo una giornata di dibattito per studenti e docenti. Sospesa la didattica ad esclusione degli esami di laurea e di profitto già programmati. - ANNA MARIA LIGUORI


La Repubblica 21/03/2003
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2003/03/21/gli-universitari-bloccano-la-citta.html

Esce il "Dizionario gramsciano" oltre 600 voci

E' in uscita per Carocci il "Dizionario gramsciano 1926-1937" (pp. 918, euro 85) a cura di Guido Liguori e Pasquale Voza che raccoglie oltre seicento voci sul pensiero di Gramsci scritte da studiosi di tutto il mondo. Nei suoi ultimi dieci anni, Antonio Gramsci riflette in carcere sulla sconfitta del movimento comunista e sul fallimento della rivoluzione in Occidente. Formula un vero e proprio lessico per esprimere la sua teoria politica e un intero mondo di concetti destinati a influenzare i più diversi campi del sapere. È un linguaggio che inventa spesso parole nuove, o che reinventa parole vecchie arricchendole di significati diversi: americanismo e fordismo, brescianesimo, egemonia, filosofia della praxis, molecolare, nazionale-popolare, Oriente-Occidente, rivoluzione passiva, Stato integrale, volontà collettiva, moderno Principe e tante altre. Il "Dizionario" ricostruisce il significato delle parole e dei concetti presenti nei "Quaderni del carcere" e nelle "Lettere dal carcere", coniugando rigore scientifico e chiarezza divulgativa.

Liberazione 18/12/2009, pag 9

Case editrici, chi decide nella stanza dei bottoni

Amministratori, commerciali e presidenti: la mappa dell'industria culturale

Luca Canali
L'editoria sta diventando la cartina di tornasole della crisi generale, economica, etica, culturale del nostro paese. La recente Fiera della piccola e media editoria che si è svolta a Roma, ha suscitato riflessioni non estranee alla cosiddetta "rivoluzione neoliberista" e alla pseudodemocrazia capitalista fuori controllo (malgrado la presenza di numerosi "bocconiani" in varie sedi del potere mediatico), che vanno di pari passo con i danni provocati dalla insopportabile mediocrità dei nostri programmi televisivi. In proposito, Alessandro Baricco e Francesco Merlo (sulle pagine di Repubblica del 5 dicembre) hanno auspicato, soprattutto Baricco, una televisione di "qualità" che trasmetta in prima serata teatro e concerti. Ma Baricco dimentica che, purtroppo, alcuni anni fa, la causa dell'allontanamento del compianto Enzo Siciliano dal suo incarico di Direttore generale della Tv di Stato, fu l'aver voluto trasmettere in prima serata un'opera lirica, provocando un crollo pauroso dell'ascolto. Gli spettatori, una folla di persone scarsamente acculturate, non sarebbero dunque favorevoli all'aumento del contenuto culturale e artistico delle trasmissioni.
Lo dimostra un altro fatto anch'esso in apparenza "minimo", in realtà strepitoso, documentato dal Corriere della sera del 6 dicembre, nella pagina dedicata alla classifica dei libri più venduti: il libro Il tempo che vorrei di Fabio Volo - che non è nuovo a questi exploit -, uscito solo da una settimana, è balzato in vetta, schiacciando Dan Brown, Baricco e Ammaniti. Ma lasciamo parlare Volo (leggibile nella stessa pagina), che si esprime con una onestà baldanzosa e feroce (pregherei intellettuali e politici di leggere con attenzione queste righe): «Non ho uno stile letterario, forse non sono nemmeno uno scrittore. In Italia, con tutto quello che ho fatto e faccio - radio, tv, cinema - non capisco mai come mi vede la gente che compra i miei romanzi». Malgrado le sue parole, in sei giorni Volo ha venduto centomila copie. Nei giri promozionali che egli farà in tutta Italia occorrerà (avverte l'editore) addirittura prenotarsi per assistere alle presentazioni del suo libro «visto il pieno che egli fa ad ogni apparizione». Il segreto del suo successo? Una trama da mediocre fiction televisiva, vagamente patetica: il padre barista indebitato, poi malato di cancro, un'adolescenza non facile, un amore fragile, una fuga in città a cercare una difficile collocazione, una madre preoccupata dalle analisi mediche del marito, un'educazione umiliante. E lo stile? Risponde Volo: «Probabilmente mi viene dalla radio, dal modo di parlare con la gente». Ecco qui: con la gente: la gente che viene da una scuola scadente, dalle lunghe sere assonnate davanti al video che trasmette le solite storie di poliziotti, di violenza, di misteri, sempre gli stessi (Lucarelli basta! Torna a scrivere Almost blue !). Vi sono librai giustamente disperati per la concorrenza schiacciante delle grandi catene di distribuzione e vendita di libri. Ma non meno disperati i negozi di alimentari costretti a chiudere per la vicinanza dei supermercati. Ma l'editoria che c'entra? si chiederà. C'entra perché, chi decide nelle case editrici, anche nelle più potenti, non sono più i Direttori editoriali, ma i "commerciali", uomini che fanno il loro mestiere, vanno a consultare i registri delle vendite e cancellano i buoni libri che vendono poco, autorizzando la pubblicazione di quelli, anche brutti, o mediocri, ma che vendono molto. Ma come dar loro torto? Fanno il loro mestiere: i loro superiori (gli amministratori delegati, i presidenti etc.) forse li licenzierebbero se il bilancio finisse in rosso, e poi non sono neanche loro i capi perché ci sono i capi dei capi e i grandi azionisti segreti della holding, ma anche le banche. E allora gli Uffici stampa sgomitano, zufolano alle orecchie dei critici per ottenere o suggerire recensioni; e i recensori a loro volta contendono fra loro per ottenere le recensioni più prestigiose o quelle che a loro premono di più; da non dimenticare, le pressioni per avere il "passaggio" in radio o in televisione procurato da qualche amico influente, o da un amico dell'amico, o dalla "fidanzata" d'un sottosegretario, etc.
L'industria culturale, si dice. In realtà si tratta più di industria che di cultura. Ma in tutto ciò non c'è vera colpa, perché questa è la spietata legge del mercato, e non può essere altrimenti, la morale e la qualità non contano, conta il profitto, la casa al mare e in montagna, la vacanza a Cortina o Portorotondo, la fuoriserie, le costosissime cure per le malattie in cliniche di lusso private. Allora non vi sono colpe? No, perché è il sistema che è marcio e bisogna o accettarlo o cambiarlo con la lotta: la società non può avere al suo vertice un piccolo gruppo di straricchi, una base ove crescono sempre più disoccupazione e povertà, e al centro una parte d'una strana e composita borghesia disorientata, ma a sua volta incline a divenire cinica e vorace. Tuttavia anche questo, fuori da ogni considerazione morale, è il segno di una inquietante, e in fondo autolesionista, perdita di fiducia e solidarietà semplicemente umana. Allora viene in mente la famosa frase di Musil: «Non resta altro che fare la rivoluzione o urlare coi lupi».

Liberazione 18/12/2009, pag 9

«Altro che paura degli immigrati. Esilio e diaspora fondamentali per la cultura»

Amitav Gosh Considerato uno dei più grandi scrittori indiani. Il suo ultimo libro è "Mare di papaveri"

Guido Caldiron
«Nel secondo dopoguerra l'Europa aveva indicato al mondo il modo migliore per affrontare la questione dell'immigrazione, accogliendo un gran numero di persone provenienti da ogni parte del mondo o che si spostavano da un paese europeo all'altro. Oggi dovrebbe tornare a dare un esempio positivo di apertura e integrazione. Ma non mi sembra che sia così. Anzi, si registra un forte aumento dell'intolleranza e anche paesi che hanno una lunga tradizione di accoglienza come l'Olanda e il Belgio stanno facendo rapidamente marcia indietro».
Amitav Ghosh è uno dei maggiori scrittori indiani, uno "scrittore globale" che vive tra Calcutta e New York e racconta trasformazioni e eredità culturali della società asiatica. Quest'anno nel nostro paese sono stati pubblicati due suoi romanzi che raccontano a loro modo storie lontane di temi però attualissimi, come l'immigrazione e il traffico della droga: Lo schiavo del manoscritto (pp. 416, euro 12,50) e Mare di papaveri (pp. 544, euro 18,50), entrambi per Neri Pozza.

Ne "Lo schiavo del manoscritto" lei racconta una storia medievale di viaggi, emigrazione e schiavitù tra l'India e l'Egitto. L'immigrazione è oggi al centro del dibattito europeo, lei sembra dire che si tratta però di un tema generale. In che senso?
Seguendo il dibattito internazionale a volte si ha l'impressione che i fenomeni migratori riguardino soltanto l'Occidente i cui paesi ospitano un numero crescente di immigrati provenienti dai diversi "sud" del mondo. In realtà però le cose sono molto diverse, nel senso che le migrazioni avvengono anche tra Africa e Asia e all'interno di ciascuno di questi continenti. In India ad esempio arrivano ogni anno nuovi immigrati dal Bangladesh, dallo Sri Lanka, dalla Birmania. E si tratta di un fenomeno in continua crescita con cui tutti, in tutte le parti del pianeta, devono abituarsi a convivere. Tra venti o trent'anni questi spostamenti di popolazione saranno ancora più numerosi, anche a causa dei cambiamenti climatici, e costruiranno il nuovo volto dell'umanità su questo pianeta.

In che modo il cambiamento del clima incide sull'aumento dell'immigrazione nel mondo?
I rapidi cambiamenti climatici e i grandi problemi ecologici che attraversano la terra sono sempre più spesso all'origine delle migrazioni, se non sono la loro causa principale. La gente fugge infatti da territori che si stanno rapidamente trasformando in deserti, da zone dove l'innalzamento del livello del mare si sta mangiando la terra. L'immigrazione indica da questo punto di vista il futuro del mondo.

Rispetto alla chiusura e al prevalere di paure e pregiudizi, c'è però anche un altro modo di pensare l'immigrazione: ad esempio da suoi romanzi sembra emergere l'idea che la diaspora e l'esilio rappresentino elementi fondamentali per la cultura. In che modo?
In Europa il concetto di esilio viene spesso associato agli scrittori e più in generale al mondo artistico del XIX secolo. In Asia si pensa a tutto ciò in modo molto diverso: esilio e diaspora fanno parte ancora oggi della vita di tutti i giorni. In India la convivenza tra diverse impostazioni culturali è costante e si arricchisce di stimoli e segnali in movimento frutto delle migrazioni e degli spostamenti di popolazione. Inoltre, nel mondo, c'è uno spazio culturale specifico che si è sviluppato grazie alle forme diasporiche provenienti dall'Asia: si può così parlare di una diaspora cinese, di una dispora indiana e via dicendo. Quindi ciò che oggi sembra fare una gran paura all'Occidente è in realtà una sorta di abitudine per gli asiatici e una fonte inesauribile di stimoli culturali.

