venerdì 30 aprile 2010

Dal centro alle periferie europee il neofascismo è uscito in strada

Avanzano, costruiscono roccaforti. Le Pen in Francia, Strache e Rosenkranz in Austria, lo Jobbik in Ungheria

Tonino Bucci
Senza coraggio non ci sono valori . Era questo lo slogan che ha accompagnato la campagna elettorale di Barbara Rosenkranz, candidata alle presidenziali austriache per il partito di destra radicale, la Fpö. Una donna forte per l'Austria - si è definita lei stessa. Come noto, le elezioni presidenziali le ha vinte il capo di stato uscente, il socialdemocratico Heinz Fischer, con una percentuale che sfiora il 79 per cento. Ma quella che sembra un'acclamazione è di fatto un risultato turbato da due circostanze. La prima, è che l'astensionismo supera ormai il cinquanta per cento, la seconda che la destra radicale raccoglie il 15,6 dei consensi e capitalizza il voto di protesta. Lo si è visto anche alle recenti elezioni amministrative in Francia, dove il Front nazional di Le Pen è tornato a sfiorare il dodici per cento. Odio per gli immigrati, protesta e antisistema sono i fondamentali di una destra radicale che piazza le proprie roccaforti nel cuore dell'Europa. A maggior ragione il discorso vale per le periferie europee. In Ungheria, al ballottaggio di domenica, non solo i conservatori ottengono una maggioranza schiacciante di due terzi, ma anche al partito di estrema destra Jobbik (Movimento per un Ungheria migliore) riesce il colpaccio e a conquistare 48 seggi. Alla sua guida c'è un trentenne e il programma è il "solito" mix di populismo, xenofobia, movimentismo paramilitare e protesta per il "vecchio" modo inconcludente di fare politica.
Fin qui le cronache. Ma il neofascismo - che però sarebbe meglio, pronunciare al plurale - è tutt'altro che un'eruzione improvvisa. Dell'Austria come un laboratorio dell'estrema destra aveva già parlato lo storico Walter Laqueur - nato in Germania, di famiglia ebrea, residente tra Londra e gli Usa - in un libro pubblicato in Italia da Tropea, Fascismi. Passato, presente (pp. 346, euro 21). «La ragione del successo della destra estremista austriaca è sostanzialmente politica. Il paese non è mai stato denazificato a dovere e gli ex nazisti vi hanno potuto mantenere i vecchi incarichi. A differenza di quanto accaduto in Germania, non vi fu ammissione di colpa: la responsabilità per il nazionalsocialismo era negata». Dal dopoguerra in poi il sistema politico è occupato dai due principali partiti, i socialdemocratici dell'Spö e i cristiano-sociali dell'Övp. Nel 1956 nasce l' Fpö (il Partito della libertà che in anni recenti avrebbe guidato Jörg Haider) fondato sulle ceneri di due precedenti formazioni politiche, il Partito rurale e il Partito popolare della Grande Germania. Veleggia a malapena intorno al sei per cento, in alcuni casi fa la funzione di stampella per governi in minoranza, in altri si accredita come un partito antisistema. Al suo interno trovano cittadinanza conservatori, liberali di destra, nazionalisti, ma anche ex nazisti. Durante la leadership di Haider l'Fpö attrae il voto di protesta e incanala lo scontento popolare nella xenofobia. Il primo laboratorio dell'"haiderismo" è stata, storicamente parlando,la regione della Carinzia, dove prende forma un ricettario politico costruito sull'esaltazione della piccola patria, sul vanto per i servizi efficienti, sul sentimento di appartenenza a comunità ristrette, sull'odio per gli immigrati (in particolare per gli sloveni residenti in Austria) e, persino, su un certo ambientalismo a difesa del proprio suolo. Nel '94 il partito di Haider ottiene il Carinzia il 33 per cento, mentre nella cosmopolita Vienna sfiora il ventidue. L'onda lunga raggiunge l'apice nel duemila, quando l'Fpö impone ai cristiano-sociali una coalizione di governo. Poi inizia il declino, l'esperimento si sgretola e Haider fonda un nuovo partito in scissione dal vecchio (ne sarà il leader fino alla morte avvenuta per incidente automobilistico nel 2008). Ma il 15,6 per cento dei consensi ottenuti domenica dall'Fpö dimostrano che il partito ora guidato da Hans-Christian Strache è a tutt'oggi vitale. «L'Fpö è un movimento fascista? Non nel senso tradizionale», scrive Walter Laqueur, per quanto la candidata alle presidenziali, Barbara Rosenkranz, abbia espresso in più d'una occasione, le proprie simpatie filonaziste. La destra radicale austriaca ha sostituito l'anticomunismo con lo slogan che gli immigrati vanno cacciati via. «Sarebbe comunque sbagliato giudicare irrilevante il fenomeno austriaco solo perché non rappresenta un pericolo per il mondo esterno». I suoi successi elettorali sono dovuti soprattutto alla «perdita di credibilità del vecchio sistema politico» e dalla «mancanza di ricambio in cinquant'anni».
I movimenti nazionalisti e fascisti non sono una novità neppure in Ungheria. Dopo l'89, con lo smantellamento della società comunista e dell'economia precedente, è nato il Partito vita e giustizia, segnato dal radicalismo nazionalista e l'avversione per liberali, ex comunisti ed ebrei. «Chiede una nuova Costituzione e attacca il governo (del passato, ndr) per essersi svenduto agli stranieri, cioè per non aver difeso prioritariamente gli interessi ungheresi». Alla tradizione del populismo di destra appartiene invece l'Iscp di Joszsef Torgyan, radicato soprattutto nelle campagne e con una base nel blocco sociale dei piccoli proprietari. Altro personaggio chiave è un'ex deputata, Isabella Kiraly, «diventata guida e ispiratrice degli skinheads locali, che toccano la cifra di alcune migliaia, sempre coi loro stivaloni e uniformi nere». Il bersaglio principale sono gli zingari, il sei per cento all'incirca della popolazione unhgerese. «Secondo uno dei loro canti devono essere sterminati con il lanciafiamme». Tifano per il Ferencvaros di Budapest e non disdegnano di prendersela anche con gli ebrei, ritenuti «troppo ricchi e trafficoni». Il neofascismo ungherese pesca anche nel bacino operaio dove «il tasso di disoccupazione è molto alto».
Si capirebbe poco però dell'estremismo di destra se ci si limitasse a studiarlo come un fenomeno di trend elettorali e vicende istituzionali di partiti altalenanti. Il neofascismo è, soprattutto, un fenomeno che vive per strada, «uno stile di vita alternativo» per dirla con le parole di Laqueur, in cui confluiscono il rifiuto della vita di massa, i legami esclusivi all'interno del gruppo, l'esoterismo, la lotta al "degrado" della modernità e contro il multiculturalismo, il tifo calcistico, i raduni musicali, le aggressioni contro gli stranieri, le sottoculture ribelli.
José Saramago, con la semplicità di cui son capaci i grandi scrittori, l'ha detto a modo suo. «Io credo che ci sia la possibilità che il fascismo stia aspettando di tornare in Europa. Non verrà con le camicie nere, né brune, né cose simili. Ma il fascismo non si nasconde più. E' lì, è uscito in strada».

Liberazione 27/04/2010, pag 12

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Titolo Fascismi. Passato, presente, futuro
Autore Laqueur Walter
Prezzo € 21,00
Prezzi in altre valute
Dati 2008, 346 p., brossura
Traduttore Ballarini D.
Editore Tropea (collana Saggi)

http://www.ibs.it/code/9788855800075/laqueur-walter/fascismi-passato-presente-futuro.html

giovedì 29 aprile 2010

Autori vari

http://en.wikipedia.org/wiki/Fredric_Jameson

http://en.wikipedia.org/wiki/Simone_Weil

http://en.wikipedia.org/wiki/Glenn_Gould

http://en.wikipedia.org/wiki/Raymond_Williams

Fredric Jameson

Titolo Fredric Jameson. Neomarxismo, dialettica e teoria della letteratura
Autore Gatto Marco
Prezzo
Sconto 15% € 17,00
(Prezzo di copertina € 20,00 Risparmio € 3,00)
Prezzi in altre valute
Dati 2008, 286 p., brossura
Editore Rubbettino

http://www.ibs.it/code/9788849821512/gatto-marco/fredric-jameson-neomarxismo-dialettica.html


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Titolo Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo
Autore Jameson Fredric
Prezzo
Sconto 20% € 31,60
(Prezzo di copertina € 39,50 Risparmio € 7,90)
Prezzi in altre valute
Dati 2007, XI-464 p., rilegato
Traduttore Manganelli M.
Editore Fazi (collana Le terre)

http://www.ibs.it/code/9788881128785/jameson-fredric/postmodernismo-ovvero-la-logica.html

Perugia: Festival Internazionale del Giornalismo

Festival Internazionale del Giornalismo

http://www.ijf10.org/it/

Roma: I-60, urbanistica e territorio, il caso Ardeatino

Ancora sulla pratica urbanistica romana che sta sotto ai lustrini del Convegno degli archistar dell’8-9 aprile 2010 promosso dal Sindaco di Roma Gianni Alemanno: la lotta di un quartiere, l’Ardeatino, contro la minaccia al territorio, che va sostenuta dai cittadini non solo romani per impedire che scelte politiche e speculazioni compromettano la qualità della vita e cancellino preesistenze storiche, ambientali e paesaggistiche, linfa della memoria e dell’identità locale.

Il caso che abbiamo sollevato nel precedente servizio è di indubbia importanza: la sorte urbanistica di un quartiere come paradigma della sua città, la capitale, e anche dell’intera nazione. Per evitare il contagio bisogna combattere la malattia nei suoi focolai, e nel focolaio dell’Ardeatino, il quartiere in questione, si ritrovano i paradossi e le anomalie, le assurdità evidenziati a livello generale.

progetto di sviluppo urbanistico nel quartiere Ardeatino

Si dirà che vi sono le esigenze abitative da soddisfare. Ebbene, la popolazione romana è stabile sui 2.600.000 abitanti circa, mentre il cosiddetto ”urbanizzato”, cioè interessato dall’edilizia, già nel 2002 era di 46 mila ettari che corrisponderebbero a una popolazione quasi doppia, poco meno di quanto previsto nel precedente piano, riferito a un popolazione due volte più grande; già da allora ne erano investite in modo insensato aree agricole da preservare per l’equilibrio dell’eco sistema.

La situazione si va aggravando con un ulteriore paradosso: “Nonostante siano circa due decenni che Roma si sta spopolando, il nuovo Piano regolatore prevede l’urbanizzazione di ulteriori 15 mila ettari, così da arrivare a cancellare oltre il cinquanta per cento della campagna romana”. In definitiva: “Quindici anni di nuova urbanistica hanno lasciato 70 e oltre milioni di metri cubi di cemento: il nuovo sacco urbanistico”. Il “fallimento” sta nelle tre esigenze, “centralità, cura del ferro e tutela dell’agro”, tutte disattese. Di due si è detto, per la terza basti aggiungere che Walter Tocci, vicesindaco con Rutelli, ha scritto di recente che “la cura del ferro è stata abbandonata”.

La conclusione dell’analisi di cui nel primo servizio abbiamo dato solo degli stralci: “Nei lunghi anni di governo urbano, la sinistra ha costruito una sconfitta culturale senza appello. Le speranze che avevano accompagnato le ambizioni della nuova urbanistica romana si sono dissolte progressivamente”. E cosa vuol fare la “destra”? Continuare con la stessa politica trincerandosi sul fatto compiuto che non ha accettato neanche per il ben più modesto dissenso sull’“Ara Pacis”? Equivarrebbe ad avallarne l’impostazione facendosi schermo di chi ha compiuto il “lavoro sporco”.

