mercoledì 27 ottobre 2010

Libro: "Fascisti americani. La Destra Cristiana e la guerra in America"

di Chris Hedges, Vertigo (pp. 282, euro 14,00)
Figlio di un pastore presbiteriano, Chris Hedges ha lavorato per alcune delle più importanti testate del mondo, arrivando a vincere nel 2002 il Premio Pulitzer. Negli anni dell'amministrazione della Casa Bianca guidata da George W. Bush ha analizzato per i media americani il ruolo crescente esercitato dalla Christian Right nel paese. Nel 2006 ha pubblicato il libro proposto lo scorso anno anche ai lettori italiani, American Fascists, in cui traccia il profilo di questa destra cristiana attraverso le biografie dei suoi leader, la rete dei suoi gruppi e il peso esercitato nei media e a Washington. Tutto questo in un paese che, come racconta Hedges, conta «settanta milioni di evangelici (circa il 25% della popolazione) che frequentano più di duecentomila chiese evangeliche. Stando a quanto dicono i sondaggi, il 40% degli intervistati crede che la Bibbia sia "la vera parola di Dio" e che "vada presa alla lettera, parola per parola". Se applichiamo questa percentuale alla popolazione totale, significa che il numero dei credenti ammonta a cento milioni». In questo contesto il fondamentalismo evangelico che ha preso il controllo di una parte del Partito repubblicano fin dai tempi di Reagan, ha buon gioco ad utilizzare le sacre scritture come un mix tra un manuale bellico e un testo di marketing: le campagne militari in Iraq e Afghanistan sono state motivate presso l'opione pubblica americana anche ricorrendo all'appello alla fede. Del resto, spiega Hedges, «le pagine della Bibbia contengono abbastanza odio, fanatismo e sete di violenza da soddisfare chiunque sia deciso a trovare una giustificazione per la crudeltà e la prepotenza. E la Bibbia è stata usata per molto tempo da mani sbagliate, non per cristianizzare la cultura, come affermano spesso coloro che la brandiscono, ma per acculturare la fede cristiana».
Gu. Ca.

Liberazione 24/10/2010, pag 16

«Sono un redneck e vi racconto cosa c'è nella pancia dell'America»

Joe Bageant Giornalista e scrittore americano cresciuto a Winchester in Virginia
autore di "La Bibbia e il fucile. Cronache dall'America profonda"

Guido Caldiron
«L'America è una sorta di grande teatro, dove tutto ruota intorno alle illusioni dei più deboli e alle rappresentazioni distorte e interessate della realtà che vengono offerte loro da chi intende manipolarli per i propri fini politici».
Nato nel 1946 a Winchester, in Virginia, Joe Bageant si definisce con orgoglio "un redneck", il termine dispregiativo utilizzato negli Stati Uniti per designare soprattutto i campagnoli un po' zotici del Sud, ma che i poveri bianchi sudisti rivendicano come una sorta di segno identitario. "Redneck", letteralmente "collorosso", vale a dire più o meno contadino, è per i proletari bianchi delle aree rurali del paese quasi un sinonimo di gran lavoratore, gente tutta d'un pezzo che si spacca la schiena per tutto il giorno, la sera si gode una buona birra con gli amici e la domenica si ritrova nelle chiese del fondamentalismo battista. Un'«America - spiega Bageant - che lavora, suda, beve e prega» e che, per quanto paradossale possa apparire, non potrebbe essere più lontana dalla cultura progressista, quella che si prefigge di parlare soprattutto proprio al mondo della working class.
«Il proletario americano, l'uomo che lavora usando le mani e il corpo, fabbrica cose o le rimette in funzione, vive in una nazione a parte, popolata da una tribù a parte. - sottolinea ancora Bageant - Vive in un mondo parallelo e misconosciuto rispetto a quello dei progressisti colti di città. I liberal non riescono a vedere o ascoltare il suo mondo che marcia e caracolla rumorosamente al passo con la sua realtà».
Joe Bageant ha combattuto in Vietnam, ha vissuto in una comunità hippy, è diventato marxista e buddhista, ha girato il mondo scrivendo reportage e anima da diversi anni un sito molto frequentato, www.joebageant.com. Poi, un bel giorno, ha deciso di tornare a Winchester, da dove era partito oltre trent'anni prima, per raccontare la vita di quelli che non se ne sono mai andati e per indagare l'apparente paradosso di una parte della società americana che sembra votare contro i propri interessi materiali e che ha fatto fino ad ora le fortune della destra religiosa e del Partito repubblicano. Il frutto di questo lavoro, pubblicato nel 2007 negli Usa con il titolo di Deer Hunting With Jesus, è oggi proposto ai lettori italiani da Bruno Mondadori: La Bibbia e il fucile. Cronache dall'America profonda (pp. 240, euro 18,00).
Bageant, che solo pochi mesi fa ha pubblicato un nuovo capitolo di questa sua ricerca, Rainbow Pie: A Redneck Memoir (Scribe Publications), traccia il profilo di quell'America profonda, fatta di lavoratori manuali che a malapena hanno un diploma di scuola superiore e non leggono libri, si dichiarano conservatori fanatici, patrioti e cristiani "intransigenti". Con grande ironia e un timbro decisamente narrativo, il giornalista descrive l'orizzonte di un mondo in cui alcol, Gesù, cibo e caccia sono le scappatoie predilette a una vita fatta soprattutto di lavoro.
Alla vigilia delle elezioni di midterm abbiamo cercato di capire con Bageant dove batte il cuore dell'heartland degli Usa.