Ne il "Mare di papaveri" è descritto lo sviluppo del commercio dell'oppio al tempo dell'Impero coloniale britannico e della Compagnia delle Indie. L'inizio di quel mercato della droga che rappresenta oggi una tra le prime economie del pianeta?
Direi proprio di sì. Nell'Ottocento le responsabilità maggiori per la diffusione dell'oppio furono proprio degli inglesi che traevano enormi introiti dal commercio di questa sostanza. All'epoca l'Impero britannico promosse guerre e azioni militari per difendere, e talvolta anche per promuovere, questi suoi interessi. E questo fino allo scorso secolo. Comportandosi così esattamente al contrario di quanto avevano fatto i cinesi che per secoli avevano invece cercato di limitare il consumo di oppio e di distruggere le coltivazioni del papavero. Così credo si possa affermare tranquillamente che alla base della solidità delle economie degli ex paesi coloniali, l'Inghilterra ma anche la Francia, ci sia stato a un certo punto il commercio su larga scala di questa droga. Il capitalismo è prosperato anche sulla diffusione dell'oppio.

I suoi romanzi si muovono dall'Ottocento a oggi raccontando continuità e trasformazioni della socità indiana. Ma l'India di oggi come le sembra?
L'India è davvero un paese complicato, difficile da spiegare o raccontare in poche battute. E' soprattutto un paese contraddittorio dove convivono elementi tra loro molto diversi. Io stesso vivo gran parte dell'anno a Calcutta, sulla costa orientale dell'India, e il resto del tempo a Goa che sta dall'altra parte del paese. Le due realtà non potrebbero essere più diverse e lontane. In questo senso credo si debba dire che non esiste una sola India, ma molte realtà che convivono nello stesso luogo. Ci sono molte piccole località, sulla costa orientale o all'interno, dove lo Stato non esiste, dove l'economia e le regole della società sono oggetto di trattative quotidiane in un vero caos. Questo sta portando alla regressione di queste zone, proprio mentre si assiste invece nel sud del paese allo sviluppo delle nuove tecnologie e di tutto quello che ne consegue sul piano dell'organizzazione sociale.

E che ruolo continuano a giocare le religioni in questo contesto, si può parlare di secolarizzazione per le nuove generazioni indiane?
In India siamo sempre stati abituati alla convivenza, magari anche problematica o violenta, tra religioni e culture. Quindi nessuno si è mai stupito se accanto aveva una donna che indossa un burqa o un uomo con il turbante, allo stesso modosi è sempre assistito a ogni sorta di rito o cerimonia religiosa. Questa credo sia la grande differenza con la situazione europea, dove in un paese coma la Francia si è arrivati a vietare l'esposizione dei segni religiosi. Quindi direi che in generale gli indiani sono molto più tolleranti rispetto agli occidentali. Altra cosa sono naturalmente i fondamentalisti di tutte le fedi che minacciano la pace e la convivenza. Detto questo, per non eludere la sua domanda sulla secolarizzazione, il vero problema che affronta oggi il paese è quello di difendere la natura laica delle istituzioni da questa minaccia fondamentalista: le regole devono essere uguali per tutti e per tutte le fedi.


Uno scrittore tra Calcutta e New York

Amitav Ghosh è nato a Calcutta nel 1956, ha studiato a Oxford e vive tra la sua città natale e New York. Considerato uno dei più grandi scrittori indiani è autore di Mare di papaveri , Lo schiavo del manoscritto , Il palazzo degli specchi , Circostanze incendiarie , Il paese delle maree , tutti pubblicati nel nostro paese da Neri Pozza.

Liberazione 16/12/2009, pagina 9

Nucleare, Pechino vuole costruire dieci centrali all'anno

La Cina si sta preparando a costruire 10 centrali nucleari all'anno, arrivando a un totale nel prossimo decennio del triplo di quelle esistenti in tutto il mondo. Lo scrive il «New York Times», sottolineando come, se da una parte questo contribuisca ad allentare il problema del riscaldamento globale, essendo il gigante asiatico il principale produttore di emissioni di gas serra, dall'altro questo crei seri problemi di sicurezza. Certo, sostiene il giornale, l'industria nucleare civile cinese - che conta su 11 reattori operativi e sulla costruzione di 10 all'anno - non ha registrato nell'ultimo quindicennio alcun incidente di rilievo. Ciononostante, dentro e fuori la Cina, la velocità del programma di costruzione di nuove centrali ha sollevato preoccupazioni per la sicurezza. Proprio per rispondere a queste, Pechino ha chiesto l'aiuto internazionale per formare team di ispettori nucleari.

Liberazione 17/12/2009, pagina 8

«Marwan libero? L'accordo è vicino»

Intervista a Fadwa Barghouti, moglie del leader di Fatah incarcerato in Israele

«Hamas negozia per mio marito: fa il suo dovere»

Francesca Marretta
Ramallah
Stretta in un cappotto scuro, Fadwa Barghouti, moglie del parlamentare e leader di Fatah che sconta cinque ergastoli in Israele, crede che stavolta esista una chanche che il marito torni a casa con uno scambio di prigionieri. Barghouti è anche membro del Comitato Centrale dell'Olp. «Spero. L'accordo non è mai stato tanto vicino» esordisce la signora Barghouti, che ci riceve a Ramallah nella sede dell'Organizzazione che si batte per la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i detenuti palestinesi incarcerati in Israele (Free Marwan Barghouti Campaign).

Oggi vedrà suo marito Marwan in carcere?
Per i primi quattro anni della sua detenzione non ho potuto vederlo. Negli ultimi tre, l'ho visto. Vado a trovarlo in carcere ogni due settimane, ma siamo sempre separati da un vetro e parliamo al telefono mentre ci guardiamo.

Suo marito ha detto dal carcere che per la situazione dei prigionieri politici palestinesi in Israele ha fatto di più il rapimento di un soldato che anni di negoziato. Sente gratitudine verso Hamas?
Marwan è un leader nazionale e un combattente per la libertà del popolo palestinese. In questo senso Hamas ha il dovere di negoziare per farlo rilasciare. Nel liberare Marwan Barghouti Hamas fa un favore a se stesso. Si sa chi è Marwan Barghouti e quanto fondamentale sarebbe la sua figura da libero per la riconciliazione palestinese. Come moglie li ringrazio se riportano mio marito a casa, ma questa gratitudine non significa che ci sentiamo obbligati nei loro confronti. Li ringrazio comunque per aver fatto il loro dovere.

Ahmed Yousef di Hamas ha dichiarato su queste pagine che Marwan Bargouti a Gaza non è popolare, che lo è solo in West Bank. Barghouti libero è anche un ostacolo per Hamas a Gaza?
Per prima cosa Marwan è molto popolare a Gaza perché è lì che si soffre di più per la spaccatura che c'è stata tra Hamas e Fatah. La gente sa che Marwan libero saprebbe battersi per mettere fine all'embargo. Poi, sul problema per Hamas una volta libero ha riposto Mohammed Nazal (alto esponente di Hamas). Ha detto che anche se come fazione Hamas potrebbe avere qualcosa da perdere, per la causa nazionale è importante che Barghouti sia liberato. Questo vuol dire che lo riconoscono come leader nazionale.

La popolarità di Barghouti è cresciuta negli anni del carcere. Anche per la cattiva performance dell'Anp?
Molto è cambiato in questi anni. Quando Marwan è stato arrestato era ancora vivo Arafat e nell'immaginario collettivo palestinese con Arafat non ci sono mai stati paragoni. Eppure anche quando c'era Arafat, la popolarità di Marwan dopo l'incarcerazione era al 51%. Un dato straordinario. La popolarità di Marwan cresce da quando aveva 15 anni. Lui lavora con un approccio di base. Diciamo che in questi anni di carcere c'è stato un maggiore focus sulla sua figura.

Barghouti libero, se Presidente, scioglierebbe questa Anp?
Più che di scioglimento è meglio parlare di riforma. L'Anp è stata creata dall'Olp come strumento per formare lo Stato palestinese. Bisogna capire se è ancora uno strumento valido o se rappresenta un ostacolo. Ma è stata di certo un traguardo per democratizzare la società palestinese. Diciamo che ci sono cose da correggere e che l'Olp è già al lavoro per questo.

C'è qualcuno in Fatah che avrebbe problemi con Barghouti libero?
No. Tutti nel partito sarebbero contenti del suo rilascio, compreso Abbas. L'ho incontrato due giorni fa e mi ha detto che sostiene la strategia dello scambio di prigionieri. Mi ha detto anche che ha sempre chiesto agli israeliani il rilascio di Marwan.

Come sono le relazioni tra suo marito e l'ex ministro e uomo forte di Fatah a Gaza Mohammed Dahlan, considerato molto vicino agli americani?
Sono entrambi membri del Comitato centrale di Fatah. Ma mentre negli ultimi anni i leader del partito e dell'Anp hanno chiesto e talvolta ottenuto, a discrezione degli israeliani, di incontrare mio marito in carcere, Dahlan non ha avuto nessuno scambio. Non c'è stata nessuna forma di comunicazione tra i due. A me ha detto che ha provato a vederlo ma gli è stato negato dal governo israeliano.

E lei ci crede?
Questo è quello che ha detto.

Vivendo da vicino il dramma della carcerazione politica, cosa pensa delle condizioni dei detenuti di Hamas nelle carceri dell'Anp?
Che la situaizone prodotta dalla spaccatura tra Hamas e Fatah ha prodotto grandi violazioni dei diritti umani, tanto in West Bank che a Gaza.

Liberazione 15/12/2009, pag 8

giovedì 17 dicembre 2009

Quello che accade...

"Quello che accade, accade non tanto perché una
minoranza vuole che accada, quanto piuttosto
perché la gran parte dei cittadini ha rinunciato
alle sue responsabilità e ha lasciato
che le cose accadessero"
Antonio Gramsci

Raid on Philippines communist camp

A clash between the Philippines military and communist rebel fighters in the south of the country has left nine rebels dead, army commanders have said.

One soldier was also killed in the clash on Tuesday, which broke out as the military launched a raid on a camp belonging to the New People's Army (NPA) on the island of Mindanao.

The NPA is the armed wing of the Communist Party of the Philippines.

The group has been waging a 40-year campaign to seize power from the government.

The raid on the camp near the town of Valencia was launched following a tip-off, army spokesman Major Michelle Anayron told reporters.

He said five teams of soldiers had taken part in the assault, backed up by helicopter gunships.

Anayron said the military had estimated about 60 fighters were hiding in the camp.

"We suspect that the camp is really important because the NPA does not want to give it up," he said.

The government's conflict with the NPA peaked in the 1980s when the group claimed around 26,000 fighters in its ranks.

The military estimates the NPA's numbers have since fallen to just above 3,000, but says they remain a potent force.