Siamo al sesto paradosso dopo i cinque evocati in precedenza. Della valanga di quattro milioni di metri cubi di “compensazione”, quattrocentoventimila si abbattono in una zona verde, non lontana dalla miracolata Tor Marancia, che è già ad alta intensità abitativa; e questo perché una precedente colata di cemento in assenza di adeguamenti viari e infrastrutturali ha trasformato la via di uscita dal quartiere, via di Grottaperfetta, in un ingorgo di traffico e di inquinamento; su questa stessa strada, a doppio senso di marcia con una stretta corsia per direzione impercorribile in molte ore del giorno, e non allargabile, si addenserebbe la nuova congestione.

Per di più si tratta di un’area verde con preesistenze monumentali e storiche, oltre che ambientali e paesaggistiche di indubbio valore, le ricordiamo ancora: muretti in “opus reticulatum” e basolati di pavimentazione, grandi iscrizioni circolari riferite a Domiziano e anche rettilinee, topografie di ambienti, oggettistica, finanche uno scheletro di età antica; sono segni e testimonianze che danno un valore identitario alla località, il tutto documentato dalle immagini. Tutto questo nel polmone vitale di un quartiere da preservare dopo i recenti massicci insediamenti nella zona operati senza alcun adeguamento delle dotazioni infrastrutturali.

Il “Settimo cavalleggeri” non interviene

Ne parleremo nella conclusione, perché è l’aspetto centrale della rivolta che sul piano culturale suscita questa minaccia; mentre la rivolta sul piano politico nasce dal settimo paradosso. Qui è l’incubo all’incontrario, come se nella ridotta di “cow boy” assediata dagli indiani – quelli “cattivi” di una volta, non quelli perseguitati di oggi – che esulta agli squilli di tromba del “Settimo cavalleggeri” piombasse la tragica delusione di un “arrivano i nostri” illusorio, perché i “nostri” rimangono a guardare, si rifiutano di intervenire e partecipano al “massacro” diventando complici.

Siamo di fronte al fatto compiuto, la situazione è definitivamente compromessa e non si può fare altro che assistere impotenti! Questa la prevedibile linea di difesa, puntualmente adottata, qui il nome tecnico è un altro, “diritti quesiti”; è come se il “diritto” nascente dalla primitiva decisione su Tor Marancia, poi annullata, si fosse tradotto nel diritto alla compensazione raddoppiata a danno di altri quartieri prima non colpiti, rendendo inevitabile la cementificazione della zona vicina.

Ma come sopportano tutto questo i “vincitori” della battaglia su Tor Marancia, l’onorevole Rampelli e i suoi? Ci fanno pensare al beato signore che ottenuto il cambio del nome – dopo una appassionata vertenza dato che era bersaglio di scherno soprattutto per i figli – torna a casa trionfante per la vittoria e nel festeggiare mostra il decreto con il nuovo nome, che scriviamo “con decenza”, come si diceva una volta: “Da oggi potrò chiamarmi Cacca Franco invece di Cacca Antonio”. “Absit iniuria verbis”.

Che ne pensa il combattivo onorevole Rampelli, così popolare nelle feste d’estate “all’ombra del Colosseo”? Si disinteressa degli effetti perversi della sua azione generosa e vincente per Tor Marancia? L’istituto della “compensazione” edificatoria “trova applicazione rispetto alle aree edificabili che vengono cancellate sulla base di criteri urbanistici e non sulla base di vincoli cogenti di inedificabilità”. Ebbene, a Tor Marancia, come sa benissimo per averlo ottenuto, l’edificazione fu annullata in base all’apposizione di un vincolo paesaggistico, e così in altri casi; si tratta di uno dei “vincoli cogenti” e non di “criteri urbanistici”, per cui non scatta la discutibile “compensazione”.

Con il settimo paradosso sono finiti i sette re di Roma, ce n’è un altro come l’ottavo re, titolo generalmente attribuito al personaggio del momento più amato nella città. Questa volta è una contraddizione che riguarda i fatti compiuti e i “diritti quesiti”. E chiama in causa direttamente il sindaco Gianni Alemanno, che ricordiamo osannato come un liberatore al Teatro del Trullo dagli abitanti del quartiere che sopportarono pazientemente il notevole ritardo sull’orario del suo intervento; lo sopporterebbero volentieri anche i cittadini dell’Ardeatino se volesse intervenire in positivo e non come ha fatto di recente, e lo abbiamo riportato, avallando abusi di altri in passato.

Perché lo chiamiamo in causa? Cosa c’è di più irreversibile, quale fatto è più “compiuto”, quale diritto è più “quesito” di una realizzazione completata, inaugurata e in pieno esercizio da anni, per il pubblico nazionale e internazionale? Ebbene, anche in questo caso si interviene nonostante ci siano di mezzo i diritti più che “quesiti” di un architetto di fama mondiale come Meier: così per la Teca dell’“Ara Pacis”, definita “intervento invasivo” da Alemanno, è stato chiesto che sia tagliata nella parte che deborda verso la vicina chiesa, il “Settimo cavalleggeri” compie il suo dovere e risponde alle aspettative di chi lo ha atteso, e votato, con fiducia. Altrimenti quale fiducia vorrà rinnovare la città di Roma alla parte politica che non riesce a correggere le scelte dissennate della parte contrapposta? E ciò sebbene colpiscano i cittadini nella qualità della vita e nel diritto alla salute, mentre appare decisa nel correggere scelte discutibili, ma limitate al senso estetico e artistico?

Ci sono state le elezioni regionali, ora è cessata anche la “coabitazione”. C’è un nuovo “arrivano i nostri” per rimuovere l’inerzia del “Settimo cavalleggeri” rimasto a guardare, anzi pronto a sostituirsi agli indiani e aiutarli nel “massacrare”? Prima ci siamo rivolti ad Alemanno, ora ci rivolgiamo a Renata Polverini, neoeletta alla Presidenza della Regione, perché voglia intervenire.

Del “Settimo cavalleggeri” parliamo non soltanto per il quartiere nel cui teatro assistemmo a uno psicodramma collettivo, i cittadini abbandonati dai loro rappresentanti istituzionali: il Municipio nella persona del minisindaco della circoscrizione si dichiara impotente, l’assessore comunale allorché si degna di rispondere fa una dichiarazione di “non intervento”, quasi si trattasse della Svizzera pacifista; quando tutti conoscono come sia pugnace la giunta Alemanno, e abbiamo ricordato l’“Ara Pacis”. Mentre per l’Ardeatino si è aggiunto il diniego pilatesco del Sindaco.

Allora il sogno all’incontrario che sembrava miracolosamente realizzato con Rampelli di An contro i “palazzinari” deve lasciare il posto a un incubo: l’intera classe politica romana, le istituzioni di ieri e di oggi tutti dalla loro parte? Sarebbe un risveglio agghiacciante, non resterebbe che l’antipolitica.

Perché occorre un “Settimo Cavalleggeri” per l’intera città? Perché se sono quattro i milioni di metri cubi che si abbattono su parecchi quartieri per la “compensazione Tor Marancia”, sono quasi 70 milioni di nuovi metri cubi che il Piano regolatore di Veltroni rovescerà sulla Capitale; e di questi, sorpresa nella sorpresa, solo l’uno per cento destinati ad edilizia economica e popolare. Motivati dagli evidenti risvolti speculativi e non da effettive o presunte esigenze abitative.

Si pensi che una ricerca dell’Eurispes ha rivelato che ci sono a Roma 200.000 case sfitte e vuote, in quartieri normalmente urbanizzati quindi già inserite nel contesto urbano, che potrebbero ospitare almeno 600.000 abitanti, calcolando la media tipo di 3 persone a famiglia; ebbene, le previsioni demografiche danno una popolazione stabile, e allora “che c’azzeccano” i 70 e più milioni di nuovi metri cubi? E’ eccessivo chiamarlo “sacco di Roma”? Non si parli di piccole imprese edilizie da sostenere, i “palazzinari” sono reincarnati in due-tre grandi gruppi di cui si conoscono gli addentellati con politica e istituzioni: il coraggioso “Report” meritoriamente ne ha fatto i nomi.

Il “sacco dell’Ardeatino”

Per esemplificare nei suoi contenuti specifici questo rinnovato anche se silente “sacco di Roma”, nulla di meglio che tornare al quartiere da cui siamo partiti, mobilitato nell’indifferenza generale con la nascita di diverse associazioni di cittadini riunite nel “Coordinamento territoriale stop I-60”. E dare qualche elemento specifico sull’intervento urbanistico da cui sono minacciati.

Qui il tono deve farsi freddo e il contenuto essenziale. Si tratta di una superficie di 22 ettari, prospicienti il Parco dell’Appia Antica, su cui gravitano quartieri fortemente urbanizzati (per la precisione Roma 70, Tintoretto-Tre Fontane e Montagnola); l’I-60 vi porterebbe, dunque, 400 mila metri cubi di cemento in 32 nuovi edifici fino a otto piani, alti trenta metri, che aggiungeranno, sono stime della regione Lazio, 5.000 nuovi abitanti stabili a un’area già densamente urbanizzata. Grandi interventi di adeguamento della viabilità? Nemmeno per sogno, sono previste solo le vie interne alla lottizzazione e tre accessi verso quelle esistenti. Alle migliaia di abitanti in più si aggiungeranno quelli attratti dai 120.000 metri cubi di servizi e strutture turistico-ricettive per centri commerciali e alberghi, per cui ne verrà moltiplicato l’impatto sulla qualità della vita della zona.

E’ lo stesso standard “palazzinaro” di un quartiere di cui si è occupata la trasmissione televisiva “Report”; precisamente “Malafede”, tra Roma e il mare di Ostia – la cui realizzazione fa impallidire anche Corviale, il “palazzo lungo un chilometro” – con la teoria senza fine di palazzoni intensivi, il cui addensamento abitativo ha rappresentato un vero e proprio tappo nell’arteria verso il mare; e questo è uno solo dei guasti che ha provocato ad opera di un nome ben noto nell’edilizia, nell’editoria e non solo, romana. Neppure una via di accesso alternativa rispetto a tale arteria, la Cristoforo Colombo che ne risulta strangolata, né un barlume di rispetto ambientale, forse in omaggio al nome del quartiere non certo benaugurale evocando un disvalore; il contrario nel non lontano quartiere dell’“Infernetto” dove a dispetto del nome ci sono casette a un piano, massimo trifamiliari, in armonia e con il tessuto urbano circostante, rispettose di ambiente e qualità della vita.

Il quartiere in questione, l’Ardeatino, è un territorio collinare di pregio, con preesistenze antiche e caratteristiche ambientali da tutelare come alberature e zone umide (Fosso delle Tre Fontane). L’ufficio Valutazione impatto ambientale della Regione Lazio ha evidenziato notevoli impatti negativi di natura ambientale su paesaggio e flora, acque sotterranee e superficiali, vivibilità e attività umane, a danno dei suoi abitanti e del bacino ben più ampio che gravita su questo polmone.

L’impatto sulla mobilità si riassume nella situazione già critica della stretta strada in gran parte non allargabile per ragioni oggettive che costeggia l’area (via di Grottaperfetta) e dell’asse Via del Tintoretto – Via Ballarin, i cui flussi sono molto rallentati, anche perché nell’ultimo decennio a Roma gli spostamenti con mezzi pubblici si sono ridotti del 25% – anche per la loro inefficienza – per cui domina il trasporto privato. A tale tendenza, per quest’area prossima al Gran Raccordo Anulare si aggiunge l’accentuarsi del pendolarismo, dovuto alla spinta a uscire dalla città per gli alti costi delle abitazioni, seguita all’ondata di urbanesimo, senza mezzi pubblici suburbani adeguati.