Lei spiega che i redneck "non votano per qualcosa, ma votano contro qualcosa". Contro chi vota il cuore dell'America profonda?
La gente che viene dall'heartland degli Stati Uniti vota contro tutto ciò che secondo loro - o perché qualcuno li ha convinti che è così - rappresenta una possibile minaccia per l'ordine sociale o i principi a cui sono abituati e con cui sono cresciuti. Sono persone che hanno sempre bisogno di avere un "nemico", qualcuno o qualcosa contro cui schierarsi: un tempo potevano essere il comunismo o gli hippie, oggi sono i matrimoni omosessuali o i diritti dei gay in generale. Però il punto centrale è un altro. Uno dei grandi principi degli americani è il "far da sé", il cavarsela da soli senza dover chiedere niente a nessuno: essere indipendenti e far fronte alla vita con le proprie forze. Questo è un atteggiamento davvero caratteristico dell'americano medio, specie se viene dalla provincia. Da questo modo di pensare deriva l'atteggiamento di molti dei miei concittadini nei confronti di quello che d'abitudine si chiama "stato sociale": non me ne frega niente che il governo di Washington mi possa dare, chessò, l'assistenza sanitaria pubblica. Tra queste persone non ha mai preso piede l'idea che lo Stato centrale potesse in qualche aiutare o sostenere i propri cittadini con programmi assistenziali di qualunque sorta. Ogni cosa che sembri anche solo superficialmente scuotere o modificare la loro idea dell'America, il modo in cui credono che debba vivere un "vero americano", è considerata sbagliata e pericolosa, e viene perciò osteggiata in modo molto fermo. Inoltre, almeno per quanto riguarda il campo della sanità, si deve tenere conto del fatto che fino a qualche decennio fa le assicurazioni mediche private non costavano un occhio della testa, come accade invece oggi. Ricordo che me la potevo permettere perfino io, tirando fuori poco meno di due dollari alla settimana.

Nel suo libro lei spiega come i liberal delle grandi città non capiscono, quando non snobbano apertamente, questa parte d'America. In che modo la destra ne coltiva invece il consenso?
Nella storia della politica americana i repubblicani hanno sempre incarnato un atteggiamento "duro", sono sempre stati incazzati e aggressivi, "contro" qualcosa. I democratici, al contrario, hanno sempre avuto un atteggiamento inclusivo, "a favore" di qualcosa. Gli attivisti del Partito democratico si facevano spaccare il naso insieme agli operai per difendere i loro diritti sindacali con i picchetti. Ma ora tutto questo è finito anche sul fronte dei democratici che si sono sempre più allontanati dalla loro tradizionale base sociale. Così, da alcuni decenni, per i lavoratori dell'America profonda è più facile credere alla propaganda repubblicana che agita paure e fantasmi. Un esempio? Per sostenere la campagna contro la Riforma sanitaria di Obama, il Partito repubblicano ha raccontato che Washington avrebbe dato il via a un programma di eutanasia dei malati più gravi e dei vecchietti che si trovano negli ospedali per tagliare la spesa pubblica e indirizzarla a sostenere la nuova assicurazione sanitaria pubblica».