Earlier this year military officials said the communist rebellion in Mindanao had claimed more than 3,000 lives since 2001, including over 500 civilians killed in crossfire.

http://english.aljazeera.net/news/asia-pacific/2009/12/2009121644130243386.html

Il nucleare che verrà

Lunedì 14 Dicembre 2009 23:46

di Daniele Rovai

Nonostante il referendum, nonostante in tutto il mondo ogni tipo di governo decide di abbandonarlo progressivamente, qui da noi ormai è deciso: l’Italia sarà nucleare. Le informazioni sono come minimo carenti e i timori, invece, concreti. Per cercare di capire come sarà questa "rinascita" abbiamo posto diverse domande alla dottoressa Romano, Direttore Generale per l’energia nucleare, le energie rinnovabili e l’efficienza energetica del Ministero.

Perché il nucleare è così importante per l’Italia quando gli altri paesi europei vanno verso il massiccio sviluppo delle energie alternative?

La strategia energetica nazionale si pone innanzitutto l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica del Paese dagli approvvigionamenti delle fonti fossili dall’estero, col duplice fine di dare maggiore sicurezza del sistema energetico e rendere più stabili i prezzi per i clienti finali, oggi troppo dipendenti dalle fluttuazioni dei prezzi internazionali del greggio. Per farlo il mix ottimale, tenendo conto degli impegni assunti in sede europea in materia di riduzione delle emissioni di CO2, dovrebbe essere costituito per il 25% da rinnovabili, per il 25% da nucleare e per il restante 50% da altre fonti. Il ritorno al nucleare e lo sviluppo delle rinnovabili sono due progetti paralleli, con un diverso piano temporale di realizzazione, e non due progetti alternativi o in antitesi. Le rinnovabili sono infatti sin d’ora implementabili, mentre per il nucleare sono previsti tempi attuativi più estesi.

Nella legge 99/09 si parla di impianti nucleari, cioè di un industria in piena regola con officine e laboratori. Il governo ha già delineato una strategia operativa?

Lo ha fatto con la legge 99/09 delineando le linee guida per il ritorno al nucleare, e prevede tempi stretti. L’Italia aveva conoscenze all’avanguardia prima dell’interruzione del programma nucleare, conoscenze che si sono continuate a coltivare e che potrebbero riallinearsi in breve tempo. Non è però necessario che l’Italia ricostruisca al proprio interno l’intera filiera del ciclo del nucleare. Meglio delle eccellenze su alcuni aspetti. Gli accordi internazionali vanno in questa direzione perché consentono di scambiare competenze e tecnologie, oltre che consentire di acquisire delle tecnologie “chiavi in mano”, peraltro già certificate dalle Agenzie di sicurezza e dagli standards internazionali in materia.

La legge 99/09 dice che il governo potrà decidere al posto degli enti locali sulla costruzione delle istallazioni nucleari, usando l’articolo 120 della costituzione. In sostanza se esiste un “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica”. Non volere un impianto nucleare nel proprio comune mette in pericolo l’unità economica?

La possibilità di superare un blocco istituzionale per installazioni di tipo strategico è contemplata dalla Costituzione e dalle leggi e non rappresenta una novità introdotta ad hoc solo per il nucleare anche se finora è stata utilizzata poco. I casi di altre infrastrutture energetiche, bloccate per anni da inerzie o mancate intese, sono ben noti a tutti, così come i costi conseguenti per il sistema e per i cittadini. Si deve promuovere una pronuncia consapevole da parte di chi partecipa alle scelte, rendere disponibili le informazioni necessarie e agire in trasparenza, ma anche prefigurare un modo per arrivare a prendere una decisione. In ogni caso, il modo in cui sarà esercitato il potere sostitutivo è ancora da definire in quanto fa parte del contenuto del decreto legislativo. Ma sarà aderente a quanto prevede oggi la nostra Costituzione.

Nella legge 99/09 si prevede che l’energia elettrica prodotta da fonte nucleare in Italia debba essere comunque immessa in rete per un quantitativo determinato (art.25, comma 4). Non è un incentivo?

No, per il nucleare non sono previsti incentivi. Così come non ci sono rischi che le risorse destinate all’incentivazione delle fonti rinnovabili possano essere distorte a favore del nucleare. La disponibilità di energia a costi inferiori, come può essere quella prodotta dal nucleare, al contrario, rende possibile la raccolta di incentivi per le rinnovabili attraverso specifici oneri incrementali ai prezzi finali dell’energia, contrastando gli impatti sui consumatori finali. La priorità in dispacciamento risponde a esigenze tecniche connesse alle caratteristiche degli impianti nucleari, adatti a coprire il carico di base, e ad aumentare il grado di sicurezza del sistema.

Secondo la legge 99/09 si potranno costruire “impianti energetici” nei demani militari e l’esercito potrà partecipare ai consorzi che costruiranno e gestiranno questi impianti “allo scopo di soddisfare le proprie esigenze energetiche” e per conseguire significative misure di contenimento delle spese per la gestione delle aree interessate (art. 39). Potremo avere delle centrali nucleari costruite su siti militari e in parte di proprietà dell’esercito?

Innanzitutto è bene precisare che già oggi è possibile che si costruiscano impianti energetici nei demani militari, in considerazione di possibili realizzazioni rivolte al soddisfacimento delle esigenze energetiche presso gli stessi siti, secondo la finalità richiamata esplicitamente nella legge. Per tale finalità, si pensa evidentemente ad impianti ben più ridotti di una centrale nucleare. Per quanto riguarda la costruzione di impianti correlati all'energia nucleare, eventuali demani militari non solo, come gli altri siti, dovrebbero soddisfare i requisiti di idoneità tecnica delle aree che il Governo dovrà individuare entro febbraio 2010, ma dovrebbero evidentemente rispettare la normativa di sicurezza propria dell'ambito militare, quali ad esempio vincoli di segretezza, senza pregiudicare gli obblighi di trasparenza e pubblicità che sono posti alla base dello sviluppo nucleare nel nostro Paese e che sono imposti dalla normativa europea in tema di Valutazione d’impatto ambientale.

http://www.altrenotizie.org/ambiente/2894-il-nucleare-che-verra.html

Grecia: lo spettro del default

Sabato 12 Dicembre 2009 00:00

di Emanuela Pessina

BERLINO. Nonostante la recente qualificazione ai mondiali di calcio del 2010, la Grecia ha poco da festeggiare: la sua pessima situazione economica preoccupa l'Europa intera a tal punto che qualcuno parla di una nazione a rischio bancarotta. E, come non bastasse, a un anno dalla morte del quindicenne Alexandros Grigoropoulos, assassinato dalla pallottola di un poliziotto durante le manifestazioni di piazza del 2008, sono riprese le proteste degli studenti. Gli unici, a quanto pare, disposti a manifestare apertamente contro un sistema che deve trovare la forza di rinnovarsi completamente.

I mercati e i governi di tutto il mondo stanno seguendo con aperta preoccupazione l'evoluzione della situazione economica della Grecia: le azioni stanno precipitando e la credibilità del Paese continua a scendere. Secondo una recente previsione dell'agenzia di rating americana Standard & Poor, il debito pubblico della Grecia potrebbe raggiungere, nel 2010, il 125 percento del Pil, mentre il deficit effettivo, al momento, è del 13 percento. In più, la Grecia risulta tra i Paesi più corrotti della Comunità Europea, raggiungendo il 71/mo posto nella classifica mondiale di Transparency (tanto per fare un piccolo confronto, l'Italia si trova al 63/mo posto).

Le cifre sono spaventose, ma il ministro delle Finanze greco Giorgos Papakonstantinou non ha mancato di rassicurare l'economia e la politica mondiale, cercando di fugare quelle voci di corridoio che vorrebbero la Grecia sull'orlo della bancarotta. "Non c'è assolutamente nessun rischio", ha assicurato Papakonstantinou. "Noi non saremo la prossima Islanda". Secondo il ministro, infatti, il 2010 sarà un anno difficile, ma "non impossibile".

Per Gennaio, Papakonstantinou ha promesso alla Comunità Europea un ambizioso programma di stabilità finalizzato a riequilibrare l'economia. Tra i punti principali del piano ci sono la sospensione delle assunzioni pubbliche, la riduzione delle spese statali del 10 percento e una più attenta lotta alle evasioni fiscali. Anche il primo ministro socialista Giorgios Papandreou, da parte sua, ha appoggiato il programma di stabilità di Papakonstantinou, ammettendo tuttavia la difficoltà di quella che sembra essere l'unica via di salvezza per l'economia greca.

Il premier socialista Papandreou (Pasok) è stato eletto appena due mesi fa, andando a sostituire l'ex premier Costas Karamanlis (Nea Demokratia) e il suo governo di centrodestra, allora al potere da sei anni. La popolazione ha riposto in lui parecchia fiducia: Papandreou, infatti, vanta profonda conoscenza della res politica, in quanto viene da una delle duefamiglie che - insieme ai Karamanlis - da decenni si alternano alla guida del Paese. Anche suo padre e suo nonno sono stati Premier.

Ma gli studenti non credono alle promesse della politica: i problemi contro cui hanno manifestato così violentemente nel dicembre 2008, che hanno portato alla morte del quindicenne Grigoropoulos per mezzo della pallottola di un poliziotto, non sembrano loro essere sulla via di una giusta risoluzione. E, nonostante Papakonstantinou abbia minacciato nei confronti di qualsiasi "tafferuglio" tolleranza zero, anche quest'anno sono scesi in piazza, mettendo a soqquadro, come in un pauroso dejá vu, il centro di Atene.

Il sistema educativo greco presenta, in realtà, numerose lacune, che vanno a intaccare anche ia società più in generale. Secondo informazioni del quotidiano berlinese Tagesspiegel, chi frequenta le scuole pubbliche greche è obbligato a prendere ulteriori lezioni private per superare gli esami. In un anno, le famiglie greche spendono in insegnanti privati circa 750 milioni di Euro. Secondo l'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OECD), gli studenti che iniziano l'università in Grecia sono, in media, 86 mila all'anno, mentre quelli che studiano presso atenei stranieri sono, al momento, più di 50 mila. Il rapporto non è certo dei più sani. La Grecia, tra l'altro, è il Paese europeo con la percentuale più alta di disoccupazione tra i giovani dai 16 ai 25 anni: e chi trova lavoro si deve accontentare di uno stipendio fissato per legge a 715,65 euro. Ce n’è abbastanza per manifestare.

http://www.altrenotizie.org/esteri/2886-grecia-lo-spettro-del-default.html

Russia e India nucleari

Sabato 12 Dicembre 2009 00:00

di Alessandro Iacuelli

Il presidente russo Dmitry Medvedev e il primo ministro indiano Manmohan Singh, in visita a Mosca, hanno firmato un accordo di cooperazione per l'utilizzo pacifico della tecnologia nucleare. L'accordo consentirà la costruzione di numerose centrali nucleari in India da parte dell'agenzia atomica russa Rosatom, ha detto il numero uno Sergei Kiriyenko parlando coi reporter a margine dei colloqui al Cremlino. Al momento non sono stati resi noti molti altri dettagli dell'accordo, ma i pochi filtrati dai comunicati ufficiali fanno pensare a intese anche in altri settori strategici per l'India: una possibile collaborazione in campo spaziale e nel mercato dei diamanti.