Ebbene, i 6000-7000 veicoli che si aggiungerebbero ai 4.500 presenti ogni ora ad intasare le due strade dell’area (Grottaperfetta e Tintoretto) formano solo loro una fila di 30 chilometri. Nell’ipotesi di equa distribuzione sulle tre vie di uscita, cioè di fuga date le circostanze, si avrebbe un traffico raddoppiato su una (Grottaperfetta) e triplicato sull’altra (Tintoretto allo svincolo di Tre Fontane).

aumento del traffico al quartiere Ardeatino

Ma non finisce qui, anche se basta e avanza, si direbbe. I programmi urbanistici, che è poco definire dissennati, prevedono nell’intero quadrante Sud-Ovest interventi per circa 17 milioni di nuovi metri cubi , con diverse centinaia di migliaia di autoveicoli aggiuntivi, come si è già riscontrato perché parte di tali interventi è stata realizzata, ma il grosso sarà contestuale all’I-60. Ebbene, della colata di cemento nel quadrante, 2.400.000 metri cubi riguarderanno le immediate vicinanze dell’I-60, con 20-30 mila auto aggiuntive: non se ne deve neppure sottolineare l’assurdo, raggiunge il diapason.

Siccome al peggio non c’è mai fine, cosa ipotizzano gli amministratori? Non il prolungamento della metropolitana che, in caso di realizzazione dell’intervento dissennato, consentirebbe di veicolare 20 mila persone l’ora senza impatto superficiale; bensì una mera linea di autobus e soprattutto degli assi viari di scorrimento che scaricherebbero sulla zona dell’I-60 decine di migliaia di nuovi veicoli di pendolari al giorno.

Ma lasciamo la parola al Coordinamento Stop I-60: “E’ pura follia pensare di dare a tutte queste auto la capacità di arrivare velocemente fino ai quartieri residenziali solo per intasarli ancora di più di quanto non lo siano ora”. Una follia che diventa attentato alla salute se si considera che l’ Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Ufficio Regionale per l’Europa in nome dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici hanno lanciato l’allarme sul rischio sanitario delle polveri sottili prodotte dal traffico automobilistico; e non è rischio ipotetico, viene fatto un elenco dei disturbi respiratori e delle patologie cardiocircolatorie ed oncologiche.

E allora le attese in parte deluse a Copenhagen? “Hic est Copenhagen!”, questa salvaguardia non dipende da organi sovranazionali o da altre nazioni, né dal governo nazionale; soltanto dalle istituzioni locali e senza intervenire sull’esistente. Basta evitare nuovi interventi dissennati. Dov’è l’esigenza pressante che li impone? Si abbia il coraggio di dirlo pubblicamente con franchezza.

Il Comitato presenta richieste chiare e precise, per evitare “una riduzione generalizzata della qualità della vita di migliaia di cittadini, da cui deriverà quantomeno un inaccettabile danno esistenziale (in senso giuridico)”. Eccole: “1) La moratoria immediata sul progetto; 2) La realizzazione, con il coinvolgimento dei comitati locali, delle necessarie valutazioni di impatto previste dalle normative regionali (VIA) e comunali (Valutazione di sostenibilità ambientale, Valutazione ambientale preliminare e Studio di impatto sulla mobilità, come previste dalle Norme tecniche del Piano regolatore di Roma); 3) La realizzazione di una Valutazione ambientale strategica (VAS) che analizzi gli impatti dell’enorme sviluppo urbanistico in corso nel quadrante, alle varie scale; 4) La realizzazione delle infrastrutture per la mobilità su ferro previste dal PRG (Metro D, prolungamento Metro B, corridoi per la mobilità su ferro) prima di avviare qualsiasi intervento edificatorio; 5) La tutela e il ripristino del Fosso delle Tre Fontane, uno degli ultimi ambienti umidi cittadini con presenza di specie animali e vegetali importanti per l’ecosistema cittadino.”

L’aspetto culturale e civile

Nell’orgia di paradossi tra il tecnico e il politico che convergono in un intervento dissennato quanto autolesionista (tranne che per gli speculatori, i “palazzinari” e i loro fautori), l’aspetto culturale è stato evidenziato da una storica dell’arte, Adriana Russo. E’ l’unico nome che facciamo tra i tanti che abbiamo visto citati e intervistati nel bel video premiato dall’Università “Roma Tre”.

Anche questo vogliamo sottolineare, il valore civile del premio che va a un filmato capace di rappresentare un dramma urbano senza enfasi né proclami ma con l’evidenza delle immagini e della realtà, la forza delle idee. L’opposto delle scene vocianti alle quali la televisione ci ha abituati, dove i toni esagitati e le grida aggressive impediscono di accedere alla conoscenza dei fatti. Qui tutto è lasciato all’evidenza, con rigore e sobrietà, e insieme con alto spirito civile.

L’Università “Roma Tre” ci aveva già dato di recente una bella sorpresa di questo tipo con la meritoria azione di suoi docenti per il recupero del Foro Italico lasciato in deplorevole abbandono, e di questo abbiamo già dato conto su www.abruzzocultura.it: altro paradosso per una giunta comunale di centrodestra e un sindaco che viene dall’Msi, dinanzi a una “damnatio memoriae” del già Foro Mussolini, forse un fatto di rimozione cui almeno finora non si pone rimedio.

Ma torniamo all’aspetto culturale preminente, messo in luce da Adriana Russo, basato sul fatto che nella zona minacciata di cui ci occupiamo più direttamente ci sono preesistenze di valore; oltre a quelle rinvenute nei primi scavi, di cui abbiamo detto e che sono documentate dalle immagini, mausolei e casali d’epoca, una strada di basolato, costruzioni del I secolo dopo Cristo. E intorno, il verde prezioso ricco di fauna avicola che verrebbe distrutta dall’insediamento abitativo; mentre quest’oasi naturale, lo ribadiamo, è un polmone per la qualità della vita dell’intero quadrante.

Ecco la storica dell’arte: “Questa zona con i suoi reperti dovrebbe restare intatta per preservare la storia culturale del quartiere. Nel contesto in cui sono collocate, pur non avendo un valore assoluto, le preesistenze ne evocano la storia romana e medioevale, la vita collettiva. Roma non è soltanto centro storico, non si possono trasformare in dormitorio anche i quartieri che finora sono stati preservati da tale degrado”.

E’ un aspetto che ci sembra fondamentale, connesso a quello della qualità della vita e della salute compromesse dall’aumento dell’inquinamento e dal disagio conseguente a 6000-7000 nuovi veicoli che nelle stesse ore si riverseranno sulle stesse strade; mentre la “minaccia” di nuove arterie intraurbane a quattro corsie per allentare la morsa aggiungerebbe danno a danno veicolando nel quartiere nuovi e ancora più ingenti flussi di traffico. Sfigurerebbe la fisionomia di un quadrante cittadino già di recente peggiorato da insediamenti massicci senza infrastrutture; ma in parte ancora preservato, e per questo va difeso: perché se l’attacco non viene respinto troverà poi vita facile altrove, e la spada di Damocle cadrà prima su Roma con oltre 70 milioni di metri cubi, poi sui non romani dato che anche in urbanistica dal laboratorio della capitale nascono veleni e miasmi per tutti.

Non si può dimenticare il titolo di scatola su “L’Espresso” di almeno mezzo secolo fa, nel grande formato in bianco e nero, fucina di inchieste e di coraggiose denunce: “Capitale corrotta nazione infetta” vale ancora di più oggi che la trasmissione dei fenomeni è immediata; ma si possono trasmettere anche fenomeni positivi, un antidoto a questi veleni. Perché un politico giovane e intemerato come Gianni Alemanno, fotografato nelle scalate e in corda doppia, dovrebbe sottrarsi a questa responsabilità che è per lui un’occasione? E perché dovrebbe sottrarsi Renata Polverini, vittoriosa alle elezioni regionali dello stesso schieramento? Insieme sarebbero impotenti contro il “last minute” di Veltroni? Neppure ipotizzarlo, se lo sono e lo saranno è segno che vogliono esserlo.
Non prevalebunt, no pasaran!

Se, dunque, si sottrarranno a un’azione in cui è in gioco – lo ripetiamo – la qualità della vita e la salute dei concittadini oltre al presumibile contagio dell’Italia intera, ciò non dipenderà da un’inesistente impossibilità e neppure da una debolezza. Bensì da un’acquiescenza, che diventerebbe complicità, ai poteri forti e agli interessi costituiti a tutti ben noti. Ma come possono prevalere se hanno contro i cittadini, le forze politiche serie e non acquiescenti? Per questo ci uniamo ai cittadini di Roma che, con il quartiere Ardeatino, si sentono idealmente impegnati in una crociata di sopravvivenza nella vivibilità la cui posta sono valori che interessano tutto il Paese.

E’ una battaglia diversa da quelle che conduciamo per la valorizzazione dei Fori Imperiali con un ponte panoramico su un parco archeologico raddoppiato e per la rivitalizzazione del Foro Italico condannato al degrado, per le quali anche chiamiamo tutti a raccolta. Qui sono messi a rischio valori irrinunciabili da difendere con un’azione collettiva per fronteggiare la minaccia del nuovo “sacco di Roma” che prelude e anticipa il “sacco d’Italia”; perpetrato con miopia o in nome di interessi speculativi contro i quali i cittadini romani e italiani che hanno a cuore la qualità della vita dovrebbero reagire con noi della Rivista a fianco degli abitanti del quartiere Ardeatino.

Si tratta di opporsi ad una prevaricazione irragionevole operando in concreto. Dei mezzi di cui si è parlato nell’assemblea abbiamo dato la sintesi riportando testualmente le richieste del “Comitato di coordinamento Stop I-60”: vanno dalla moratoria immediata alla valutazione di impatto ambientale che non c’è ed è stata richiesta finora invano rispetto alle preesistenze; si è anche evocato il ricorso al Tar contro l’illegittima formula della “compensazione” e altro ancora; soprattutto ora che è stato dichiarato illegittimo il corrispettivo della “compensazione”, cioè la “cessione” di parte delle aree al Comune, rendendo squilibrato il meccanismo residuo.

Non diamo altri particolari, ci uniamo alla battaglia di civiltà chiamando a raccolta le maggiori adesioni possibili da qualsiasi parte. Si può dire “non prevalebunt” o, a seconda delle preferenze e degli orientamenti legittimamente diversi, “no pasaran”. Divisi nelle ideologie, uniti nei valori.

http://rivista.archart.it/003711_roma-i-60-urbanistica-e-territorio-il-caso-ardeatino-parte-i/

http://rivista.archart.it/003713_roma-i-60-urbanistica-e-territorio-il-caso-ardeatino-parte-ii/

lunedì 26 aprile 2010

L'Italia spiegata alle colf filippine

Repubblica — 23 aprile 2010 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA
RAIMONDO BULTRINI ALLE PAGINE 39, 40 E 41