Le pagine di "La bibbia e il fucile" sembrano accompagnate da un paradosso. L'american dream più celebrato racconta di persone che possono arrivare laddove le loro ambizioni e le loro capacità sono in grado di portarli. Il suo libro fotografa invece una realtà sostanzialmente immutata e immutabile, nel senso che la definizione di "redneck" ha più a che fare con l'antropologia che con la sociologia: si nasce tra la working class bianca e si resta legati a questa sorta di identità profonda qualunque cosa si finisca per fare della propria vita. Quale delle due immagini è fittizia?
L'idea che negli Stati Uniti ci sia sempre stata la possibilità di una forte mobilità sociale verso l'alto riguarda e ha riguardato soprattutto gli immigrati. Per coloro che sono passati attraverso Ellis Island questo discorso può effettivamente valere, visto che spesso le condizioni di partenza erano davvero molto povere e deboli. Altra cosa riguarda invece "gli americani": la mia famiglia vive ancora oggi nello stesso posto di più 270 anni fa e ogni figlio maschio ha sempre desiderato di essere come suo padre, nessuno ha mai pensato di dover migliorare la propria condizione sociale, se c'era di che vivere, andava bene così. Ovviamente non parlo di tutta l'America, ma di quella sua parte agricola, del mondo rurale, fatto di fattorie e di piccoli centri che è perfino difficile definire "città". In luoghi del genere, nel posto in cui sono cresciuto io, nessuno ha mai desiderato essere o diventare qualcosa di diverso da ciò che già conosceva, da ciò che erano stati prima di lui suo padre o suo nonno. Voglio fare un esempio che può apparire a prima vista contraddittorio, ma che illustra chiaramente cosa sto dicendo. Mio padre faceva il meccanico, non poteva certo essere definito ricco, ma per il semplice fatto di aver messo sù un'attività tutta sua e di essere uscito dalla fattoria di mio nonno provava un certo orgoglio. Il suo lavoro non lo aveva però reso "altro" rispetto alla sua famiglia, smentendo in questo la retorica della scalata sociale spesso celebrata nel paese. Piuttosto, in questa parte d'America, ciò che veramente ha sempre contato molto per le persone è il fatto di non lavorare sotto padrone, di coltivare i propri campi, allevare le proprie bestie o, magari, inventarsi una piccola attività in proprio: in ogni caso non dover baciare il culo a nessun datore di lavoro. Per questo motivo perlomeno fino agli anni Trenta era più facile che la manodopera dell'industria venisse reclutata tra gli immigrati appena arrivati dall'Europa, sia perché le fabbriche si trovavano nei centri urbani sia perché gli americani provenienti dalle zone rurarli non avevano alcuna fretta di finire sotto padrone e nelle catene di montaggio. Il tipico redneck alla proposta di un lavoro on fabbrica avrebbe infatti risposto: «Ma vaffanculo, non ho alcuna intenzione di diventare uno "schiavo bianco"». Il mito dell'ascesa sociale appartiene al mondo urbano, alle città, non è che non si sia fatto sentire nelle campagne, tra l'altro me ne sono occupato proprio quest'anno nel mio nuovo libro Rainbow Pie: A Redneck Memoir, ma, in queste zone, ha avuto sempre un ruolo meno rilevante.

Nelle campagne del Sud i più poveri temevano di poter diventare degli "schiavi bianchi", vale a dire simili ai neri. Quanto ha pesato nella storia sociale americana il fattore della razza? Alcuni studiosi hanno spiegato che perfino l'assenza di un vero e proprio sistema di welfare negli Stati Uniti si spiegherebbe con il timore da parte dei poveri bianchi che l'assistenza fosse estesa anche agli afroamericani, cose pensa di questa lettura delle cose?
Partiamo da un chiarimento. In realtà, prima di oggi, non era quasi mai accaduto che si proponesse agli americani una qualche forma di assistenza sanitaria pubblica. C'era stato qualche segnale, ma nulla di concreto. Ciò detto, se anche gliela avessero offerta, probabilmente una buona parte dei bianchi del Sud l'avrebbero rifiutata ma non tanto per motivi "razziali", ma perché da buoni discendenti degli scoto-irlandesi e dei tedeschi, si portano ancora dentro un rifiuto dell'autorità totale, un individualismo e un rifiuto del ruolo dello Stato che niente e nessuno sono mai riusciti a mettere davvero in discussione. Più che i neri, sottomessi fin dal tempo della schivitù, queste persone temono e hanno sempre temuto ciò che definiscono come "Big government": istituzioni che entrino nelle loro case e nelle loro vite. Questo non significa che il razzismo non abbia giocato una parte imortante in questa storia. Io sono nato nel 1946 e sono cresciuto in un'era di grande razzismo, quando ero bambino c'erano ancora le aree separate per i neri nei cinema, nei teatri, nei ristoranti. Ma, in quell'epoca, anche i poveri bianchi non potevano nemmeno avvicinarsi a certi locali e, chessò, entrare in un negozio per provarsi un paio di scarpe. Dico questo per spiegare come il razzismo fosse solo una delle facce, anche se certo la più grave e terribile, assunte dalle discriminazioni soprattutto nell'America rurale. Comunque, se il governo federale non avesse detto "stop" a tutto questo alla fine degli anni Sessanta, imponendo nei fatti le leggi contro la segregazione dei neri, non so come sarebbero andate le cose. Le discriminazioni sono finite, o perlomeno quelle più evidenti, ma l'odio non credo sia mai scomparso del tutto. Del resto il razzismo nel Sud degli Stati Uniti ha radici profonde: è stato alimentato per molto tempo dai bianchi ricchi, in particolare dai proprietari delle piantagioni che avevano tutto l'interesse a dividere i poveri tra bianchi e neri per poterli mettere poi gli uni contro gli altri, in modo da poter meglio controllare la società. La generazione di mio padre è quella dei linciaggi, ma poi le cose sono cominciate a cambiare, c'è stato anche un periodo in cui tutti volevamo essere Otis Redding, diventare dei "soul brothers". E oggi la generazione dei miei figli affronta le cose in modo del tutto diverso: perfino mio fratello che potrebbe essere definito come un predicatore fondamentalista, ha dei nipotini un po' bianchi e un po' neri.