Così, l'India sembra intenzionata a essere un serio alleato strategico della Russia. Negli ultimi sei mesi, il premier Manmohan Singh si è recato per ben tre volte in visita ufficiale al Cremlino. L’ultima lo scorso 7 dicembre, quando i due Paesi hanno varato un importante accordo di cooperazione sullo sfruttamento pacifico dell’energia nucleare.

L'accordo con la Russia è il secondo, dopo quello con gli Usa, alla fine di una lunga battaglia condotta da Washington e Delhi, perché l'India fosse esonerata dalle norme internazionali sulla non-proliferazione, che da oltre tre decenni impedivano la vendita all'India di combustibili e tecnologia nucleari. Queste norme erano state adottate proprio perché il Paese aveva usato le tecnologie nucleari a lei fornite per "scopi pacifici" per fabbricarsi armi nucleari, soprattutto in chiave anti pachistana, a causa della controversia sul Kashemir. In seguito al test nucleare indiano del 1974, venne costituito il Nuclear Suppliers Group (NSG), il Gruppo internazionale dei fornitori nucleari, con 45 Stati membri, fra cui l'Italia; proprio questo gruppo, l'anno scorso ha cancellato il bando all'India sull'importazione di tecnologia nucleare.

Dopo tre anni di dibattiti a Washington, Delhi e Vienna, nell'ottobre 2008 il senato americano aveva approvato l'accordo di cooperazione nucleare civile con l'India, secondo il quale gli USA forniranno tecnologie e carburante a New Delhi per una ventina di centrali nucleari civili. In cambio l'India garantirà circa 70 miliardi di dollari in scambi commerciali con le imprese Usa.

La Russia non è rimasta a guardare a lungo. Al momento sono pochi i dettagli forniti sull'accordo di cooperazione nucleare del 7 dicembre: si sa però che Rosatom costruirà altri 4 reattori per la centrale nucleare di Kundankulam in Tamil Nadu, già simbolo della collaborazione tra i due Paesi (il primo reattore dovrebbe essere avviato già all'inizio del 2010); verranno avviati i lavori per una nuova centrale nel Bengala occidentale, dove Rosatom dovrebbe occuparsi della costruzione di quattro su sei reattori programmati nel giro di 10-15 anni.

L'accordo, valido dal 2011 al 2020, avrà un valore di decine di miliardi di dollari e, oltre al nucleare, prevede la vendita alla Russia di hardware militare in dotazione all'India. È probabile che la simbiosi si completi pure su altri campi, dato l'interesse di New Delhi nella ricerca spaziale, le telecomunicazioni, i mercati di diamanti grezzi e i prodotti farmaceutici.

Al momento il nucleare fornisce all'India meno del 3% di elettricità; nel 2050, a pieno regime, la quota dovrebbe arrivare fino al 25%. Nonostante le critiche di ambientalisti e di gruppi pacifisti, con quella che ormai gli analisti chiamano la “diplomazia dei reattori”, il primo ministro Singh ha riportato l'India più che mai al centro dello scacchiere internazionale. A causa della crisi petrolifera il mercato nucleare diventa infatti sempre più appetibile per i Paese emergenti. E ora anche la Francia, vero rivale per Mosca sul mercato del nucleare indiano, aspetta il suo momento per farsi avanti.

C'è naturalmente, come sempre quando si parla di accordi internazionali in campo nucleare, chi non si fida. Vari analisti di tutto il mondo ricordano come spesso i Paesi importatori di tecnologia nucleare, anzichè usarla a fini di approvviggionamento energetico, l'abbiano non solo usata a fini militari, ma anche rivenduta a Paesi terzi. Così, oggi c'è chi ipotizza che dietro l'accordo siglato a Mosca potrebbe esserci l'Iran, sempre al centro delle polemiche quando si parla di nucleare. Infatti, la Russia venderà all'India del combustibile atomico, così come voleva farlo con l'Iran. Dopo il distacco di Mosca dal suo appoggio tacito al piano nucleare di Teheran, quella attuale potrebbe essere una mossa compensativa che gode del tacito avallo americano.

Il governo russo non conferma e non smentisce: "I nostri due paesi hanno tanti campi di cooperazione, molti progetti riguardano la sfera energetica e una parte considerevole di essi concerne il settore nucleare", ha dichiarato Medvedev nella conferenza stampa dopo la firma dell'accordo, "Il documento che abbiamo firmato oggi consente di sviluppare la collaborazione negli anni futuri", ha aggiunto. Il premier indiano, subito dopo l'arrivo a Mosca, aveva incontrato in forma privata Medvedev nella sua residenza privata a Barvikha, mentre i colloqui ufficiali, a delegazioni allargate, si sono svolti al Cremlino. Al momento non si sa di più: tutto ciò che riguarda il governo russo è decisamente coperto da riserbo e ovviamente, tanto per cambiare, si parla di vendita di uranio per “soli usi pacifici”.

http://www.altrenotizie.org/esteri/2885-russia-e-india-nucleari.html

martedì 15 dicembre 2009

Greece moves to tackle debt crisis

Papandreou says the cuts will 'painful' but ordinary workers will not bear their brunt [Reuters]

Greece's prime minister has announced a series of spending cuts to prevent the country "sinking" under $422bn of debt.

George Papandreou on Monday pledged that his government would reduce the 12.7 per cent budget deficit to under seven per cent of gross domestic product by 2011 and less than three per cent by 2013.

The deficit, which is four times the limit set by the European Union for countries that use the euro currency, has damaged Greece's image in the eyes of investors and made it more difficult and expensive for Athens to borrow money.

"Greece faces the risk of sinking under its debt," Papandreou told an audience of business and union leaders in Athens, the Greek capital.

"We are all hurt when Greece is held up as an example to be avoided in the entire European Union."

'Painful' cuts

Among the measures announced by Papandreou were a reduction in defence spending in 2011 and 2012, the slashing of bonuses across the public sector, a 10 per cent cut in both social security and government operating expenditure, and salary caps for public utility directors.

He also called for taxes of up to 90 per cent on large bonuses for private banks, the closure of a third of Greece's tourist offices abroad, and the end of cost of living increases for higher-paid public sector workers.

The prime minister acknowledged that the measures would be "painful" but sought to reassure unions and the general public that ordinary workers would be protected.

"The stakes for Greece are clear. This concerns our sovereign rights, our right to have a social state," Papandreou said.

Vagelis Agapitos, a Greek investment advisor, said that Papandreou had to balance between pre-election commitments and persuading international markets that it can address the deficit.

"Effectively he needs to increase domestic demand and boost the economy, while at the same time reducing the deficit, but obviously the two cannot go entirely hand-in-hand," he told Al Jazeera from Athens.

Before he spoke on Monday, Greece's newspapers were sceptical about the effect of any cuts.

Left-wing newspaper Eleftherotypia warned: "Adopting decisive measures is easy ... implementing them will be tougher."

Ratings downgraded

Another daily, Ethnos, said any measures announced by Papandreou were unlikely to have an immediate impact on markets.

"Sadly, world markets do not base their stance on political criteria but on technocratic, and sometimes speculative, criteria," it said.

"And what is important to them is their own estimate of when the government's initiative will begin to show results."

Markets worldwide were rocked last week after Fitch Ratings downgraded Greece's long-term debt ratings to BBB-plus from A-minus last week.

This also sparked fears that other troubled eurozone members could suffer the same fate.

The European Central Bank has eased its rating requirements for government bonds in the wake of the global financial crisis but is expected to restore the minimum A-minus level in 2011.

A delegation from Moody's credit rating agency was in Athens on Monday as Papandreou spoke assessing whether to downgrade its rating for the country's economy.

http://english.aljazeera.net/news/europe/2009/12/20091214195213811769.html

domenica 13 dicembre 2009

ENI ups Zubair oil target after Iraq adds reserves

BAGHDAD, Dec 12 (Reuters) - Italy's Eni (ENI.MI) nudged up its production target for Iraq's giant Zubair oilfield after the Oil Ministry agreed to add more reserves to the area covered by the contract, an Iraqi official said on Saturday.

Eni raised the output target for the field to 1.2 million barrels per day for the field, from the 1.125 million initially agreed.

"They have asked to add more reservoirs to the Zubair field," said Sabah Abdul Kadhim, legal and commercial chief at Iraq's Petroleum Contracts and Licensing Directorate.

"We accepted on one condition: that they raise their plateau target. They accepted and raised their target to 1.2 million bpd."

Reserves may be added to a field by redefining its boundaries or the depth at which companies are allowed to drill.

Zubair is one of Iraq's largest oilfields, with 4 billion barrels of reserves, and was offered by Baghdad in June its first oil auction since the U.S invasion in 2003. Eni initially rejected the tight terms but later accepted the remuneration fee of $2 a barrel offered by Baghdad to take on the contract.

The ENI-led consortium also includes Occidental Petroleum (OXY.N) Corp (OXY.N) and South Korea's KOGAS 03460.KS.

(Reporting by Ahmed Rasheed and Simon Webb; editing by Victoria Main)

http://www.reuters.com/article/idUSGEE5BB06X20091212?type=marketsNews

L'India cambia e cerca nelle armi un nuovo prestigio

Dopo aver lanciato una gara da 12 miliardi di dollari tra i sei più importanti costruttori mondiali aeronautici per comprare 126 aerei da caccia, il 17 agosto 2009 l'India ha cominciato a fare dei test comparativi. Il 26 luglio New Delhi ha inaugurato il suo primo sottomarino nucleare. Forte della sua espansione economica, l'India ricorre all'opzione militare per affermarsi come centro di potere a livello internazionale.