ZAMBOANGA (Mindanao) Come cuocere gli spaghetti al dente. Cucinare una lasagna al forno, fare il caffè con la moka. Si imparano anche i dettagli alla scuola per le colf filippine che vogliono venire in Italia: come riordinare una casa a Bari o a Roma, per esempio, o quali sono le abitudini delle famiglie del Belpaese, persino le mille parole del vocabolario che non si possono ignorare per essere una buona domestica. Anche a Zamboanga, città dell' incantevole arcipelago di Mindanao, si coltiva il sogno di tante filippine. Anche da questa scuola situata nella Casa di Carità costruita coi propri soldi da due missionari laici italiani, Mario ed Elisabeth Lizio, partono le donne che vanno a ingrossare l' esercito delle colf, molto richieste per professionalità e affidabilità, che lavorano nel nostro Paese. Il marito di Jaqui Mecansantos è già in Italia, fa il domestico a Palazzolo. «Aspettami caro, arrivo anche io», scherza mentre si fa fotografare assieme alle altre sue venti compagne del corso per colf e badanti di Zamboanga. La città della trentenne Jaqui e delle altre candidate al sogno italiano è un porto-franco dove non si pagano dazi e i grandi magazzini fanno affari con le merci scontate destinate soprattutto all' estero. L' 80 per cento del milione di abitanti è cattolico, vive al di sotto della soglia di povertà, e "presidia" l' ultimo avamposto della fede oltre il quale - tra Basilan, Jolo, Tawi Tawi - imperversano guerriglieri islamici e predoni. Jaqui è la più loquace tra le ragazze raccolte al secondo piano del Centro di Puericultura del dottor Rodes Agbulos, l' istituto che bisogna frequentare prima di iscriversi alla scuola di colf. Qui, c' è una stanza con dei letti da rifare, a turno le aspiranti donne di servizio rimboccano le lenzuola e le coperte sotto le quali sono adagiati manichini a dimensione naturale. SEGUE (segue dalla copertina) Le ragazze li sollevano dal materasso usando tutte le accortezze insegnate dagli istruttori per trattare le diverse forme di disabilità. Tra loro c' è un solo uomo tirocinante. Il motivo - dicono - è che le femmine qui sono dall' infanzia abituate ad accudire gli altri. E anche perché molti maschi sono comunque già partiti, per i Paesi del Medio Oriente, a Hong Kong e Singapore, in Malesia, o nell' altro emisfero, gli Stati Uniti e l' Europa. Sono tra gli otto e i dieci milioni gli emigrati filippini all' estero, 100mila solo in Italia, e le loro rimesse valgono il 13 e mezzo per cento del prodotto interno lordo. Jaqui è già stata a lavorare in Kuwait e in Arabia Saudita, ma sogna il nostro Paese e suo marito a Palazzolo praticamente ogni giorno, specialmente da quando i dirigenti del Centro di Puericultura di Zamboanga, dove insegnano anche Mario ed Elisabeth Lizio, le hanno promesso di completare la sua preparazione con un corso «take away» di italianità. Il pacchetto di due mesi inizierà, se tutto andrà secondo i programmi, subito dopo il tirocinio infermieristico che finisce il prossimo giugno. Prevede un migliaio di vocaboli essenziali, una cinquantina di frasi comuni, abitudini delle famiglie italiane, a partire dai dettagli sulle diverse misure igieniche, perfino il tipo di detersivo, documentari e diapositive. Si insegnano le ricette della cucina italiana, come insaporire senza troppe spezie esotiche le zuppe, le salse. A istruire Jaqui e le altre saranno Mario ed Elizabeth, appunto, principali artefici dell' iniziativa. Ma oltre ai loro consigli, l' ingresso dei candidati locali verso il nuovo mondo è facilitato da diversi altri fattori sentimentali oltre che economici. Prima di tutto Roma è la città del Papa e centro della fede cattolica trapiantata qui oltre cinque secoli fa. Al di là del buon umore contagioso delle candidate colf per l' Italia, non ci vuole molto a capire che tutte cercano di fuggire da una realtà difficile. Ma i problemi non nascono solo dalla povertà. Proprio dirimpetto alle coste di Zamboanga coi suoi 19 porti, si estende il Far West di Basilan e Jolo, dove operano i separatisti islamici «moderati» del Fronte Moro, gli spietati guerriglieri filo Al Qaeda di Abu Sayyaf oltre a bande di ex pirati, contrabbandieri e rapitori su commissione. Anche Elizabeth e Mario, pur non essendo ricchi, sanno che il pericolo è sempre in agguato. Prendono infatti diverse precauzioni, prima tra tutte quella di «vivere in amicizia con i nostri vicini che abitano nelle baracche in condizioni miserabili», come spiega "fratel" Mario. I Lizio hanno sette figli, e alloggiano sulle colline di San Roque, ai piani superiori della Casa di Carità che ospita i corsi integrativi di colf e badanti che sperano in un ingaggio in Italia. Nel grande salone dove insegneranno usi e abitudini del Belpaese, hanno affisso mappe geografiche dello stivale e delle isole, copie di dipinti celebri del nostro Rinascimento, vedute idilliache delle città storiche. Sul tavolo fanno bella mostra pile di libri divulgativi della storia e del costume, ricette, dizionari di italiano, chavacano e tagalog (la lingua nazionale filippina). In un' altra stanza sono le cucine con i fornelli e le attrezzature. Elizabeth è stata anche premiata dalla presidente delle Filippine per l' impegno della sua Ong (http://www.lafilippiniana.it) in una parrocchia di Cerro sul lago Maggiore, dove già addestrava all' "italian way" centinaia di domestici e badanti suoi connazionali, Poi nel 2008 i coniugi hanno deciso di venire qui e lavorare alla fonte del flusso di immigrazione, tradizionalmente concentrato più a nord, nelle province di Luzon e nel resto dell' Arcipelago di 7000 isole dove vivono quasi 100 milioni di abitanti. Ma come sempre le scelte difficili incontrano anche ostacoli sul cammino. I corsi di Mario e «Lisa» a Zamboanga non hanno infatti ancora le autorizzazioni per essere avviati ufficialmente, e allora hanno deciso di iniziarli gratis, in attesa dei tempi della burocrazia locale e - "perché no?" - di una grazia della Madonna del Pilar, alla quale si rivolgono da secoli con immutata fiducia gran parte dei cattolici locali. Jaqui, Donavel e molte delle altre tirocinanti hanno già detto che pagherebbero volentieri i 15mila pesos, poco meno di 250 euro, richiesti per le spese di manutenzione del centro. Il problema è che nessuno può garantire un ritorno del relativamente gravoso investimento. Il sogno si può realizzare solo se ci sarà una chiamata diretta dall' Italia di qualche famiglia o struttura ospedaliera, sia tramite il centro di formazione di Mario e Lisa a San Roque, che attraverso i consolati o le ambasciate, vincolate a rigide normative di selezione. A dare meglio l' idea del tipo di immigrazione che parte da Zamboanga, c' è da dire che sia Jaqui, che Donavel e le altre, appartengono a una classe media educata, sebbene a basso reddito. Ma nemmeno loro sono sfuggite in passato ai venditori di viaggi dell' illusione. «Ci sono agenzie di cosiddetto collocamento - spiega Jaqui - che mettono volantini alla ricerca di manodopera o si pubblicizzano su Internet. Spesso incassano gli anticipi dopo un colloquio al ristorante o a casa di noi candidati, e - se non sono già spariti subito - ti abbandonano senza troppi complimenti su qualche molo straniero dopo aver preso il resto dei soldi». Di certo i filippini sanno che nemmeno l' Italia è la terra dove si materializzano le fiabe. Tra le bancarelle dei mercati e nei negozi di Dvd va a ruba il film Milan, a metà tra il polpettone sentimentale e il documento-verità sulla triste sorte dei clandestini diretti verso i nostri confini, spesso vittime di trafficanti e connazionali senza scrupoli. Mostra che il viaggio della speranza può trasformarsi in un incubo, senza l' aiuto di un' istituzione e lo spirito caritatevole di qualche buon samaritano. Da parte loro le studentesse della scuola di colf e di quella di puericultura ce la mettono tutta. Anche a costo di bruciare molte padelle per imparare a cucinare spaghetti aglio e olio.
RAIMONDO BULTRINI

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/04/23/nella-scuola-delle-colf.html

Nelle Filippine l'altra vita delle nostre colf

di PAOLA ZANUTTINI

MANILA - Quattro ore a sud di Manila, nella provincia di Batangas, c'è Pulong Anahao, meglio noto come Villaggio italiano. L'architettura non c'entra niente, queste villette leziose e colorate non assomigliano alle nostre, però sono italiani i soldi con cui sono state costruite, perché Pulong Anahao e tutta la provincia sono la prima centrale di emigrazione del lavoro domestico filippino verso Roma, Milano e le altre città del nord. Vengono quasi tutti da lì i novantamila filippini, in prevalenza donne ( 63 per cento) che vivono e lavorano in Italia.

Occupandosi delle nostre case sono riusciti a costruirsi le loro. Hanno anche fatto studiare i figli e garantito alle loro famiglie un benessere altrimenti impossibile, visto che lo stipendio di un laureato a Manila equivale a 240 euro e quello di un lavoratore non qualificato non arriva alla metà.

Nelle Filippine, per un decimo della popolazione, cioè per nove milioni di persone, l'emigrazione è l'unica possibilità. Dopo indiani, cinesi e messicani questo è il popolo che emigra di più, presente in 190 paesi, senza considerare i mari, dato che un terzo dei marittimi mondiali è costituito da filippini.

Il grande impulso a questa diaspora si deve all'ex presidente Ferdinando Marcos che, negli anni Settanta, diede così ossigeno all'economia comatosa e si levò di torno comunisti e scontenti. Ma oggi l'economia filippina non può fare a meno degli emigrati: il 14 per cento del Pil dipende dalle loro rimesse, prima fonte di valuta pregiata. Quelle bancarie del 2006 ammontano a 16 miliardi di dollari. E ora che riaprono le scuole, con tutti i soldi arrivati per le iscrizioni, il dollaro è sceso di tre punti.

Tutto questo denaro non è riuscito a costruire le condizioni che permettano agli emigrati di tornare: la maggior parte progetta di farlo dopo pochi anni ma poi sta via una vita. Quasi nessuno è capace di investire i guadagni all'estero in un business a casa.

Le Ong si impegnano nel formare al risparmio e all'impresa gli emigrati, il governo molto meno. E partire resta il primo sogno di ogni giovane filippino: svende lauree e diplomi conseguiti grazie al lavoro all'estero dei genitori, per andare a svolgere le stesse mansioni: colf, operaio, tutt'al più tecnico. Solo poche fortunate, il 4 per cento, riescono ad essere assunte come infermiere, ma succede prevalentemente negli Stati Uniti, nella Penisola Arabica e in Inghilterra.

Se, da fuori, e case di Pulong Anahao non assomigliano alle nostre, dentro l'Italia si riconosce, eccome: la stessa aria di sogno realizzato che c'era nel salotto incellofanato dei nostri emigranti. Che tornavano solo ad agosto ma investivano tutto sulla casa per dimostrare a chi restava quanto valeva la loro fatica nelle miniere belghe o alle catene di montaggio tedesche.

Le macchine in garage, le cucine superaccessoriate, i simboli del benessere nascondono però un malessere sempre più diffuso. L'emigrazione sta minando le famiglie, che restano il cardine della società filippina. Dice Mai Añonuevo, presidente della Ong Atikha, che si occupa degli emigranti e dei loro familiari: "Le donne partono e i mariti non sanno cambiare ruolo. I bambini sono quasi sempre affidati alle nonne e alle zie materne o alle figlie più grandi che, a dieci anni, si accollano la responsabilità. Molti uomini lasciano il lavoro, il confronto con lo stipendio della moglie li umilia. Alcuni risolvono la solitudine con altre donne. O con l'alcol".

Anche che i bambini left behind, lasciati indietro, non beneficiano poi tanto della ricchezza procurata dai genitori lontani, per i quali sviluppano spesso un rancore inespresso: "La migliore delle zie o delle nonne non vale una mamma" sentenzia Leona Hernandez, 59 anni, che ha otto fratelli e cinque figli su sette emigrati in Italia. "Ho solo un nipote e sono contenta che lo tengano con loro. I bambini lasciati, a cui mostriamo sempre le foto dei genitori per evitare che non li riconoscano quando tornano, vanno incontro ad alcol, droga, cattive compagnie, matrimoni affrettati".

(7 giugno 2007)

http://www.repubblica.it/2007/04/sezioni/cronaca/venerdi-994/venerdi-1003/venerdi-1003.html?ref=search

Fire devastates Philippines slum

The fire spread rapidly through the slum in Quezon city just outside Manila [Reuters]

Thousands of families in the Philippines have been left homeless after a fire swept through a shantytown outside the capital Manila.

Local officials say at least 600 houses were destroyed by the fire in Quezon city, which began on Sunday afternoon.

No fatalities were reported but one person was hospitalised with first degree burns, and two others were reported missing.

Many of the residents said they were unaware of the fierce fire until their homes were already burning.

Intense blaze
Thousands have families are now homeless after the fire swept through the slum [Reuters]

The city's mayor said that schools would serve as evacuation centres for the homeless slum residents.

The blaze spread rapidly through the slum, fanned by strong winds and the intense summer heat.

Firefighters struggled to penetrate alleys, which were clogged by people trying to save their belongings.

Many residents wept as they watched their houses and their few belongings consumed by the fire.

