giovedì 13 maggio 2010

Mahatma Bollywood e il masala movie

Vita, morte e miracoli della più importante industria cinematografica del globo

GiustificaDavide Turrini
Per chi fosse rimasto leggermente scosso dalla visione tumultuosa di The millionaire (2008), ricordiamogli pure, che il film diretto da Danny Boyle è stato una sorta di presuntuoso scippo di scenari e tradizione del cinema indiano, da parte di un paio di major hollywoodiane (Fox e Warner) smaniose di esotismo accelerato e bignamizzato. Hollywood che imita Bollywood. Ovvero Bombay più Hollywood, crasi oramai diffusa anche in Europa per indicare l'industria nazionalpopolare in lingua hindi del cinema indiano.
Vincitore di ben otto Oscar nel 2009, The millionaire ha ripetuto la funzione di finta tutela e di chiara sopraffazione coloniale inglese (Boyle è baronetto di Manchester) in terra indiana. Tanto che quel codino di danza/musical sul rullo dei credits di chiusura (che orrore quella macchina da presa marmorizzata piazzata frontalmente) grida vendetta per un cinema nazionale indiano che in oltre cento anni di storia ha saputo radicarsi omogeneo nella cultura popolare di un paese storicamente eterogeneo. A niente vale, a nostro avviso, la coregia dell'indiana Loveleen Tandan (pura e semplice manovalanza) o la fonte letteraria indigena, Le dodici domande di Vikas Swarup: The millionaire è un compendio tanto ossequioso, quanto fasullo nell'urgente terzomondismo che ha spinto Boyle a raccontare, Fox e Warner a produrre, Academy a premiare, l'India contemporanea degli slums e dell'arricchimento fatuo dalla tv.
Certo noi italiani, relegati ai margini dell'industria cinematografica mondiale e censurata pregiudizialmente la presenza in sala di film indiani, non possiamo che tacere. Non fosse stato per Nanni Moretti presidente di giuria a Venezia 2001, il conseguente leone d'oro per Monsoon Wedding diretto da Mira Nair non avrebbe avuto distribuzione in sala. Identico motivo per la trilogia sulla condizione della donna in India per la regia di Deepha Metha di cui in Italia si sono visti solo il primo, Fire (1996), e il terzo, Water (2005). Ma se prendessimo come esempio la poetica e l'estetica di Nair e Metha per sintetizzare l'evoluzione e la situazione del cinema indiano degli anni duemila prenderemmo una grossa cantonata. Meglio sviare da tutte quelle signore dagli ottimi studi universitari, amanti del buon cinema europeo d'essai, finite poi per lavorare con George Lucas (la Metha) o a girare, come Nair, Amelia (2009) sull'omonima aviatrice statunitense. Nel 2002, grazie al talentuoso Kermit Smith di Keyfilms, esce nelle sale italiane, in pochissime copie, Lagaan : il kolossal storico di due ore e mezza per la regia di Ashutosh Gowariker. Saranno poco più di quindicimila gli euro incassati in Italia, all'incirca la copertura spese per una copia in pellicola da tenere in archivio, giusto in tempo per mostrare agli italiani uno spicchio di quel tanto celebrato ricettone commerciale, il masala movie, che ha reso l'India e in questo caso Bollywood, la più importante industria cinematografica al mondo ancor più di Hollywood.
Per farsi capire, allora, è meglio dare i numeri. In India si strappano tredici milioni di biglietti al giorno, sei milioni sono gli addetti ai lavori nel settore e circa un migliaio i titoli prodotti in un anno, per una escalation che dagli anni '30 in poi non ha mai avuto bruschi rallentamenti. Il tutto installato sulla robusta e storica tradizione del masala movie, sorta di formula poetica mescolata freneticamente tra elementi tradizionali dei singoli stati indiani, modernizzazione sociale faticosa e dispari, ipersaturazione cromatica e soprattutto campionario coreografico/musicale invasivo e tramortente.
Curioso, quindi, che negli anni ‘40 in quello che tutti gli storici del cinema indiano intendono come il periodo della grande rivoluzione industriale cinematografica (quella d'essai avverrà poco più avanti), si affermi una sorta di cultura di massa pan-indiana, tenuta saldamente insieme dallo svilupparsi della filmi music, ovvero una musica popolare che si ascolta in ogni angolo di strada indiana, da Nord a Sud, in lingua hindu, piuttosto che telugu o bengalese, nei negozi, alle feste, ai matrimoni. La musica come elemento primario e significante del linguaggio cinematografico, oggi contaminata da influenze hip-hop, reggae, rock, ma sempre fedele alle antiche strutture musicali del raga (saggiatene la miscela sui titoli di coda di Inside man di Spike Lee, nel magnifico brano "Chaiyya Chaiyya - Bollywood Joint" di A.R. Rahman). Grazie a ciò la tradizione indiana ha reso il messaggio socio-culturale di Bollywood più popolare, apprezzato e seguito perfino della televisione, legando simbolicamente tra loro titoli importanti come: Mother India (1957) di Mehboob Khan (il Cecil B. De Mille indiano); il disagio sociale e la criminalità di strada mostrati in Awaara o Shree 420 (con il vagabondo chapliniano interpretato dal celebre attore Raj Kapoor negli anni '50); fino all'infinito ripetersi del remake del fondativo Devdas (dopo la matrice del '28, s'impone la versione del '55 di Bimal Roy e quella stratosferica nei guadagni al botteghino del 2002 per la regia di Ashim Samanta). Senza dimenticare che parallelamente all'evoluzione politica nazionale dell'India finalmente indipendente e socialista, cominciano ad affermarsi cinematografie d'autore, più vicine al neorealismo e alle nouvelle vague europee. Su tutti i film di Satyajit Ray che assieme ai melodrammi di Guru Dutt ( Sete eterna - Pyaasa , 1957) e al cinema impegnato di Mrinal Sen ( Calcutta '71 , 1972), innovano linguaggi e contenuti di un cinema indiano nazionalpopolare fin troppo autocelebrativo.
Un boom che di riflesso abbiamo inglobato ben più noi occidentali che gli indiani stessi, donando a Ray la posizione meritatissima di star d'essai tra gli anni '50 e ‘70. Con La sala della musica (1958), Charulata (1964) e la personalissima trilogia di Apu ( Il lamento sul sentiero - ‘55, L'invitto - '56, Il mondo di Apu '59), Ray fa conoscere il suo cinema intimo e vibrante, scarsamente esibizionista, legato alla psicologia dell'individuo che fatica a trovare spazio nel contesto sociale in cui vive, perfino nei campus universitari statunitensi. Tanto che ancora oggi in serie tv come i Simpon's si omaggia Ray, grazie al personaggio di Apu gestore del Jet Market, e un genietto come Wes Anderson dedica direttamente al regista indiano, scomparso nel '92, il suo Il treno per Darjeeling .

Liberazione 09/05/2010, pag 14

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