di Olivier Zajec *

Quello che non era riuscito a ottenere con la sua grande popolazione e con il suo statuto semiufficiale di nazione nucleare dal 1981 (1), le è stato offerto dalla sua espansione economica: l'India è ormai diventata una potenza di livello mondiale. Il clamoroso naufragio del modello unilaterale americano ha senza dubbio contribuito a farla apparire per quello che realmente è: uno dei cinque o sei centri mondiali di potere e di influenza, insieme a Stati uniti, Cina, Russia, Europa, Giappone e - forse - Brasile.
Gigante mondiale in piena ascesa, l'India vuole consolidare questo stato di fatto; farla finita con l'eterna immagine di semplice «attore regionale» fedele alla «diplomazia morale» (2) ereditata dagli anni di Nehru (una posizione giudicata oggi con estrema severità), in modo da accedere pienamente alla «festa perpetua delle grandi potenze» secondo l'espressione fantasiosa - e lievemente ironica - dello scrittore Sunil Khilnani (3). Sono lontani i tempi in cui, nel 2001, il segretario alla difesa americano Donald Rumsfeld, ancora influenzato dalla guerra fredda e irritato dai forti legami nucleari fra Mosca e New Delhi, dichiarava: l'India è «una minaccia per gli altri popoli, compresi gli Stati uniti, l'Europa occidentale e alcuni paesi dell'Asia occidentale» (4). Oggi nessun ufficiale americano si arrischierebbe a fare affermazioni del genere.
Corteggiati da tutti i grandi - con esclusione della sola Cina - gli indiani dispongono del lusso relativo di poter scegliere i loro alleati. Con l'obiettivo di diventare membro permanente del Consiglio di sicurezza dell'Organizzazione delle nazioni unite, aspettano impazienti di giudicare le intenzioni dell'amministrazione di Barack Obama, considerata a priori meno filo-indiana della precedente, in particolare per l'eterna disputa che contrappone New Delhi al Pakistan a proposito del Kashmir. Per Christophe Jaffrelot, il cambiamento culturale è profondo: «Da grande paladina di una diplomazia etica, l'India sta diventando il portavoce di un approccio realista nelle relazioni internazionali» (5). Harsh V. Pant, specialista dell'India e insegnante presso il King's College di Londra, preferisce sottolineare il ritorno nel paese della «fiducia nella propria statura internazionale» (6).
Per consolidare questa posizione, l'India punta su tre pilastri.
Prima di tutto impegnarsi per evitare che la crisi mondiale rovini i propri piani di sviluppo. In secondo luogo capitalizzare il formidabile successo diplomatico rappresentato dagli accordi sul nucleare civile negoziati nel 2005 con Washington (accordi tra George W. Bush e Manmohan Singh) e ratificati dal Congresso degli Stati uniti nel 2008. Accordi che rimettono in discussione le «sacre» regole del Trattato di non proliferazione (Tnp) e danno all'India (e alle sue 150 testate atomiche) la figura di potenza nucleare militare «responsabile» (7).
Il terzo pilastro, infine, si riduce a tre parole: Bharatiya Sashastra Senai - le forze armate. La potenza militare convenzionale, in un'Asia in pieno riarmo, rappresenta per il paese un obiettivo tanto importante quanto gli altri due. E questo è il settore che concentra il maggior numero di dibattiti e di interrogativi fra gli strateghi indiani.
Per quanto riguarda gli armamenti non convenzionali, New Delhi sembra aver raggiunto un punto di equilibrio. Anche se nel febbraio 2008 l'India ha proceduto al suo primo tiro di missili balistici strategici (K15) in immersione, diventando così una potenza atomica di prim'ordine dotata di una capacità di risposta, l'atteggiamento di dissuasione e di non impiego per primi dell'arma nucleare rimangono il dogma immutato delle forze strategiche indiane.
Di fronte agli eserciti occidentali e alle novità degli armamenti cinesi Il settore convenzionale è invece più aperto ai cambiamenti. Di fronte agli eserciti occidentali e a una Cina che modernizza le sue forze a passi da gigante - dalle comunicazioni tattiche ai sistemi spaziali - New Delhi cerca una sua strada per dimostrarsi credibile. Ancora dipendente dal modello operativo della guerra fredda e dalle forniture russe (hanno rappresentato fino all'80% delle importazioni di armi), l'India vuole accelerare la sua evoluzione. Del resto in meno di 15 anni la rivoluzione tecnologica dei sistemi di controllo e di comunicazione, le sfide della guerra non convenzionale, la progressiva «arsenalizzazione» dello spazio, lo sviluppo dei programmi di sicurezza interna (homeland security) e l'attenzione per la sicurezza delle linee di comunicazione marittime hanno trasformato profondamente i fattori della potenza.
Di conseguenza le élite civili e militari indiane cercano di teorizzare un «modello» di sicurezza adeguato. Diversificando i fornitori stranieri (8) e puntando su una trasformazione culturale progressiva, sperano di rivoluzionare uno strumento militare che alcuni ritengono non ancora uscito dalle tradizioni dell'Esercito delle Indie. I mezzi non mancano. Per l'anno fiscale 2009-2010 il bilancio militare ha conosciuto il più forte incremento di tutti i tempi (un aumento del 23,7%) per un totale di 29 miliardi di dollari (20 miliardi di euro) (9).
Con più di 1,3 milioni di uomini e di donne nei ranghi, l'India possiede la terza forza militare mondiale in termini di effettivi, dopo la Cina e gli Stati uniti. L'esercito ne raccoglie la maggior parte (si veda il box). Ma anche se il paese possiede delle unità di élite (le sue unità speciali sono molto famose), lo stato generale del suo equipaggiamento terrestre è relativamente preoccupante: invecchiamento dei materiali, obsolescenza dei veicoli, difficoltà nel mantenere i parchi macchine in condizioni operative figurano fra i principali problemi e alimentano il sentimento di frustrazione della «fanteria», meno favorita nei fondi destinati alla ricerca e sviluppo e negli acquisti rispetto ai colleghi dell'aeronautica e della marina.
L'Indian Navy rappresenta una delle flotte più importanti del mondo.
Rivendica il suo nuovo status di forza oceanica globale, e ne sono simbolo due portaerei in cantiere, una comprata dalla Russia e «rimodernata», l'altra interamente costruita da cantieri indiani. Il programma nazionale di sottomarini nucleari Advanced Technology Vessel (Atv), che ha assorbito buona parte dei fondi della marina, ha raggiunto nel luglio 2009 una tappa fondamentale con il varo ufficiale del sottomarino d'attacco Ins Arihant (primo di una serie di cinque unità, sarà però operativo solo a partire dal 2012).
L'Indian Air Force (Iaf) è probabilmente la componente di maggior prestigio e circondata di più attenzioni delle forze armate indiane.
Frutto di una creazione britannica del 1933, l'aviazione era stata prudentemente limitata dal colonizzatore a semplici missioni tattiche.
Dopo l'indipendenza la Iaf ha voluto assumere più importanza comprando degli F104 americani, ma la collaborazione Washington-Islamabad ha cambiato la situazione. Rimasta per molto tempo dipendente dall'industria degli armamenti russa, l'aviazione indiana ha adottato la stessa cultura difensiva dell'aeronautica sovietica, e i Mig 21 di difesa aerea della Iaf rappresentano questa eredità. Aspirando ormai a una dimensione più strategica «di attacco in profondità», l'aeronautica militare reclama sistemi paragonabili a quelli delle potenze occidentali.
La pressione è stata tale che le forze armate indiane sono oggi il solo cliente al quale la Russia accetta di vendere dei sistemi più moderni di quelli a disposizione del proprio esercito, arrivando fino allo sviluppo congiunto con New Delhi dei programmi di quinta generazione (10).
Ma anche questo non basta più. Israele - in particolare - la Francia e anche gli Stati uniti sono stati sollecitati, malgrado un tradizionale antiamericanismo ancora molto forte in India. A titolo di esempio, l'aeronautica militare ha lanciato 26 programmi di rinnovamento, fra cui il più emblematico è il Medium Multi Role Combat Aircraft (Mmrca: aereo da combattimento multiruolo di quarta generazione).
La richiesta indiana riguarda 126 unità, per quasi 12 miliardi di dollari (11). Su questo «contratto del secolo» si sono concentrati gli interessi degli europei Dassault, Saab ed Eads, del russo Mig e degli americani Boeing e Lockheed Martin, le cui offerte sono state di recente sostenute dalle visite in India di Hillary Clinton e di Robert Gates, due pesi massimi dell'amministrazione Obama.
Tuttavia il trauma di quello che il generale della Iaf V.K. Vema definisce «l'apartheid tecnologico» degli anni della guerra fredda spinge gli indiani a sviluppare un'industria aeronautica completamente autonoma. Non si vogliono sostituire troppo presto i legami con i russi con una dipendenza verso degli occidentali abituati ai ripensamenti.
Per il vincitore di questa gara d'appalto, chiunque esso sia, il programma Mmrca comporta quindi delle rigide condizioni di trasferimento di tecnologia: i primi 18 aerei saranno consegnati entro il 2012, ma i 108 aerei rimanenti saranno costruiti in India dalla Hindustan Aeronautical Limited (Hal). Inoltre la compagnia prescelta dovrà reinvestire nell'economia indiana la metà dell'ammontare del contratto: sei miliardi di dollari.
Nel settore aeronautico e navale questa ambizione in materia di mezzi e di riforme, lungi dallo jugaad, l'arte di arrangiarsi messa in evidenza in passato con orgoglio dai militari indiani, riflette l'attrazione di New Delhi per una capacità di intervento a lunga distanza. Già nel 1999 in Defending India (12), Jaswant Singh, all'epoca ministro degli esteri, si era fatto difensore di questa nuova opzione. Tuttavia questo riflesso di proiezione di potenza oceanica e aerea, accompagnato dal fascino per le nuove tecnologie, appare per l'India ancora un po' artificiale. Non solo a causa della cultura indiana (le kalapaani, le «acque nere» dell'oceano, sono state per molto tempo considerate malefiche), ma soprattutto per le immense sfide già presenti nel contesto geografico in cui vive il paese.
L'Asia del sud e del sud-est, fortemente nuclearizzata, concentra un buon numero di questioni regionali di importanza mondiale, da Taiwan al Kashmir passando per le isole Spratleys. Indipendentemente dalle sue ambizioni nell'«esportare la sicurezza» lontano (sul modello - o anti-modello - americano), l'India non può trascurare le sue dispute locali con il Pakistan e la Cina, una coppia di alleati che alimenta la sindrome di paese assediato di New Delhi. Così gli strateghi indiani, anche se danno meno importanza al Pakistan rispetto a Pechino - idea che deve tener conto dell'ossessione indiana sempre viva nei confronti del fratello nemico - seguono passo passo i progressi tecnologici e strategici cinesi, che li preoccupano molto di più e che tendono spesso a enfatizzare. «La realtà geopolitica asiatica rende difficile, se non impossibile, una "relazione fraterna" dei due paesi. Se nei prossimi anni l'India e la Cina continueranno a rafforzarsi, una concorrenza sul piano della sicurezza sarà inevitabile», osserva Pant (13).
La recente decisione indiana di escludere nel 2009 le forze armate cinesi dalla seconda edizione dell'Indian Ocean Naval Symposium (Ions) (14) conferma questa crescente diffidenza. Per New Delhi è inaccettabile che Pechino partecipi a questo forum che riunisce i capi di stato maggiore delle marine dei paesi presenti nell'oceano Indiano, creato nel 2008 sotto la sua guida. Le proteste cinesi sono state molto forti e i giornali ufficiali parlano ormai di «oceano degli indiani» e ricordano il rifiuto di New Delhi di accettare Pechino, nonostante gli inviti di altri membri minori (15), come osservatore dell'Associazione dell'Asia del sud-est per la cooperazione regionale (South Asian Association for Regional Cooperation, Saarc) (16).
L'ossessione indiana per la «collana di perle», una serie di basi navali cinesi che va dal Mar della Cina meridionale alle coste dell'Africa (Pechino guarda con interessa alle Seychelles) passando per l'oceano Indiano (si veda la carta), è al centro di questa insistenza di tenere Pechino lontano da un'area chiaramente rivendicata da New Delhi (17).
Tuttavia l'intensità dei flussi marittimi globalizzati in questo settore e la posizione più conciliante degli altri paesi che si affacciano su questo mare (a cominciare da Pakistan, Sri Lanka, Birmania e di recente anche Maldive) tendono a facilitare la presenza della marina dell'Esercito popolare di liberazione cinese in quello che non è più - e forse non è stato mai - «l'oceano degli indiani». Nel frattempo la competizione fra le due flotte per proiettare le loro forze contro la pirateria somala ha illustrato ancora una volta questa nascente rivalità oceanica.
Alla questione marittima si aggiungono punti di frizione terrestri.
Il dispositivo generale delle armate indiane è organizzato in funzione delle controversie di frontiera. Il Kashmir, l'Alsazia-Lorena indiana, rimane il principale punto caldo a nord-ovest, al quale si unisce nella stessa zona il conflitto «congelato» che contrappone la Cina e l'India per il possesso dell'Aksai Chin (di cui una parte è stata data da Islamabad ai cinesi nel 1963). Il più importante dei comandi terrestri indiani, il Northern Command, gestisce proprio questa linea di frontiera.
Fra opzione terrestre, marittima, spaziale, l'opinione pubblica si appassiona Nel nord-est il conflitto con la Cina sull'Arunachal Pradesh è ancora irrisolto. Gli otto stati di questa regione, uniti alla penisola indiana dal corridoio di Siliguri (tra 21 e 40 chilometri di larghezza), sono al centro delle perpetue preoccupazioni degli stati maggiori di New Delhi. Una parte della zona è stata chiusa agli stranieri per quasi 40 anni. Qui le rivolte separatiste sono numerose e le culture maggioritarie sono radicalmente diverse da quelle della penisola.
Nella regione il Fronte unito di liberazione dell'Assam (Ulfa) continua a contestare le autorità indiane, che sospettano Pechino di aiutare i ribelli.
Più a sud, il Bangladesh, «cuneo» musulmano nel delta del Brahmaputra perennemente di fronte a una situazione demografica ed economica difficile, genera un flusso di immigrazione importante verso l'India.
Quest'ultima utilizza le forze armate (50 mila uomini) per frenare l'ondata migratoria e si è impegnata a costruire, malgrado le proteste internazionali, un muro di separazione (4 mila chilometri di filo spinato) per dissuadere qualunque trasferimento di massa della popolazione.
La sorveglianza è oggi rafforzata da droni di ricognizione. Malgrado l'aiuto decisivo dato nel 1971 dall'India al Bangladesh in occasione della sua separazione dal Pakistan «occidentale», questa situazione fa capire che non vi è mai stato un grande amore fra i due stati.
Chittagong, il principale porto del Bangladesh, accoglie ormai una base della marina cinese e Pechino non ha nascosto i suoi sforzi per riabilitare la parte militare delle installazioni portuali.
Insieme ai grandi spazi oceanici, questi punti di attrito terrestri formano il quadro generale della riflessione della difesa indiana.
L'opinione pubblica si appassiona a questi dibattiti. Così negli ultimi dieci anni è esploso il numero di riviste specializzate e di think tanks di difesa, dal Centre for Air Power Studies della Iaf allo Strategic Foresight Group o al South Asia Analysis Group dell'ex responsabile del controterrorismo indiano Bahukutumbi Raman, considerato un sostenitore di una linea di sicurezza dura sia all'esterno che all'interno. Il dibattito animato e spesso polemico comprende anche, come in tutti i paesi, le abituali dispute intestine fra i sostenitori dell'opzione terrestre, navale, aerea o spaziale.
Per confortare le loro idee, gli esperti analizzano con attenzione le precedenti esperienze operative indiane. Queste offrono alla riflessione strategica dei modelli di guerre convenzionali (campagna del Kashmir del 1947-48, guerre indocinesi del 1962 e indo-pachistana del 1965 e del 1971), di guerre «limitate» (operazioni dell'Onu in Congo nel 1961-1962), di operazioni di mantenimento della pace (Indian Peace Keeping Force - Ipkf - nello Sri Lanka nel 1987, operazione «Cactus» alle Maldive nel 1988) e di operazioni «miste» (guerra di Kargil, detta dei «ghiacciai» nel 1999 in Kashmir). Anche se culturalmente e tecnologicamente l'eredità storica e le difficoltà di frontiera favoriscono sempre un modello di divisione netta dei compiti, le forze armate indiane preferiscono giocare la carta dell'adattamento al tempo stesso tecnologico e tattico. Così l'aeronautica, posta di fronte all'insurrezione naxalita (18) dell'India centrale o ai movimenti separatisti del nord-est (19), studia da vicino le esperienze della campagna aerea del 2008 nello Sri Lanka, cercando metodi da applicare in campo contro-insurrezionale (coordinamento aria-terra, utilizzo di droni e così via). Le esercitazioni Hind Shakti dell'esercito nel maggio 2009 nel Punjab hanno a loro volta simulato un raid in Pakistan, sperimentando una forma più flessibile di Blitzkrieg ispirata dalle tattiche più audaci della scuola corazzata russa.
Queste esercitazioni hanno inoltre beneficiato di nuovo strumenti spaziali: nell'aprile 2009 l'India ha messo in orbita il satellite di osservazione Risat-2, di origine israeliana, destinato a sorvegliare la frontiera pachistana. Come Pechino - i generali indiani invidiano il «canale riservato» militare del sistema di georilevamento cinese Beidu - New Delhi cerca di capitalizzare i suoi progressi spaziali per trarre vantaggio dall'effetto di leva strategica della crescente militarizzazione dello spazio. L'obiettivo è rimanere al passo con Pechino.
Secondo i militari, questa strategia implica la necessità di investire in un dispositivo offensivo di difesa spaziale poiché «in un eventuale scenario di conflitto limitato, la Cina non esiterebbe ad accecare o a danneggiare questi satelliti di osservazione in modo selettivo per indebolire le capacità indiane, privandoci così di una conoscenza indispensabile del campo di battaglia», osserva il tenente colonnello Kaza Lalitendra della Iaf (20). A questi dibattiti interni sulle forme di combattimento ad alta e bassa intensità, dalla guerra in montagna fino al controllo spaziale, si aggiungono due dibattiti trasversali derivanti dagli obiettivi geopolitici della nuova India.
Il primo dibattito prende la forma del dilemma già evocato fra un modello difensivo incentrato sulle priorità di frontiera, e un modello più ambizioso di «proiezione di potenza» mondiale i cui sostenitori, pungolati dai progressi cinesi - in particolare in campo marittimo con la «collana di perle» - diventano sempre più numerosi negli stati maggiori. Questa dicotomia teorica è particolarmente marcata in marina, dove la divisione è molto forte tra chi, influenzato dalla scuola sovietica, considera la flotta come un semplice contributo all'equilibrio nucleare regionale, e chi invece, passato per le accademie americane, vorrebbe bloccare l'espansione cinese con una strategia oceanica navale più aggressiva (21).
Il secondo dibattito mira a persuadere il potere politico della fragilità dell'India multiculturale nei confronti del terrorismo. Prendendo spunto dagli attacchi islamisti di Bombay (174 morti il 26 novembre 2008), si chiede una migliore convergenza fra difesa e sicurezza (un modello di homeland security militarizzato). Per il ministro delle Finanze Pranab Mukherjee, che presentava il 7 luglio 2009 il nuovo bilancio dell'Unione, «gli attacchi terroristici di Mumbai hanno dato una dimensione completamente nuova al terrorismo di frontiera.
Una soglia è stata superata. Il nostro ambiente di sicurezza si è considerevolmente deteriorato». Questa tendenza è oggi dominante e il paese si appresta a spendere nei prossimi tre anni più di 10 miliardi di dollari in strumenti per rendere più sicure le frontiere (droni di sorveglianza, imbarcazioni leggere di intercettazione, passaporti biometrici, elicotteri da trasporto, armamenti per la guerriglia urbana)(22). Nel frattempo le forze speciali indiane dovrebbero aumentare di numero, e un riequilibrio si dovrebbe compiere fra le truppe di élite del ministero degli Interni e le unità militari a favore di queste ultime. L'obiettivo è la lotta al terrorismo e gli interventi urbani.
Al centro di questi dibattiti strategici e culturali vi è l'esercito indiano che, malgrado una sempre maggiore attenzione all'aspetto tecnologico, rimane comunque un pachiderma lento a trasformarsi.
Ci si chiede se la congiuntura finanziaria potrà influire sulle ambizioni militari di New Delhi. Il discorso ufficiale sembra escluderlo. Per Pradeep Kumar, responsabile della produzione militare prima di diventare ministro della difesa nel luglio 2009, «la modernizzazione delle forze armate indiane continuerà (...). La crisi finanziaria non avrà alcun effetto sul suo svolgimento» (23). Il paradigma di Nehru, «diplomazia morale» e non allineamento, è ormai vittima collaterale del realismo multipolare e sembra destinato a scomparire dalle priorità dei responsabili politici indiani.