"We failed to save anything except our clothes," Glen Sardon, a resident, told the Associated Press.

The fire occured hours after fire volunteers in the city held an event aimed at enhancing their skills in firefighting.

Fires are common in the metropolis of 12 million, especially in shanty areas where houses are densely packed together.

http://english.aljazeera.net/news/asia-pacific/2010/04/2010426412960617.html

"I gatti persiani". Un film racconta la meglio gioventù iraniana

Nella sua ultima opera il regista Bahman Ghobadi descrive la generazione di Neda e della rivoluzione verde. A ritmo di rock

Boris Sollazzo
Qualcosa, forse, è veramente cambiato. Eravamo abituati a cineasti iraniani simili a sfingi sornione, che giravano film (e parlavano) per poetiche metafore. «Lo facevo anche io, andavamo nelle zone periferiche del paese - quelle dei cittadini di secondo o terzo livello come me che sono curdo e pure sunnita - e parlavamo di bambini e vecchi, di vita e di morte. E da avanguardia siamo diventati ripetitivi, e il cinema iraniano rischia di scomparire». A parlare è Bahman Ghobadi di Teheran, uno che le metafore le ama eccome, ma per essere più diretto che con le frasi normali. E lui è il regista de I gatti persiani (nelle sale italiane, in 40 copie per Bim), uno spaccato giovanile iraniano di grande forza e coraggio. «Nel vostro Iran non ci riconosciamo. L'Iran è una bella ragazza - non dimenticate che Iran è un nome da donna, è il nome di mia madre - velata da uno chador e che indossa grandi occhiali coprenti. Noi con questi film dobbiamo svelare il vero volto del nostro paese: quello degli artisti e dei giovani che vogliono fare musica, per esempio, quello vitale e pieno d'energia. Quello che rifiuta i muri che proibiscono l'arte, l'amore, il sesso. L'Iran è uno splendido paese, che amo. Così come Teheran è una città unica. E sono nostre, di chi viene cacciato dal regime o costretto a fuggire, non di chi ci imprigiona o ci fa andar via, del clero o della politica nucleare».
Minuto, determinato, appassionato, un velo di tristezza passa su di lui parlando del collega Panahi. «Ho paura che possano spezzarne l'animo, ucciderne l'arte. Lui è molto sensibile e l'esperienza della prigione in Iran molto dolorosa. Io stesso, dopo aver presentato il film a Cannes (con successo di pubblico e di critica - ndr) sono rientrato nel mio paese dal Kurdistan, sperando di non essere intercettato. Ma mi portarono in cella, dal 2 al 9 giugno scorso. E anche la mia compagna, e cosceneggiatrice, ha subito la stessa sorte. Artisti e giovani fanno paura, non permettono un controllo totale della società».
Insiste sui giovani, pensando a quei ragazzi, ora fuori dal paese come lui, che ha seguito nel suo bel film. «Anche se non si parla mai del valore artistico del mio lavoro, perché il dramma è anche questo: nel nostro paese l'arte è costretta ad essere politica». Ghobadi segue una delle 3000 band di rock underground che suonano clandestinamente nella capitale, in studi ricavati, con isolamenti di fortuna, in mansarde o stanzette. Pedina il motorino di Nader, alla ricerca di nuovi componenti, di passaporti per espatriare, di giovani artisti con cui confrontarsi. «Vogliono esprimersi e raccontarsi, molti che non ci riescono così, anche a causa dell'enorme disoccupazione, si danno all'alcol e alla droga».
Ghobadi racconta della lavorazione «piena di stress, urgenza, passione, preoccupazione: quella che si sente nel film, perché nulla è falso o inventato per romanzare, e quella che avevamo noi addosso. Sapevamo che poi saremmo dovuti andar via, che non avremmo lavorato a lungo nel nostro paese, ma volevo lasciare qualcosa prima di farlo». E ricorda, soprattutto, «quel fermento che poi sarebbe esploso dopo le elezioni. Lo sentivamo, abbiamo girato cinque o sei mesi prima della rivoluzione verde». E nonostante il dolore e la nostalgia - vive e lavora, ora, tra Iraq, Germania e Usa - è ottimista. «Con Khatami ci fecero illudere. Giocammo in un campo di calcio pieno di polvere, ci presero in giro, ci accecarono. Ora i nostri ragazzi hanno respirato per un secondo, dopo che la mano forte del regime aveva loro tenuto la testa sott'acqua. E ora gliel'hanno rispinta dentro. Ma sanno che respirare è possibile, che quella mano non è più così forte. Io conto di tornare in tre-quattro anni in un paese diverso. E ora mi chiedo: rimanere fuori, organizzando un festival e un workshop in Iraq, producendo due giovani registi iracheni, lavorando al film che mi censurarono per tre anni in Iran, 60 secondi di te e di me , sulla pena di morte, essere testimone e ponte per raccontare la mia patria, o tornare e farmi mettere in carcere, lottare come fa Panahi? E' una scelta difficile. Comunque so che dopo tanta censura, e anche autocensura - che fanno sì che il 90% della cultura iraniana sia clandestina o sconosciuta - ora voglio essere un rivoluzionario, un militante del cambiamento».
E così I gatti persiani è qualcosa di più del bellissimo film che vedrete, della musica inaspettata e trascinante che sentirete. Di quella regia e di quelle location che il cinema iraniano non ci ha mostrato (quasi) mai. Non è solo un'opera intensa, implacabile in quel finale angusto, piena di ritmo ed emotività mai retorica. E' anche una fotografia della nuova generazione di fenomeni iraniana. Di una meglio gioventù che non vuole farsi piegare. Di giovani che «come gatti persiani sono sensibili, e come loro non possono essere liberi nel nostro regime. Ma che sanno graffiare». E Ghobadi si è riservato i diritti del film per l'Iran. «Così posso diffonderlo lì, gratuitamente e illegalmente, ovvio». Ovvio.

Liberazione 25/04/2010, pag 14

La rete della rivolta. Come i blog stanno già trasformando il paese

«Il 70 per cento degli iraniani ha meno di 30 anni. Nel 1979, quando la rivoluzione islamica dell'ayatollah Rouhollah Mussawi Khomeini mise fine alla monarchia dei Pahlavi, questi giovani non erano nemmeno nati. Loro sono i figli di una rivoluzione che non hanno fatto, che non hanno voluto e che sempre hanno contestato. Solo questo totale rifiuto della cultura teocratica e delle rigide regole imposte da una rivoluzione non voluta, giustifica la presenza coraggiosa, e in un certo senso anomala, di molti giovani, in gran parte non politicizzati, nelle strade di Teheran, Isfahan, Shiraz e tante altre città iraniane». Nato a Teheran nel 1951 da padre iraniano e madre italiana, Ahmad Rafat vive in Italia è fa il giornalista, è corrispondente nel nostro paese dell'emittente televisiva statunitense Voice of America , e nel 2008 ha ricevuto il Premio Ilaria Alpi. Con Iran. La rivoluzione online , che ha pubblicato per l'editore fiorentino Cult (pp. 157, euro 16,00), ha tracciato il primo ritratto dell'"onda verde che travolge il paese degli ayatollah"; un volume, coreddato da decine di foto che documentano le proteste dei giovani iraniani, che offre una sorta di documentazione in diretta dal cuore stesso del movimento che, sorto per contestare l'esito delle elezioni presidenziali del 2009, annuncia di voler cambiare totalmente il paese. Mettendo insieme, nella sua strategia, le piazze e la rete.
«"Twitter Revolution", è il nome che la stampa internazionale ha dato alla nuova ondata di proteste in Iran», spiega Rafat, indicando il ruolo che i social network hanno avuto fin qui nella rivolta persiana: «Twitter entra in scena subito dopo l'annuncio dei risultati elettorali e l'inizio delle manifestazioni come mezzo più efficace per tramettere notizie in tempo reale, utilizzando non i computer ma i telefoni cellulari, sulle manifestazioni. In poche ore, Twitter diventa uno strumento indispensabile per i manifestanti. E' grazie soprattutto a questo strumento che le manifestazioni in Iran vengono coordinate tra loro». Già per gli strumenti che adotta, l'onda verde segnala quanto la società civile iraniana sia cresciuta a dispetto della rigida censura adottata dal regime. «Il numero dei blog generati dagli iraniani in lingua farsi, inglese, francese, tedesco, italiano e tante altre non è conosciuto - spiega Rafat, prima di aggiungere -, ma per avere la dimensione della diffusione del fenomeno tra gli internauti iraniani, basti pensare che il farsi è la terza lingua utilizzata dai blogger nel mondo. Un altro dato interessante è il numero degli iscritti a blogfa, la prima e la più importante piattaforma per i blogger iraniani. Sono oltre due milioni le persone che utilizzano i servizi di questa piattaforma. Il fenomeno è talmente diffuso nella Repubblica Islamica, che l'hanno scorso il governo presieduto da Ahmadinejad ha presentato un progetto per il finanziamento e la realizzazione di 10mila blog da mettere a disposizione dei miliziani dei Basij e dei militari dei Pasdaran». Difficile credere che la repressione potrà avere la meglio su una simile insorgenza sociale, su un movimento che, come ha scritto un giovane iraniano sulla sua pagina su Facebook, immaginando la vittoria dei "verdi", «ha archiviato la violenza, ha consegnato ai musei fucili e cannoni ed è stato capace di trionfare con l'uso dei nuovi mezzi di comunicazione sociale».
Gu. Ca.

Liberazione 25/04/2010, pag 14

Far East Film l'Asia torna a Udine

Federico Raponi
La Settima Arte asiatica torna ad Udine, il "maggiore avamposto cinematografico orientale d'Europa", per il 12° Far East Film Festival (23 aprile-1° maggio). 72 i titoli proposti, provenienti da 9 paesi, con 24 anteprime internazionali, una mondiale e 5 opere prime a testimoniare la rinascita di Hong Kong dopo anni di crisi e la buona stagione giapponese, in compensazione della fine del boom coreano. Dopo la pre-inaugurazione con Johhnie To - regista di Hong Kong già 4 volte ospite d'eccezione - presente all'anteprima nazionale del suo Vengeance ("Vendicami", in uscita il 30), la "notte gialla" di oggi animerà il centro cittadino con performance, sfilate (con tanto di travestimenti "cosplay"), la scuola Wu shi tao che porta in strada draghi giganti e riti al ritmo di tamburo, e infine dj set. Tra le opere in concorso, film della Repubblica Popolare Cinese, in particolare kolossal storici di propaganda come The Founding of a Republic , prodotto per celebrare il 60° anniversario della RPC.
Due le retrospettive, una delle quali dedicata alla Shintoho, una delle più famose case di produzione giapponese (fondata nel 1947 e fallita nel 1961), specializzata in noir e thriller popolari ma capace anche di musical e melò, che ha prodotto più di 500 film iniziando con maestri come Kurosawa e Ozu; 15 i film scelti, la maggior parte dei quali invisibili in Occidente. L'altro approfondimento, iniziato nelle scorse edizioni, è sulla storia recente del cinema di Hong Kong, con 7 lavori degli anni '70 di Patrick Lung Kong, attore, sceneggiatore e regista anticipatore della New Wave hongkonghese anni ottanta mai arrivato da noi. In programma, infine, anche la prima edizione di "Eave ties that bind" (legami che uniscono), workshop per produttori europei ed asiatici.

Liberazione 23/04/2010, pag 9

Costruiamo assieme un campo di forze a sinistra. Il bipolarismo deve saltare

Paolo Ferrero Segretario del partito
della Rifondazione Comunista

Tonino Bucci
Dopo le regionali Rifondazione comunista si guarda attorno. Nell'immediato c'è un campo di forze da ricostruire, un polo autonomo a sinistra del Pd in grado di sbloccare un sistema politico autoreferenziale, incardinato sul bipolarismo. Le questioni alle quali risponde Paolo Ferrero sono tante: il futuro della Federazione, i rapporti con Sel, l'emergenza democratica in questo paese, un'opposizione sociale da rimettere in piedi.

