giovedì 13 maggio 2010

«Flessibilità e partito unico. La Cina salva il capitalismo»

Loretta Napoleoni Economista, autrice di "Maonomics", tra gli ospiti del festival "Vicino lontano" di Udine

Guido Caldiron
Il capi-comunismo cinese, una sorta di ibrido tra il regime politico della Repubblica Popolare e il capitalismo, sta vincendo la guerra della globalizzazione. Sarà alla Cina che l'economia di mercato dovrà guardare d'ora in poi per uscire dalla sua grave crisi? Loretta Napoleoni, economista, scrittrice, consulente di governi e di organizzazioni internazionali, ha affidato questo interrogativo al suo ultimo libro Maonomics , appena pubblicato da Rizzoli (pp. 308, euro 19,50), che ha presentato ieri a Udine nell'ambito della sesta edizione del festival "Vicino lontano. Identità e differenze al tempo dei conflitti" che si è aperto giovedi e si concluderà domani.

Dal suo ultimo libro si potrebbe ricavare l'impressione che sarà la Repubblica popolare cinese a salvare il capitalismo. Un'interpretazione azzardata?
Il capitalismo ha salvato il comunismo cinese e ora è possibile che questo "capi-comunismo" - perché oggi in Cina non si può dire che ci sia "il comunismo", ma qualcosa di molto diverso, una sorta di ibrido tra questi due elementi - possa salvare il capitalismo occidentale così come è ancora concepito, vale a dire come un sistema internazionale basato sulla crescita continua e sull'accumulazione.

Ma cosa rende oggi la Cina così forte nell'ambito della competizione economica internazionale e perché questo paese sarebbe stato salvato dal capitalismo?
L'elemento più importante del sistema cinese è oggi la flessibilità, che è stata conquistata nel corso degli ultimi vent'anni aprendo il sistema marxista a elementi e caratteristiche del capitalismo. Il tutto è però avvenuto mantenendo pressoché inalterato il quadro politico su cui si basa il paese, quello del partito unico. Per questo parlo di sistema ibrido tra comunismo e capitalismo. Il sistema cinese, che a livello economico mi sembra possa essere descritto come infinitamente flessibile, mentre a livello politico è abbastanza autoritario, appare come il più adatto per fronteggiare la competizione internazionale nell'ambito della globalizzazione. Anche perché è apparso in grado di superare senza troppi scossoni le crisi ricorenti che hanno invece colpito le economie occidentali. Queste le ragioni principali dell'affermazione cinese a cui stiamo assistendo oggi.

Negli ultimi trent'anni la ventata neoliberale ha puntato a restringere progressivamente in Occidente gli spazi democratici, concentrando sempre più il potere e "i luoghi" decisionali in poche mani, per sottoporre l'intera vita alle regole del mercato. E' questa la strada che la Cina sta percorrendo ora, in assenza di un vero processo di democratizzazione?
In realtà in Cina il problema della democrazia non è così sentito come noi possiamo pensare. Anche chi manifestava nel 1989 in piazza Tienanmen non credo volesse la democrazia, quanto piuttosto avere accesso a quel benessere che, guardando in quel momento alla realtà dei paesi occidentali, si immaginava indissolubilmente legato al sistema democratico. In questo senso si può dire che la spinta verso una riforma democratica era finalizzata soprattutto alla crescita economica più che alla conquista di una maggiore libertà civile. Oggi, invece, i cinesi posso dire che a casa loro c'è il benessere ma non la democrazia, mentre nell'Occidente democratico si passa da una crisi all'altra e aumenta il disagio sociale. Detto questo, non è che non si registrino spinte democratiche tra i cinesi, del resto il paese è oggi molto più democratico di quanto non fosse vent'anni fa. In questa prospettiva si segnalano le elezioni che si svolgono nei villaggi, nelle regioni e nelle province, anche se siamo ancora lontani dalle forme di democrazia che conosciamo noi.

Lei ha spiegato come alla base dell'odierno successo cinese ci sia una forte flessibilità: cosa significa tutto ciò in termini di diritti dei lavoratori?
Per spiegare la situazione che si vive oggi nel paese si può dire che siamo in presenza di una sorta di contratto che è stato stipulato oltre vent'anni fa tra il potere politico e la popolazione da una parte e il capitalismo occidentale dall'altra. Sulla base di questo contratto i cinesi sono stati sfruttati dal capitale, ma con il loro accordo che era vincolato alla promessa di benessere che pensavano di poter realizzare. Ora il potere politico è tornato invece a difendere le condizioni dei lavoratori, ha imposto nel 2007 nuove leggi a tutela degli operai e ha però ottenuto come risposta la fuga di una parte dei capitali occidentali che erano stati precedentemente investiti lì e che oggi si orientano invece verso paesi come il Vietnam dove ci sono ancora poche regole a tutela di chi lavora.

Liberazione 08/05/2010, pag 8

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