note:
* Professore incaricato presso la Compagnia europea di intelligence strategica (Ceis).

(1) Nel maggio 1998 New Delhi ha compiuto un test nucleare, imitata pochi giorni dopo dal Pakistan.

(2) La «diplomazia morale», che caratterizzava la politica estera dell'India nei primi decenni dell'indipendenza, si basava sui principi della coesistenza pacifica e del non allineamento, rivelando il desiderio di Nehru di distinguersi dalla Realpolitik dei due blocchi denunciata come predatrice e aggressiva.

(3) Martine Bulard, «L'India ritrova il suo posto tra i grandi», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2007.

(4) Siddharth Varadarajan, «Stop supply of N-fuel to India, U.S.
tells Russia», The Sunday Times, Londra, 18 febbraio 2001.

(5) Christian Jaffrelot, «Inde: la puissance pour quoi faire?», Politique Internationale, Parigi, autunno 2006.

(6) Harsh V. Pant, «La montée en puissance de l'Inde et ses ambitions nucléaires», Défense nationale et sécurité collective, Parigi, luglio 2007.

(7) Gli specialisti della strategia nucleare cercano ancora una definizione soddisfacente su questo tipo di giudizio morale. Che cos'è una potenza nucleare responsabile? Quella che non rischia di utilizzare la bomba? In questo caso, fanno osservare alcuni, gli Stati uniti rappresentano forse una sottocategoria problematica.

(8) Nel 2007 e 2008 Israele è diventato in termini economici il primo fornitore di armi dell'India, spodestando la Russia, che lo era stata per 40 anni. Questa situazione è la conseguenza della natura dei prodotti israeliani ad alto valore aggiunto tecnologico (difesa antimissile, elettronica di bordo, sistemi di comunicazione, droni, satelliti).

(9) Cioè 21,3 miliardi di euro. L'anno contabile 2008-2009 aveva visto un aumento delle spese del 10%. L'India destina il 2% del suo Pil alla difesa (la Cina il 7%, il Pakistan il 5%).