La novità politica è la rottura tra Fini e Berlusconi, tra due visioni differenti della destra. Cosa facciamo noi, restiamo spettatori o azzardiamo un'analisi?
La divisione nel Pdl è vera. Da un lato, c'è una destra fascistoide, minacciosa verso la democrazia, profondamente antipopolare. Dall'altra, una destra moderata, con connotati liberali e alcuni elementi di cattolicesimo, con un suo senso del solidarismo e di rispetto delle regole. Fini assomiglia ai conservatori inglesi o alla Merkel, mentre un Borghezio va a fare le manifestazioni con i neonazisti. Noi siamo interessati a che questo conflitto si allarghi. Per il bene della democrazia dobbiamo operare affinché la destra fascista si divida dalla destra moderata. Oggi in Italia, porsi l'obiettivo di dividere le destre e di salvaguardare la democrazia è tutt'uno con la rottura del bipolarismo. Finché ci sarà il maggioritario e questa schifosa Seconda repubblica, il populismo e il berlusconismo saranno sempre egemoni. Sarebbe da pazzi voler mantenere il bipolarismo - come pure ritiene parte del centrosinistra. Sono proprio questi i migliori alleati di Berlusconi. Anche quelli che urlano tantissimo contro Berlusconi ma vogliono mantenere il bipolarismo sono quelli che, in fondo, gli garantiscono di vincere.

Per quel che riguarda la crisi, però, non pare che la destra finiana o moderata abbia ricette diverse. O no?
Questa destra - Lega compresa - sta scaricando i costi della crisi sugli strati più deboli della società, sul mondo del lavoro ma anche sul popolo della partita iva e sugli artigiani. Per questo è bene che la destra si divida, ma questo non risolve il problema. E' un punto decisivo. Quanto più destra e Confindustria distruggono i legami di solidarietà, perseguono politiche antisociali e alimentano la guerra tra poveri, tanto più le pulsioni populiste trovano una base di consenso. Da questo punto di vista, la destra moderata non può produrre alternative a Berlusconi. Noi siamo interessati che ci sia questa spaccatura tra destra finiana e destra berlusconiana. E che si rompa la gabbia del bipolarismo. Detto questo, anche la destra moderata è priva di risposte alla crisi. Non basta - come qualcuno pensa - appoggiare la destra moderata. Il "frontismo", allargato all'inverosimile sino a Fini, non garantisce per nulla la sconfitta della destra fascistoide e berlusconiano. L'attacco sociale della destra, in assenza di contrasti, crea i presupposti del proprio consenso, allarga il bacino in cui pesca, aumenta la passività della società nei confronti della politica. La destra populista continua a macinare voti a prescindere dai pezzi di ceto politico che si staccano. Così sarà finché non si demistifica il carattere antisociale delle sue politiche. A cominciare dal nord in cui la Lega - al di là della propaganda - svolge una politica antipopolare. Non è vero che la Lega sta difendendo il nord contro il sud. La verità è che sta difendendo i privilegiati. E' tutta demagogia. E' vero che prende i voti degli operai. Ma li sta tradendo.

La Lega è in difficoltà persino col suo blocco sociale di sempre, gli artigiani...
I sette morti suicidi tra i piccoli imprenditori in Veneto la dicono lunga in una regione in cui la Lega governa da anni. Non stanno facendo nulla per risolvere la crisi. Secondo me sbaglia sia chi si disinteressa di quel che accade nella destra, sia chi fa il tifo per Fini e pensa a un fronte allargatissimo. Bisogna fare due cose. Una sul piano del sistema istituzionale, cioè fare alleanze per spaccare il bipolarismo. L'altra, costruire l'opposizione sociale e demistificare il carattere antipopolare delle politiche che la destra sta facendo. Sul contratto nazionale di lavoro non vedo differenze tra una parte del centrosinistra, Fini e gli altri.

Qui ci sono due posizioni in campo. La prima è che di fronte al pericolo per la democrazia sia necessario fare alleanze più larghe possibili, mettendo in subordine tutto il resto. L'altra, che per ridare fiato al conflitto sociale, bisogna coltivare l'isolamento. Come se ne esce?
Sono entrambe sbagliate. Noi vogliamo costruire una terza via. Sul piano della difesa della democrazia farei l'alleanza anche col diavolo. Sull'altro piano, bisogna lavorare per costruire una vera opposizione sociale, foss'anche a partire da un singolo tema. Se il Pd, per esempio, ci stesse a fare una battaglia politica per la redistribuzione del reddito in questo paese, io lo considererei un fatto positivo. In questo quadro considero il referendum sull'acqua un punto importante di aggregazione. E' una proposta radicale perché mette in discussione il principio secondo cui tutto andrebbe ridotto a merce. La difesa dell'acqua come bene pubblico è un problema materiale, certo, ma anche simbolico. E' una battaglia anticapitalista. Allo stesso modo, nella difesa della dignità del lavoro, nella lotta contro la precarietà e per l'occupazione possiamo trovare convergenza con altri soggetti, col sindacalismo, con la Fiom, con parte della Cgil, con l'associazionismo, con l'Arci. Per riassumere, il massimo di alleanza contro il bipolarismo e le modifiche della Costituzione, e l'individuazione di temi e battaglie attorno a cui mettere in piedi una soggettività alternativa. Nel movimento di Genova, nel 2001, c'erano oltre a Rifondazione, l'Arci, la Fiom, l'associazionismo. Poi arrivò la Cgil di Cofferati con la battaglia a difesa dell'articolo 18 e il pacifismo. Queste sono le forze da cui bisogna ripartire, il motore dell'opposizione sociale. La pratica del partito sociale deve allargarsi e occorre proseguire, in basso a sinistra.

Questo è quello che Tronti definisce un accumulo di forza, una massa critica in grado di durare e di incidere. C'è da fare una scelta strategica: o si costruisce un campo di forze autonomo dal Pd, in grado di stare sulle proprie gambe e di fare o non fare le alleanze, oppure si rifà l'Unione all'interno del bipolarismo con la certezza di poter sopravvivere. Qual è la strada?
Ce lo dobbiamo dire con chiarezza. La seconda strada preclude la possibilità di starci da comunisti. Quello che è accaduto alle regionali in Lombardia è emblematico. Le forze che sostengono il bipolarismo - come una parte del Pd - sono anche quelle che pongono la pregiudiziale anticomunista. L'impianto veltroniano è un impianto integralista, non pluralista. Veltroni preferisce perdere con Berlusconi, piuttosto che allearsi con i comunisti. Chi pensa di potersi ritagliare uno spazio nel bipolarismo è molto meno realista di quanto pensi. La strada percorribile è quella di un autonomo campo di forze che cerca convergenze diversificate a seconda dei terreni: convergenze più larghe sulla questione democratica, minori sulle questioni sociali rispetto a cui le differenze pesano di più. Non ci sono alternative.

Con Bersani è diverso?
Ci sono margini in più, lo si vede dall'appello odierno di Bersani che noi giudichiamo positivo. Il profilo del Pd rimane moderato ma non c'è più la presunzione dell'autosufficienza. Ma questo non significa che si possa rifare l'Unione come sembra continui a pensare Vendola. Sarebbe un errore madornale. Ripeto, un conto sono le alleanze per la difesa della democrazia che si possono fare anche con Casini, altra l'opposizione sociale. Se perdiamo questa bussola rischiamo di cadere o nell'isolamento - che a noi non porta nessun vantaggio, a differenza dei grillini - o nella subalternità e così i voti operai vanno a Bossi. Rischieremmo di rifare la fine del 2006. Abbiamo costruito un campo di forze, ci siamo spesi la credibilità all'interno del bipolarismo e siamo stati massacrati. Vendola continua a proporre questa strada, magari con qualche accento sociale in più, ma la sostanza non cambia. Siamo disponibili a sommare i voti con chiunque per battere Berlusconi, ma questo non vuol dire fare accordi di governo. Siamo nella più grande crisi dal '29 a oggi. La prospettiva della rifondazione comunista ha oggi questo significato: individuare la strada dell'uscita dal capitalismo in crisi.

Qual è la linea della Federazione nei confronti di Sel: competizione o convergenza?
Sel è una nostra interlocutrice per la costruzione di questo campo di forze. So che è attraversata da un dibattito, se rifare la coscienza critica del centrosinistra o costruire un'alternativa. La Federazione propone a Sel un percorso unitario, sia nell'opposizione sociale sia nei passaggi elettorali. Il caso delle Marche, dove noi e loro siamo andati assieme, ha favorito l'aggregazione di un campo di forze, senza che nessuno rinunciasse alla propria specificità. Avanziamo a Sel e alle altre forze della sinistra la proposta politica di costruire insieme il campo della sinistra politica, sociale, culturale.

Nel frattempo non è che la Federazione susciti molti entusiasmi. C'è chi la ritiene un doppione inutile, un dispendio di energie, un pacchetto preconfezionato che non attira. Si torna indietro?
Assolutamente no. La Federazione è un passaggio giusto. Irreversibile. Bisogna mettere assieme le forze che ci stanno. Se tornassimo indietro sarebbe la dimostrazione che riesci a dialogare solo con te stesso. Le difficoltà ci sono, certo. C'è una crisi della politica che coinvolge anche noi, si perde molto tempo a discutere di assessorati. Finora, per via dei passaggi obbligati delle elezioni, la Federazione ha una fortissima accentuazione centralistica, occorre modificarla. Bisogna discutere su come andare avanti e migliorarla, rendendola un vero soggetto aperto alla partecipazione e al protagonismo dal basso.

Rifondazione ha un grave problema nella comunicazione. Nel suo piccolo "Liberazione" ha fatto un miracolo di risanamento aziendale dal quale persino Tremonti avrebbe da imparare qualcosa. Però adesso c'è bisogno di fatti, di abbonamenti, di diffusione militante. Cosa è disposto davvero a metterci il partito?
Sono completamente d'accordo. Liberazione deve essere il giornale che lavora coscienziosamente e quotidianamente alla costruzione di questo campo di forze. Il punto non è la dipendenza burocratica del giornale dal partito, ma il ruolo attivo nel progetto politico. Il partito deve lavorare di più nella diffusione del giornale e della rivista. C'è una sinergia da costruire. Il partito si deve impegnare sul piano militante. Liberazione è il suo giornale, il suo progetto. C'è poi il problema complessivo della comunicazione e la riflessione su internet ancora da fare.

Liberazione 25/04/2010, pag 5

Cosa si fabbrica in Sinistra e libertà?