Liberazione 24/10/2010, pag 14

Il nucleare non è economico né ecologico, né sicuro: ecco perché lo vogliono!

Occorre adottare fonti energetiche rinnovabili

Massimo De Santi *
Le centrali nucleari mi richiamano alla mente un tipico proverbio toscano "piatto ricco mi ci ficco". Ed è proprio così, il ritorno al nucleare in Italia è un gigantesco affare che preparerà una grande abbuffata alla cui tavola siederanno tanti commensali avidi di denaro e di potere.
Converranno a quella tavola: l'industria meccanica nazionale in crisi che pensa di rigenerare le vecchie competenze nucleari o di riconvertirsi ad esso; le lobby transnazionali dell'energia in cerca di una nuova verginità, visto che l'era dei combustibili fossili sta per finire; i vari tecnici ed esperti nucleari dispersi e silenti per molti anni e oggi in cerca di occupazione ben retribuita; un esercito di consulenti di lusso per ingrassare le loro tasche e infine pseudo intellettuali superpagati per convincerci che il nucleare è cosa buona e giusta. Mi riferisco in primis a Umberto Veronesi ormai nominato Presidente dell'Agenzia Nazionale per la Sicurezza Nucleare, il quale utilizza il suo titolo di oncologo di fama internazionale per fare l'imbonitore e il piazzista di centrali nucleari a giro per l'Italia.
Il nucleare, invece, per il nostro paese è solo e soltanto un grande affare e non, come ci raccontano, la novella di una grande opportunità per diminuire l'effetto serra che riscalda il pianeta, perché produrrebbe molta meno CO2, o perché darebbe un contributo significativo alla produzione di energia elettrica e all'occupazione.
Quello dei bassi costi è un grande inganno che si fonda sul fatto che nel costo del nucleare non si include tutta la filiera che va dall'estrazione di uranio in miniera al suo trasporto, alla costruzione dell'impianto, agli incentivi per i comuni che ospitano l'impianto stesso (cioè la monetizzazione del rischio), all'immagazzinamento dei residui radioattivi di bassa e media intensità vicino l'impianto fino allo smaltimento delle scorie ad alta attività e allo smantellamento della centrale alla fine del suo funzionamento.
Se ciò venisse fatto, il costo del Kwh nucleare già ora sarebbe comparabile addirittura a quello prodotto attraverso il solare fotovoltaico. Si tace su tutto ciò, perché altrimenti la società si ribellerebbe e chiederebbe immediatamente, in alternativa, l'utilizzo delle fonti rinnovabili di energia.
Calcoli fatti da esperti a livello internazionale dimostrano che la CO2 prodotta dal lungo ciclo del nucleare, a parità di potenza installata, è paragonabile a quella prodotta da una centrale a carbone.
Né durante la fase di esercizio dell'impianto, perché la centrale nucleare emette continuamente elementi radioattivi di bassa e media attività, né soprattutto perché sino ad oggi nel mondo non si è ancora risolto in modo sicuro lo smaltimento delle scorie di alta attività.
Chi può, infatti, garantire lo smaltimento definitivo del plutonio o di altri elementi la cui attività radioattiva può durare per un periodo di oltre 100mila anni ?
E poi, anche se si trovasse il sito teoricamente adatto e la tecnica più idonea per il compattamento delle scorie, chi può garantire il controllo del sito per le migliaia e migliaia di anni necessari?
Allora, invece di inseguire le chimere di un nucleare economico, ecologico e sicuro che non c'è e non ci sarà, almeno in una scala di tempi ragionevoli, adottiamo programmi di risparmio, di efficienza dell'energia e di sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili (solare, eolico, ecc) da promuovere in ogni territorio e in ogni settore (fabbriche, scuole, ospedali, abitazioni, ecc).
E per questo attiviamoci e raccogliamo più firme possibili sul Disegno di Legge di Iniziativa popolare "Sviluppo dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili per la salvaguardia del clima" in modo da affermare il principio che il No al nucleare sta nelle cose, perché esiste un'alternativa a portata di mano che è più ecologica, più sicura e che può offrire opportunità di lavoro e buona occupazione stabile e diffusa su tutto il territorio nazionale anche attraverso la promozione della ricerca e di attività produttive innovative e qualificate.
Alla Campagna della raccolta delle firme che è in corso, occorre anche una maggiore partecipazione di tutte le sedi di Rifondazione Comunista e della Federazione della Sinistra per raggiungere entro il 24 dicembre le 50mila firme necessarie e anzi superarle attraverso tante adesioni, così come è stato per l'acqua pubblica.
* Fisico nucleare, dipartimento nazionale Ambiente Prc