(10) Il missile da crociera supersonico Brahmos (Brahmaputra-Moskowa) e, più teoricamente, l'aereo da combattimento Sukhoi/Halt-50 Fgfa, concepito per rispondere ai programmi americani F-35 e F-22.

(11) Cfr. «Le marché mondial des avions de combat», Défense et sécurité internationale, Parigi, numero speciale n. 8, giugno 2009.

(12) Jaswant Singh, Defending India, Palgrave MacMillan, Londra, febbraio 1999.

(13) Défense nationale et sécurité collective, luglio 2007, op. cit.

(14) Al contrario la Francia e l'Australia fanno parte dei 27 paesi invitati.

(15) Soprattutto lo Sri Lanka, che dovrebbe aprire alla marina cinese le installazioni portuali di Hambantota.

(16) Creata nel 1985, la Saarc riunisce Bangladesh, Bhutan, India, Maldive, Nepal, Pakistan e Sri Lanka. In seguito è entrato a farne parte anche l'Afghanistan, con il quale l'India intrattiene buone relazioni.

(17) Si legga «ÊActualité et réalité du «collier de perle»», in Monde Chinois, Parigi, estate 2009. Inoltre «La Cina porta in mare le sue ambizioni globali», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2008.

(18) Il naxalismo è un movimento rivoluzionario presente in quindici stati dell'India, che si batte per ottenere una riforma agraria.

(19) Cfr. Arjun Subramaniam, «The use of Air Power in Sri Lanka : operation Pawan and beyond», Air Power Journal, n.3, Center for Air Power Studies, New Delhi, luglio-settembre 2008.

(20) Kaza Lalitendra, «Dragon in Space: implications for India», Air Power Journal, op. cit.

(21) Cfr. Jean Alphonse Bernard, L'Inde et la pensée stratégique, Institut de Stratégie Comparée, Parigi, 1999.

(22) Vivek Raghuvanshi, «India plans homeland security buys worth $10 billion», Defense News, Springfield (Virginia), 31 dicembre 2008.

(23) Dichiarazioni del 2 febbraio 2009 in occasione del salone Aero India.
(Traduzione di A. D. R.)

http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Settembre-2009/pagina.php?cosa=0909lm06.01.html

Le guerre nascoste dello Yemen

UNO STATO CHE RISCHIA DI IMPLODERE


Lo Yemen funge ormai da retroterra ai combattenti di al Qaeda provenienti dall'Arabia saudita. Nel sud, unificato al nord nel 1990, cresce un'opposizione secessionista. Inoltre, nella regione di Saada s'intensifica una lotta insurrezionalista: secondo le autorità, è sostenuta dall'Iran, mentre i ribelli denunciano le ingerenze dell'Arabia saudita. Una guerra non dichiarata, che si è aggravata nelle ultime settimane, e rischia di trasformare il paese in uno stato fallito.


di PIERRE?BERNIN?*

Nascosta allo sguardo, la regione di Saada, nel nord-est dello Yemen, non lontano dalla frontiera con l'Arabia saudita, è teatro di un violento conflitto dal giugno 2004 (1). Un conflitto che oppone il governo a un gruppo di ribelli, gli «houthisti», guidati dall'ex ministro Hussein Al-Houthi, e poi, dopo la sua morte, nel settembre 2004, dal fratello più giovane Abdoulmalik Al-Houthi. Malgrado l'annuncio di un cessate il fuoco nel luglio 2008, i combattimenti sono ripresi alla metà di agosto 2009. L'avvitarsi del conflitto, la sua brutalità, le decine di migliaia di vittime e di sfollati, e il rischio di reazioni a catena, in una zona che è anche territorio delle principali tribù del paese, sono ancora pressoché ignorati.
La ribellione houtista si richiama all'identità religiosa zaidita, una branca dell'islam sciita presente sugli altipiani yemeniti, ma che, sul piano teologico, si distingue nettamente dallo sciismo duodecimano, dominante in Iran (2). Gli zaiditi, circa un terzo della popolazione, descritti a ragion veduta come «moderati» sul piano della giurisprudenza e del dogma, s'inscrivono nella storia particolare dello Yemen e condividono molte interpretazioni religiose con i sunniti di rito chafeita (3), che costituiscono la maggioranza degli yemeniti del paese.
Il governo accusa la ribellione di volere il ritorno dell'imamato zaidita che ha regnato sul paese fino al 1962, anno della rivoluzione repubblicana. Quella rivoluzione è stata il preludio a una lunga guerra civile, che ha visto l'Arabia saudita alleata con i lealisti, mentre l'Egitto di Gamal Abdel Nasser ha inviato le sue truppe a combattere a fianco dei repubblicani. Gli imam erano dei sayyid, discendenti del profeta Maometto, categoria alla quale appartengono i fratelli Al-Houthi. Le autorità affermano che gli houtisti sono sostenuti dall'Iran e partecipano allo stesso titolo degli Hezbollah libanesi allo sviluppo di un «arco sciita » attraverso il Medioriente.
Mettere l'accento su questa ingerenza mira ad assicurarsi il sostegno del regime saudita, che teme la crescente capacità di influenza del suo rivale iraniano. Queste accuse vengono respinte dai leader houtisti, che proclamano la loro lealtà verso la Repubblica e assicurano di voler semplicemente preservare l'identità religiosa zaidita, minacciata da ciò che descrivono come il wahhabismo o il salafismo, versioni molto rigide dell'islam sunnita.
La regione di Saada, culla dello zaidismo, è stata d'altronde uno degli ultimi bastioni dei lealisti nel corso della guerra civile degli anni '60. Per questa ragione, è rimasta a lungo lontana dalle politiche di sviluppo promosse dai governi repubblicani successivi.
L'emergere della corrente houtista s'inscrive in un movimento di rinascita zaidita iniziato negli anni '80 all'interno di diversi istituti di formazione, di case editrici e luoghi di culto, intorno a Saada ma anche più specificamente a Sanaa, la capitale. Benché la maggior parte delle elite politiche, compreso il presidente Ali Abdallah Saleh, sia d'origine zaidita, questo movimento di rinnovamento resta assai minoritario. Così, mentre gli houthisti insistono sulle specificità della loro identità riguardo la legge islamica o la pratica religiosa, la maggioranza della popolazione (compresa quella di origine zaidita) partecipa, dal canto suo, al processo di integrazione delle identità religiose incoraggiato dal sistema educativo e dallo stato repubblicano. Per questo, l'opposizione sunnita-sciita ha perso influenza e determina solo marginalmente le traiettorie e le affiliazioni politiche.
Questa convergenza delle identità non impedisce tuttavia alla corrente salafita, alleata di comodo del potere, di attaccare sempre più apertamente gli zaiditi. Nel quadro del conflitto di Saada, le tensioni sono frequenti, e la guerra minaccia di trasformarsi in uno scontro interconfessionale.
A fine agosto 2009, alcuni media riportavano che i combattimenti tra houtisti e studenti dell'istituto salafita Dar Al-Hadith, fondato all'inizio degli anni '80 da Mouqbil Al-Wadii, avevano provocato molte vittime (4). Una notizia che gli houtisti negano sul loro sito internet. Nel marzo 2007, due studenti stranieri, tra cui un francese, avevano già trovato la morte nel corso di scontri simili.
Secondo il governo, è in atto uno scontro ideologico tra la Repubblica e un gruppo religioso estremista, mentre per gli houtisti si tratta della resistenza alla repressione di una minoranza religiosa. Ma, al di là delle accuse reciproche, al di là delle dichiarazioni del governo yemenita circa un importante programma di ricostruzione lanciato dopo la tregua del luglio 2008, e di quelle dei ribelli secondo i quali i combattimenti e le provocazioni non sono mai cessati, molteplici fattori hanno determinato il conflitto e il suo avvitamento.
Il persistere delle ostilità, che continuano dal 2004, nonostante il cessate il fuoco e le mediazioni - specialmente quella del Qatar nel 2007 - , è in parte dovuto all'emergere di interessi economici che si sovrappongono alle rivalità interne al potere. Il controllo del commercio illegale verso l'Arabia saudita e delle sponde del mar Rosso - che facilitano il traffico di carburante diesel e di armi verso il Corno d'Africa - costituiscono una posta in gioco di prim'ordine. Anche le armi destinate ai militari vengono dirottate da alcuni ufficiali; e mentre una parte viene esportata, un'altra è paradossalmente rivenduta ai ribelli attraverso intermediari particolarmente attivi nella zona.
La prospettiva della successione del presidente Saleh, al governo dal 1978, accende la competizione all'interno del regime, in particolare tra suo figlio, Ahmad Ali Saleh (che è anche a capo delle forze speciali e della guardia repubblicana), e diverse figure dell'esercito. La regione di Saada sarebbe così diventata teatro di una guerra per procura in cui i clan rivali cercano di accaparrarsi risorse economiche e di provare la loro capacità di controllo del territorio.
Nel maggio 2008, mentre la zona di combattimento si allargava e raggiungeva la regione di Bani Houchaych, a venticinque km circa a nord di Sanaa, l'impiego, per la prima volta dal 2004, delle forze speciali e il loro apparente successo è stato messo in relazione con le sconfitte dei battaglioni dell'esercito nel governatorato di Saada.
L'avvitamento è anche legato al ruolo crescente giocato dalle componenti tribali. Dall'impiego dei miliziani - dal lato del governo o degli houthisti -, al progetto governativo del giugno 2008 per formare un «esercito popolare» con il sostegno delle tribù intorno al governatorato di Saada, il conflitto è entrato in una spirale di violenza che favorisce meccanismi di vendetta e di vendette trasversali basati essenzialmente sulle solidarietà tribali. All'inizio del 2009, mentre il potere stanziava fondi per la ricostruzione, alcuni gruppi tribali che, qualche mese prima, erano comunque legati all'esercito, hanno rifiutato il compromesso con gli houthisti, e tentato di far pressione sul governo istituendo blocchi stradali e prendendo ostaggi. Questa «tribalizzazione» del conflitto, davvero notevole, invita a riconsiderare i discorsi che evocano un progetto politico degli houthisti o uno scontro sunnita-sciita orchestrato da alcune cerchie di potere. D'ora in poi, il conflitto di Saada si sovrapporrà all'antica rivalità tra le due principali confederazioni tribali degli altipiani del nord: mentre gli Hashed combattono a fianco delle forze governative, molte sono le tribù bakil che sostengono i ribelli (5). Anche se questa analisi non va intesa senza sfumature, spiega comunque la diffusione progressiva della zona di scontri al di là del governatorato di Saada, soprattutto nella regione di Harf Soufyan, più a sud, non lontano dalla roccaforte degli Al-Ousaymat, una delle principali tribù hashed. Un tale ingranaggio mette in rilievo il potenziale destabilizzante di questa guerra che, attraverso il meccanismo delle solidarietà tribali, rischia di estendersi ad altre regioni del nord dello Yemen, in particolare ai governatorati di Al-Jawf, Amran e di Hajja. Anche l'implicazione poco costruttiva degli attori regionali gioca un ruolo. Nel 2007-2008, una mediazione del Qatar e la firma di un accordo tra belligeranti, a Doha, non hanno avuto l'esito previsto. La ripresa dei combattimenti ha indotto il governo del Qatar a ritirarsi e ad annullare le sue promesse di partecipare finanziariamente alla ricostruzione e allo sviluppo della regione di Saada. Il ruolo del vicino saudita appare d'altronde per lo meno ambiguo, alcuni si spingono fino ad accusarlo di aver silurato la mediazione del Qatar per limitare l'impatto del piccolo emirato nella sua tradizionale zona di influenza in area yemenita. Mentre la monarchia degli Al-Saoud considera ufficialmente la guerra di Saada un affare interno, certi attori sauditi finanziano lo sforzo di guerra yemenita e al contempo le milizie tribali, alimentando in questo modo i combattimenti.
D'altra parte, gli Stati uniti e l'Unione europea hanno eccessivamente focalizzato l'intervento sulla lotta antiterrorista e non si sono impegnati molto nella ricerca di una soluzione pacifica, dando così indirettamente carta bianca al governo di Sanaa. Mentre veniva criticato dai suoi alleati, in primo luogo da Washington, per la sua mancanza d'impegno nella «guerra mondiale contro il terrorismo», il governo di Saleh ha avuto buon gioco nell'assimilare la ribellione a un gruppo terrorista, affermando anche, a volte, che avesse legami con al Qaeda, cosa che appare poco credibile data l'identità zaidita (sciita) degli houthisti e la loro critica alla dottrina salafita.
Destabilizzante, particolarmente brutale, la guerra di Saada ha per effetto di indebolire ancora di più il potere centrale nelle regioni del nord. L'economia di guerra così come l'instabilità cronica e la repressione contribuiscono a favorire lo sviluppo di gruppi violenti, alcuni dei quali sono vicini ad al Qaeda.
Benché non ancora totalmente chiarito, il rapimento, nel giugno 2009, degli operatori stranieri di una organizzazione non governativa (Ong) che lavoravano in un ospedale di Saada e l'esecuzione di tre di loro, illustrano questa meccanica perversa. Il governo ha inizialmente attribuito la responsabilità del crimine agli houthisti (6), ma sembra più verosimile che vi sia un coinvolgimento di gruppi sunniti violenti.
Dall'inizio del 2009, Nasir al-Wouhayshi, uno yemenita che è spesso presentato come l'ex segretario di Osama bin Laden, ha annunciato la creazione di al Qaeda nella penisola arabica, fusione delle branche saudita e yemenita. Dall'inizio del 2007, gli attacchi attribuiti ai gruppi affiliati ad al-Qaeda, soprattutto quelli contro l'ambasciata degli Stati uniti nel settembre 2008, si sono moltiplicati a Sanaa e nelle regioni meridionali dell'ex-Yemen del sud, mentre i governatorati del nord del paese in un primo tempo sembrava fossero stati risparmiati.
D'altra parte, l'unificazione del nord e del sud nel 1990 suscita dal 2007 una forte contestazione nei governatorati dell'ex-Yemen del sud le cui popolazioni si ritengono vittime di discriminazioni.
La contestazioner prende sempre più apertamente accenti secessionisti man mano che la repressione aumenta (7).
Per lungo tempo, il regime diretto da Saleh è riuscito a smentire molti pronostici mantenendo una relativa stabilità. Ma le molteplici crisi e i problemi di successione mettono in pericolo il suo equilibrio precario (8), e potrebbero portare a un cedimento dello stato con conseguenze incalcolabili per tutta la regione.