Cosa succede nella coalizione guidata da Nichi Vendola. Il dibattito si polarizza e il congresso slitta

I dubbi di Sel: fabbrica o partito?
Dentro o fuori dal bipolarismo

Checchino Antonini
Fabbrica o Partito? Insomma, quale sarà il destino di Sinistra ecologia e libertà? Voleva essere il nuovo che avanza e invece sconta un risultato elettorale striminzito dentro cui spicca solo la figura del suo leader, Nichi Vendola, un po' innovatore e un po' populista.
L'ultima a uscire è stata Katia Bellillo da Perugia. Ministra con D'Alema e Amato, era uscita dal Pdci con Umberto Guidoni all'indomani della disfatta arcobaleno. Ora lascia anche Sinistra ecologia e libertà che pure aveva contribuito a far nascere. Ha scritto a Vendola per dirgli che vorrebbe lavorare più liberamente per «superare la diaspora» tra le due formazioni della sinistra. Una divisione che giudica «insensata». Ora dice di sé di essere una «nomade, ma vicina alla Federazione» e di lavorare all'«abbattimento di steccati». Pensava alla Linke e, invece, s'è ritrovata in un recinto striminzito e litigioso. Va via per «ritrovare la passione politica e le ragioni della sinistra, quelle dell'emancipazione delle persone e del lavoro e contro il sistema bipolare». Insomma il dibattito che sembra tagliare in due Sel - Fabbrica o Partito - non l'appassiona perché tutto subalterno al bipolarismo.
Ma quel dibattito è tutt'altro che risolto. Alle voci che Nichi Vendola non ne possa più della sua creatura si è sovrapposta la smentita di Elettra Deiana che ha messo in rete, sul sito ufficiale, il resoconto del comitato nazionale di Sel (coordinamento nazionale più comitato scientifico più coordinamenti regionali) contro le ricostruzioni di fantasia. Da parte sua, Fabio Mussi, altro socio fondatore, rivendica posti per Sel nelle giunte di centrosinistra. Rivendica la palma di terza forza del centrosinistra ma si scontra con la medesima rivendicazione firmata da Riccardo Nencini per conto del Ps. Chi bara? Mussi o Nencini che conta tra i suoi anche i socialisti eletti con le liste di Sel? Questo è uno dei punti. Dove elegge la coalizione vendoliana elegge socialisti o, comunque, "signori della preferenza", anche in Puglia (e tutti maschi). E, comunque, è dentro la crisi della sinistra anche lei. Al punto che sembra difficile rivendicare a sè il successo di Nichi che, invece, dell'inadeguatezza di tutti, senza eccezioni, ha parlato spesso, ad esempio al congresso dell'Arci. Così, mentre Claudio Fava preme perché Sel «non sia più una somma di storie ma diventi stabile sostanza politica» e indica le date del congresso rinviato a dopo l'estate (22-24 ottobre), Nichi, concludendo i lavori del 17 ultimo scorso, lanciava gli stati generali dell'associazionismo, del mondo sindacale e politico e della cultura» per un altro percorso progettuale. Ricorda molto il big-bang della sinistra auspicato da Bertinotti e, infatti, i due sono più vicini che mai.
La nuova polarizzazione, tuttavia, descrive una geografia interna che non coincide più con quella delle storie di origine. «Se proprio la vogliamo vedere la polarizzazione c'è solo da parte di chi non ha ancora compreso cosa siano le Fabbriche, luoghi di sperimentazione, di iniziativa, in Puglia sono stati anche comitati di scopo per l'elezione di Nichi - spiega a Liberazione Gennaro Migliore - ma non saranno concorrenti del partito, ossia non si presenteranno alle elezioni autonomamente. Credo che il partito sia necessario e il 25 aprile partirà il tesseramento. Le Fabbriche, che non sono un luogo di Sel ma sono frequentate anche da chi vota per altri partiti del centrosinistra, cominciano a spuntare, ognuna ha un comitato di gestione, sono collegate tra loro da pratiche, percorsi e obiettivi: costruire forme più democratiche e una nuova generazione politica. Sel deve apprendere da quelle modalità».
«Il dibattito è appena abbozzato, la cosa che temo di più è che si crei una contrapposizione tra le Fabbriche e una cosa che somigli a un partito, a un soggetto non liquido - interviene Alfonso Gianni, che nella cartografia di Sel si potrebbe collocare al centro di quella polarizzazione - evitiamo di considerare le Fabbriche come gli organismi di massa di un partito oppure di considerarle come totalmente autonome, strutture di base di un'altra cosa. Sarebbe davvero innovativo considerarle uno dei modi con cui il partito si organizza nei territori. Per questo ho evocato la discussione che ci fu, all'inizio degli anni 70 nel Pci, sul rapporto tra consigli di fabbrica e sindacato. Il rapporto classico tra partito e movimento non c'entra perché il movimento è un corpo sociale, le Fabbriche sono già aggregazioni di tipo politico».
Insomma tutti gli interlocutori disconoscono il quadro tratteggiato al termine del comitato nazionale ma il quadro resta fluido dentro e fuori Sel a partire dai movimenti nell'area dell'ex pm De Magistris dopo l'irrigidimento di Di Pietro sulla questione referendaria. Il quesito ambiguo e l'atteggiamento annessionista dell'ex di Mani pulite sta creando più di un imbarazzo alla periferia dell'Idv. Resta aperto anche il carattere populista della suggestione delle Fabbriche, cosa che nemmeno lo stesso Vendola negherebbe. Sarebbe un populista "antipopulista" e la sua fortuna sulle colonne dei giornali del gruppo De Benedetti sarebbe proprio in questa sua capacità implicita di stare dentro il bipolarismo e di salvarlo.
Per fortuna il quadro è fatto anche da movimenti concreti: dalla primavera referendaria alla costruzione del seguito alla manifestazione del 13 marzo, di un'opposizione sociale efficace al governo - anche col Pd. Ieri la Federazione della sinistra ne ha discusso in due incontri, prima con Bersani (quello del Pd), poi con una delegazione di Sinistra e libertà: «Gli incontri sono stati positivi - dice alla fine Paolo Ferrero - c'è una convergenza sulla necessità di porre l'emergenza sociale al centro del dibattito politico e si è aperto un confronto su possibili iniziative unitarie. La Federazione continuerà a stare nelle vertenze e nelle lotte ma stiamo lavorando per capire cosa si riesce a mettere insieme per ricostruire il conflitto sociale».

Liberazione 23/04/2010, pag 1 e 4

Sono i nuovi proletari. Senza di loro l'Italia si fermerebbe

Un libro-inchiesta di Riccardo Staglianò, da nord a sud i lavori che gli italiani non fanno più

Tonino Bucci
Capo, ma perché la macchina me la lava er negro ? La diffidenza si legge in faccia, il proprietario della Bmw storce il naso nell'immaginare la sua automobile sotto le mani di un bangladese. Nella stazione di benzina Q8 di via della Bufalotta, periferia di Roma, lo scenario è come altrove. La presenza di un senegalese o pachistano o bangladese che sia, in tuta accanto a una pompa di carburante, è un'immagine ormai usuale. Nella sola area di Roma e del Lazio almeno un terzo degli addetti è straniero. Ma nelle stazioni più grandi, per ogni quattro-cinque dipendenti un paio sono spesso "extracomunitari". Un lavoro troppo umile, e anche faticoso. Tirar via in piedi tutto il giorno, col freddo o con l'afa agostana, non è mica uno scherzo. Sarà per questo che gli italiani lo evitano. Ma se ne potrebbero elencare tantissimi altri, di mestieri che ormai accettano solo i disperati della gerachia sociale, gli sconfitti nella guerra tra poveri. I pescatori tunisini a Mazara del Vallo, i camionisti discount che vengono dall'Est, i sikh che allevano bufale per la mozzarella, gli addetti alle pulizie, le colf salv-famiglia, i raccoglitori di pomodori, i nigeriani conciatori di pelle al nord-est, gli egiziani pizzaioli. E poi, ancora, addetti alla lavorazione dei polli in quel di Verona o alle fonderie nel bresciano, panettieri, infermieri, facchini, cuochi, lavapiatti. E per finire calciatori, preti e prostitute. E' frastagliata, articolata, in gran parte ancora da disegnare la mappa dell'Italia che senza gli stranieri si fermerebbe all'istante. La descrive, con stile da inchiesta, Riccardo Staglianò, giornalista di Repubblica e autore per l'appunto, di Grazie , sottotitolo Ecco perché senza gli immigrati saremmo perduti (chiarelettere, pp. 228, euro 14,60).
Stereotipi, cliché, rappresentazioni caricaturali, fobie, razzismi: la fabbrica dell'immaginario sforna sulla testa degli immigrati una quantità di immagini virtuali che impedisce un racconto del paese reale. Lo dimostra il viaggio di Staglianò per la penisola, il contatto con le situazioni di vita e di lavoro degli stranieri. La presa diretta con la realtà basta a sconfessare la narrazione-tipo sugli immigrati prodotta in questi anni dalla «fabbrica della paura». «Se poi la congiuntura è calamitosa, come quella in cui viviamo, con il naufragio della classe media, la scomparsa del posto fisso e le infinite altre precarizzazioni tipiche della "società del rischio", l' upgrade della paura in terrore non deve sorprendere». Il girovagare per l'Italia ci porta, ad esempio, a Nogarole Rocca, tre quarti d'ora d'autobus da Verona. A due chilometri dal paese, irraggiungibile con i mezzi pubblici, sorge uno stabilimento per la lavorazione dei polli. Campagna, svincoli autostradali e poi strade strette dove si incrociano tir e trattori. «Già dalla hall, con i divanetti verdi démodé su cui nessuno si siede mai, laroma dolceamaro ti stuzzica il naso. E' solo un'avvisaglia, un antipasto sensoriale». In America un giornalista del Wall Street Journal ci ha vinto il Pulitzer solo a raccontare quanto facca schifo questo lavoro. A cominciare dall'odore che «ti si insinua nelle narici» e dal «pigolare terrorizzato di polli e tacchini» avviati al patibolo. La nausea «ti riempie gli occhi quando vedi per terra gli spruzzi di sangue sgorgati dalle loro viscere». Se c'è Aia c'è gioia , recita lo slogan pubblicitario. In organico il 43 per cento sono immigrati: 168 nigeriani, 60 ghanesi, 42 marocchini, più uomini e donne di altre 28 nazionalità per un totale di 412 persone. «Che prima combattono per indirizzare le bestie vive alla loro via crucis e poi le sigillano, morte, in asettiche buste sottovuoto, sub specie di petti, cosce e ali». Il problema è che lungo la linea di produzione (una vera catena di montaggio) possono succedere degli incidenti per via delle incomprensioni di lingua. «Anche perché tra un kosovaro e un coreano non sanno da dove cominciare per spiegarsi a parole». Molti di loro sono disposti a farsi ogni giorno anche sessanta chilometri col motorino. Ghanesi e nigeriani, poi, sono ricercati per la prestanza fisica che li «rende indicati all'attacco dei tacchini, i cui esemplari maschi arrivano a pesare sui 20 chili», racconta un responsabile della direzione. Si alternano su due turni, di sei ore e quaranta ciascuno, sei giorni su sette, per 1200-1300 euro che con gli assegni familiari possono arrivare a 1500. Il primo anello della catena consiste «nel tirare fuori le bestie vive dalla gabbia di plastica in cui sono arrivate dagli allevamenti e avviarle alla loro sorte». Dapprima fanno passare le bestie in una zona illuminata da una luce blu che ha la funzione di sedarle. I tacchini vengono fatti passare per un cunicolo metallico nel quale viene pompata anidride carbonica per stordirli. I polli invece vengono tramortiti spingendoli in una vasca d'acqua con una modesta scarica elettrica. «A quattro metri da terra, nei condotti sovraffollati di tacchini, cadono addosso ai lavoranti delle piume solitarie. Ma anche le secrezioni degli animali, come se qualcuno si divertisse a sputare dal terrazzo. E poi scaglie della loro pelle, pezzi di mangime, batteri. Qui l'odore è più dolciastro e intenso. Gli addetti si spruzzano in continuazione la faccia e la tuta con un getto di aria igienizzante». Il settanta per cento è assunto a tempo indeterminato, il resto con contratti da sei o nove mesi, come gli avventizi agricoli utilizzati a seconda delle stagioni per la raccolta dell'uva e dei pomodori. Quest'ultimi sono stati i primi a saltare durante il periodo dell'aviaria.
Altra regione, altro lavoro. La Sicilia conta quanto metà dell'industria ittica italiana. Mazara del Vallo pesa da sola mezza Sicilia. «Negli anni Settanta si stava in mare una settimana, poi sono diventate due, e negli anni Novanta le cose hanno cominciato a peggiorare ancora e ad allungarsi le bordate. Oggi si devono fare anche quattro-cinque giorni di navigazione, arrivare sino a Cipro o in Grecia, prima di gettare le reti. Perciò, per ammortizzare i costi di gestione, si deve stare fuori più a lungo», racconta l'assessore provinciale alla pesca Nicola Lisma. Bisogna spingersi sempre più al largo alla ricerca, per esempio, del gambero rosso, esportato in mezzo mondo. Novanta giorni in mare, chi accetterebbe un lavoro del genere? «Gli italiani l'hanno capito prima e hanno lasciato che i tunisini li sostituissero. Sui pescherecci sono ormai la maggioranza». Senza di loro si fermerebbe tutto. «Questo è un lavoro che, se l'hai fatto, non lo auguri neppure al tuo peggiore nemico», figuriamoci ai figli - dice Bazine che ha smesso da qualche anno. Benur, invece - cinquantatré anni induriti dal sole e dal salmastro - lo fa ancora. Però «sono sei mesi che l'armatore non mi paga. L'ho denunciato ma sin qui non è successo nulla».A bordo, durante i novanta giorni, non c'è tregua. Bisogna congelare il pesce e «nel congelatore entri sudato come sei in coperta, perché non c'è tempo per asciugarsi, vestirsi di più. Risultato? Quegli sbalzi di temperatura mi hanno fatto saltare un bel po' di denti, ho il diabete, la pressione alta, anche i reumatismi e la bronchite cronica». Il cibo non manca, ma è per dormire che non c'è mai tempo. Come ad Abu Ghraib. Adesso ci stanno provando con i ghanesi «ma ne funziona uno su mille. Non reggono quei ritmi - dice ancora Bazine - e alla sette si lavano le mani e si ritirano in cuccetta». Dopo i ghanesi, in basso nelle gerarchie, ci sono solo i clandestini.
Dal mare alle autostrade. Anche qui c'è una guerra tra poveri. I camionisti low cost dell'Est, capaci di guidare anche quaranta giorni senza mai prenderne uno di riposo - hanno sbaragliato la concorrenza. I riposi segnati sul foglio presenze sono falsi. Finte sono anche le ferie, tanto per dimostrare, in caso di controlli, che ci è riposati a sufficienza, come vuole la legge. A queste condizioni resistono solo gli stranieri. «Nelle grosse compagnie, soprattutto nel nordest che fu patria dei camionisti nostrani, sono ormai maggioranza». Maggioranza sono pure i raccoglitori di mele a Rallo, Tassullo, Taio, Tuenno, le stazioni della raccolta di mele in Trentino. I primi ad arrivare sono stati verso la fine degli anni 80 quelli della ex Jugoslavia, poi è stata la volta dell'est, oggi arrivano da tutti i paesi.