note:
* Ricercatore.

(1) International Crisis Group, Yemen: Defusing the Saada Time Bomb, Sanaa-Bruxelles, maggio 2009.

(2) Lo sciismo duodecimano, dogma dominante in Iran, si incontra ugualmente in Iraq e in Libano. A differenza dell'ortodossia sunnita, si caratterizza per l'importanza accordata ad Alì, genero del profeta Maometto, e ai suoi discendenti - dodici imam l'ultimo dei quali non è morto ma «nascosto», e il cui ritorno segnerà l'avvento di un regno di giustizia.Lo zaidismo si richiama alla tradizione sciita, ma riconosce solo una linea di sette imam; e, soprattutto, non condividendo i sogni millenaristi dei duodecimani, viene considerato più «moderato».

(3) Storicamente, l'ortodossia sunnita si suddivide in quattro scuole di giurisprudenza (madhab) o riti ripartiti nelle diverse regioni del mondo musulmano: il malekismo (presente essenzialmente nel Maghreb); il chafeismo (nel Medioriente, nello Yemen e nel Sud est asiatico); lo hanbalismo (nella penisola arabica); lo hanafismo (in Asia centrale e del sud).

(4) Al-Quds al-Arabi (quotidiano panarabo), Londra, 27 agosto 2009.

(5) Al-Sharea (settimanale yemenita indipendente), Sanaa, 2 giugno 2007.

(6) Questa accusa venne smentita dai ribelli, che organizzarono anche una manifestazione contro questo rapimento, l'indomani della scoperta del corpo dei tre operatori umanitari.

(7) Franck Mermier, «Yémen: le Sud sur la voie de la sécession?», EchoGéo, giugno 2008, http://echogeo.revues.org
(8) Si legga Laurent Bonnefoy, «Yemen, equilibrio instabile tra pressioni esterne e tensioni interne», Le Monde diplomatique/ilmanifesto, ottobre 2006.
(Traduzione di E. G.)

http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Ottobre-2009/pagina.php?cosa=0910lm09.01.html

sabato 12 dicembre 2009

Ponte di Nona, Roma: magari le cose cambiano

Il regista Andrea Segre nei nuovi quartieri, indagine umana sui feudi dei palazzinari

Boris Sollazzo
«Non facciamo la guerra tra poveri, case nuove contro case vecchie. Mica è una partita a pallone». Neda, 50 anni, non sa se è anarchica o "compagna", «non so più da che parte sto. Ma non me li far fare ‘sti discorsi Andrè, che me demoralizzo e me sento impotente». La romana de Roma che ora è stata "deportata" dal miraggio dell'edilizia popolare a Ponte di Nona (22 km dal centro di Roma, 6 oltre il GRA)- miraggio è anche quando esiste, perché rimaniamo, in Europa, tra i peggiori per quantità e qualità dell'edilizia pubblica- parla ad Andrea Segre, regista di Magari le cose cambiano (produzione indipendentissima di Zalab e Off!cine), già all'ultimo Torino Film Festival diretto da Gianni Amelio e proiettato anche dal predecessore Nanni Moretti nel suo Nuovo Sacher mercoledì scorso (per altri incontri, proiezioni e notizie sul film http://magarilecosecambiano.blogspot.com).
Un dialogo illuminante, preludio a un finale intenso in cui la donna, una vita intensa e una bella famiglia sulle spalle e un sorriso malinconico e ironico verso le ingiustizie subite da sempre, si produce nelle imitazioni di operai e anziani che rappresentano la disperazione sociale attuale in troppe trasmissioni e telegiornali. Li imita con la rabbia di chi ha protestato in strada, ha creduto in un mondo migliore e ora vede se stessa e i suoi simili naufragare nell'indifferenza, propria e altrui, nella rassegnazione degli sconfitti. Dopo lo splendido Come un uomo sulla terra , Segre questa volta rimane nei confini di Roma (si fa per dire), per raccontare quegli scandalosi mostri che sono i nuovi quartieri oltre il Grande Raccordo Anulare, la Roma abusiva, la Roma ad uso e consumo dei palazzinari, un deserto in cui la campagna capitolina, una delle più belle d'Italia, ha lasciato il posto a squallide oasi di cemento nate vecchie, alle "nuove centralità" che da vent'anni, da Veltroni e Alemanno, hanno avuto un ruolo fondamentale nei piani regolatori e soprattutto nelle loro modifiche (guarda caso, spesso in extremis e a colpi di maggioranza). Una realtà mai abbastanza raccontata, se non da una delle puntate più seguite e felici di Report, in cui dati e immagini misero spalle al muro amministratori pubblici e delegati, quella commistione di poteri istituzionali e società per azioni che hanno fatto, con il mattone, la ricchezza di pochi e la povertà di molti.
Segre però ha un'altra sensibilità, lui le ingiustizie le sente addosso e non è interessato alle inchieste giornalistiche dure e pure, ha bisogno di entrare dentro le persone, sentirle parlare e sentirle addosso. E così la sua indagine spontanea, umana, l'affida a due donne. Diverse, intelligenti, complementari (potrebbero ricordare, con un volo pindarico, le protagoniste de L'eleganza del riccio ). Neda, appunto, che abbiamo già conosciuto, e Sara, papà egiziano e mamma pugliese, diciottenne e tra le poche, a Ponte di Nona, ad aver avuto il privilegio di frequentare il liceo. Sono accomunate dalla rabbia tranquilla di chi non vuole smettere di credere in un mondo migliore e di combattere per ottenerlo, e dalla consapevolezza dell'enormità del compito. Sara ha capito che è lo studio la vera opportunità, la cultura, cita e analizza Marx con la chiarezza e l'essenziale acutezza che storici, filosofi e politologi spesso non hanno, si "diverte" a sbugiardare le agenzie immobiliari con telefonate "finte" e visite, trovando, nel caso dell'Immobildream del candidato alle europee e clone berlusconiano Roberto Carlino, non informazioni soddisfacenti ma pubblicità elettorale, e in altre strutture proposte di monolocale in un "quartiere in cui Rom non ci stanno", bugia insopportabile e ignobile.
Le cifre sono secondarie, come la tragedia dell'immigrazione clandestina con complicità italo-libica che raccontava in Come un uomo sulla terra , non ci servono riscontri a quei visi, a quelle voci. Segre trova la verità, ha bisogno solo di alcuni cartelli in cui ci ricorda, per esempio, che dal 1995 sono aumentati gli abitanti della capitale, le case sfitte sono però aumentate nell'ordine delle 150.000 unità, e aumentate di 70.000 anche le nuove costruzioni. Per quel sistema che dà la ricchezza a dieci persone per toglierla a tutti gli altri (un'inquadratura perfida si ferma su via Francesco Caltagirone). Il resto lo fa lo sguardo di disincantata indignazione delle sue protagoniste, la fotografia di Luca Bigazzi (quasi una co-regia in quest'opera in cui il panorama di Ponte di Nona è il personaggio principale), l'ottima musica che accompagna i 65 minuti di documentario (Piccola Bottega Baltazar, Collettivo Angelo Mai, Slede Zlive Slede). E così quest'inchiesta ha la forza e la potenza delle parole e della testimonianza civile che numeri e attacchi frontali non avrebbero mai saputo suscitare. Segre e i suoi segregati in cui c'è il centro commerciale più grande d'Europa. Al posto di un ospedale, o una scuola, o una biblioteca.

Liberazione 05/12/2009, pagina 9