Liberazione 20/04/2010, pag 12

L'indecifrabile mistero della Corea del Nord lo "Stato-eremita"

Il segreto della longevità politica? Stalinismo, mistica religiosa e morale vittoriana,

Maria R. Calderoni
La «terribile» Corea del Nord. Praticamente sola - in compagnia dell'altro «terribile», l'Iran - nel recinto a prova di bomba (atomica) degli unici due "stati canaglia" sopravvissuti nel mondo. Corea del Nord, nemmeno Obama in versione pacifista la salva, il first strike d'ora in avanti non sarà più usato - promette - in nessun caso, tranne che per l'Iran e per il minuscolo Stato appeso appunto a nord del 38° parallelo: ci verrebbe da dire povera Corea. Ma è davvero una tigre asiatica, un paese "terrorista" che sostiene, incoraggia, pratica il terrorismo internazionale?
Lontana, silenziosa, misteriosa. A tratti in sonno, dimenticata. A tratti, e all'improvviso, assurta a Stato-pistola fumante, capace di mettere a repentaglio il pianeta e comunque di tenere in costante allarme nientemeno che la più formidabile potenza militare del pianeta. La sindrome della Corea del Nord, ultima versione del "pericolo giallo". Allarme Corea: lo si è visto anche assai recentemente, quando mezzo mondo è entrato in fibrillazione per la vedetta della Sud Corea - quella "buona", quella che piace tanto al Pentagono - aggredita e fatta colare a picco da un proditorio siluro nordcoreano. Subito venti di guerra, titoli sparati, allerta internazionale; peccato che ventiquattrore dopo, Lee Miyung Bak, l'attuale presidente sudcoreano - conservatore e niente affatto ben disposto verso Pyongyang - abbia ufficialmente e categoricamente «escluso ogni responsabilità della Corea del Nord nell'affondamento della nave». Pistola fumante rientrata, per il momento.
Il caso è servito, comunque, a riaccendere i riflettori, sia pure fugacemente, su quel "mistero inquietante" che è la Corea del Nord. Panorama le ha fatto l'onore di un reportage dal titolo psyco "Vietato amarsi", dove si descrive «un Paese sfiancato», che non solo è un'appendice della Siberia, ma dove perfino «corteggiarsi o andare in bici (se sei donna) significa sfidare il controllo sociale». Un Paese tanto più inaccettabile in quanto «spacciato come un misterioso altrove glamour spartano», mentre «la Corea del Nord comincia dove finisce tutto il resto». Materiale base del servizio di Panorama , il libro di una giornalista americana che è andata nella patria di Kim Il Sung - va bene, lo chiamano il Leader Eterno - per scoprire «una realtà governata da leggi proprie», inaudito. Dove si pretende di affermare «Viviamo a modo nostro»; dove il corteggiamento ha «i tempi e i modi vittoriani»; dove «il pudore è assoluto e le violazioni della morale stalinian-confuciana semplicemente inconcepibili». Un Paese, tuttavvia, dove «una normalità esiste, e noi non la conosciamo».
Buono a sapersi, non la conosciamo . Tranne forse quello, cioé che nel 1966 fu una inopinata squadra nordcoreana a far fuori l'Italia dai campionati mondiali in Inghilterra. Turismo micro, rete commerciale internazionale quasi zero, rapporti diplomatici all'osso, la descrivono come un "Paese eremita", chiuso in se stesso, anzi sigillato. Case piccole, con arredi demodè e ridotti all'indispensabile, decoro anni Cinquanta: interni tanto modesti quanto spettacolare e monumentale è la grandeur esteriore.
Chi l'ha vista, descrive Pyongyang, la "Sung City", come una visione ipnotica, incredibile. Intanto, è antichissima (la sua fondazione è datata 2334 avanti Cristo) e non è affatto una piccola città, contando oggi oltre 3 milioni di abitanti. Tutta riprogettata e ricostruita dopo quella che passa alla Storia come la disastrosa "guerra di Corea" (1950-1953), è dotata di «enormi viali, monumenti imponenti e grandiosi edifici monoblocco», ivi compresi «l'arco di trionfo, una replica più in grande dell'Arc de Trionphe di Parigi; l'edificio che diede i natali a Kim II Sung sulla collina di NMangyondae; la Torre del Juche; la Pyongyang Tv Tower; e due tra i più grandi stadi del mondo, lo Stadio Kim II Sung e il Rungnado May Day Stadium». Né si può dimenticare quello che è l'edificio più alto della città, lo stratosferico e "folle" Ryugyong Hotel, alto 330 metri, 105 piani, 360mila metriquadri totali e sette ristoranti girevoli previsti sul tetto. Anche il Ryungyong hotel - che una volta finito è destinato ad essere classificato come l'albergo più alto e il sesto più grande del mondo - ha una storia corean-comunista doc: interrotto per mancanza di fondi nei primi anni Novanta - quelli delle grandi calamità naturali e della tremenda carestia - i lavori sono testardamente ricominciati nel 2008; l'intento è di presentarlo bello e finito per il 2012, in tempo per il 100°anniversario della nascita di Kim II Sung, il super-venerato Kim II Sung.
Grandiosità simil-sovietica che è oggetto di scherno e caricature, persino di virtuoso sdegno; ma lei, la RDPC (che fa Repubblica Popolare Democratica di Corea) non fa una piega. Va per la sua strada. Più che impenetrabile, fiera di sé, orgogliosamente gelosa della propria diversità e senza "complessi" nei confronti dell'Occidente. Taciturna, poco esposta, per propria scelta, sulla ribalta internazionale, poco esibizionista: piccolo Paese di nemmeno 24 milioni di abitanti, malfamato come "dittatura comunista" (spietata, ovviamente, per definizione), spesso dimenticato.
Dimenticato da tutti, ma non dagli Usa, che la tengono nel loro mirino da sessant'anni, senza mollare mai. Ma, come Cuba, la piccola, povera, dimessa Corea del Nord dà parecchio filo da torcere alla prima Potenza mondiale.
Certo che no, il Pentagono non la dimentica, la Corea del Nord; anzi la tiene sotto tiro. E i nordcoreani a loro volta non "dimenticano": né di mantenere un esercito allenato; né di denunciare le provocazioni e le ravvicinate minacce costantente messe in atto dai vari governi statunitensi, da sessant'anni a questa parte. Non più tardi di un mese fa, nel marzo di quest'anno, il governo nordcoreano, con un comunicato ufficiale, ha denunciato «come aggressione» le esercitazioni militari congiunte - americani e sudcoreani insieme - messe in atto al confine della Corea del Nord, quelle denominate "Key Resolve" e "Foal Eagle": considerate né più né meno che manovre in vista di un attacco vero. E' di almeno 40 mila soldati il contingente Usa tuttora distaccato in quella specie di colonia yankee che è l'attuale Corea del Sud (e cioé praticamente sui confini nordcoreani); senza contare che gli Stati Uniti «hanno dislocato numerosi gruppi di navi da guerra, inclusi cacciatorpedinieri armati con missili teleguidati, sottomarini nucleari e mezzi da sbarco sia ad est che a ovest e a sud del mare di Corea». Senza contare «i loro caccia bombardieri e gli aerei per il trasporto di truppe sempre in volo verso la Corea del Sud dalle basi del Giappone; e i mezzi del 7° gruppo dell'Aviazione statunitense impegnati in esercizi che simulano, pericolosamente, massicci operativi di attacco contro obiettivi situati in territorio nordcoreano». Un totale di 13.700 esercitazioni avvenute, se vi sembran poche.
Sessant'anni e tutti difficili, e anche drammatici. Impossibile dimenticare ciò che è costato la guerra, quei tre anni fratricidi fomentati da mano Usa iniziati quel 25 giugno 1950. I nordcoreani se lo ricordano bene. «Contro di noi gli Stati Uniti hanno impegnato un terzo delle loro forze, un quinto della forza aerea e la magggior parte della flotta nel Pacifico. Insieme alle truppe di 15 paesi, dell'esercito sudcoreano e dei resti dell'esercito giapponese, sono stati messi in campo più di 2 milioni di soldati; utilizzati 73 milioni di tonnellate di materiale bellico e speso 165 miliardi di dollari», una cifra enorme al tempo. Ma gli Usa non riuscirono a vincere e dovettero accettare l'armistizio; anche se il prezzo pagato furono milioni di morti, il paese devastato dai bombardamenti, l'economia rasa al suolo.
Difficile dimenticare anche il periodo pauroso, di pressoché totale abbandono, seguito al crollo dell'Urss e dell'intero sistema socialista: la stessa identica sorte toccata a Cuba. E poi sono venuti gli anni della fame, delle inondazioni, delle carestie.
Già, il "Paese che non c'è" invece c'è. Azione per azione, è uno dei motti preferiti della Corea del Nord. «E' a causa delle infinite minacce di un'altra guerra in Corea, che la RPDC ha deciso di sviluppare la propria difesa nucleare», sostengono. Non senza far annotare che «dei 2.054 esperimenti nucleari avvenuti dal 1945, soltanto 2 sono stati effettuati dalla Corea del Nord». E questi sono i fatti sui quali «deve basarsi anche il Consiglio di sicurezza dell'Onu».
Lo Start 2 può andar bene anche alla Corea del Nord, sviluppi positivi potrebbero non essere impossibili. «La denuclearizzazione della penisola è l'obbiettivo della politica coerentemente perseguita dal governo della Repubblica per contribuire alla pace e alla sicurezza nell'Asia nord-orientale e alla denuclearizzazione del mondo. Ma se tra la RPDC e gli Stati Uniti deve essere costruita la fiducia, è indispensabile definire un trattato di pace per la riunificazione della Nazione», ha dichiarato il ministero degli Esteri nordcoreano in data 18 gennaio 2010. Un documento cauto, ragionevole, distensivo.
Dopotutto la Cina è vicina.

Liberazione 21/04/2010, pag 12