Liberazione 24/10/2010, pag 10

Brescia, cemento in nome del pallone

L'opera "a costo zero" per le casse comunali "gratificherà" i costruttori con volumi edilizi

Daniele Nalbone
Brescia. In quella che per l'Agenzia europea per l'ambiente è la terza città più inquinata d'Europa, per il Sole 24 Ore (dati Qualità della vita 2009) la prima in Italia per decessi causati da tumore, e la prima in Lombardia per consumo di suolo agricolo, è in progetto l'ennesima speculazione che avrà gravi ripercussioni sulla qualità della vita per la cittadinanza.
Nella zona delle cave che da anni sta minando la salubrità dei quartieri San Polo, Sanpolino, Bettole e Buffalora, in un'area una volta agricola e oggi circondata dall'autostrada A4 e dalla tangenziale sud e dove incidono le emissioni di un'acciaieria (l'Alfa Acciai), l'amministrazione comunale ha in progetto di costruire il Polo logistico Italgros e, soprattutto, la Cittadella dello sport. A giudicare dall'energia con cui la Commissione grandi impianti sportivi ha presentato, a inizio ottobre, lo studio preliminare di fattibilità, il sindaco Adriano Paroli (Pdl) ha ormai deciso: saranno i 4milioni di metri quadrati dell'area delle cave (due terzi dei quali composti da acqua), il luogo su cui far piovere il nuovo stadio del Brescia calcio, un nuovo palazzetto dello sport e una pista di atletica, per un totale di un milione di mq quadrati di cemento. Non solo. Una volta creata questa mega cittadella dello sport, nulla vieterà la costruzione di una piscina, di uno specchio d'acqua in cui fare rafting e canottaggio e la nascita di uno stadio per il baseball. E visto che tutta l'opera dovrà essere "a costo zero" per le casse comunali, in cambio dalla Loggia verranno concesse ai costruttori compensazioni urbanistiche, ossia volumi edilizi. Volumi da costruire nella medesima area della cittadella (si parla di 30mila mq) oltre a circa 5mila mq di aree destinate al commerciale. E se a queste nuove edificazioni aggiungiamo la costruzione del Polo logistico Italgros per il quale sono previsti oltre 100mila mq di capannoni industriali e uffici, più una serie di opere infrastrutturali di collegamento per un totale di oltre 200mila mq, è chiaro quali sono i progetti dell'amministrazione per l'intera area: cementificare e "valorizzare".
«Altro che Parco delle Cave e bonifica di un'area che da anni sta minando la nostra salute» denunciano i cittadini del Comitato difesa e ambiente (Codisa) e del Comitato spontaneo contro le nocività che da anni si battono contro queste mega-speculazioni. Nell'area delle cave di proprietà del gruppo Faustini, secondo il progetto di rinaturalizzazione presentato alla Regione nel settembre 2007 a corredo dell'Autorizzazione intergrata ambientale, dovrebbe sorgere, dopo un'opera di bonifica, il Parco delle Cave, «un parco» ci spiega Maurizio Frassi del Codisa «che permetterebbe una vera riqualificazione di un'area oggi degradata». Alle rivendicazioni del Codisa, si aggiungono quelle del Comitato spontaneo contro le nocività: «"riqualificare" con il cemento della cittadella dello sport, come sostiene il sindaco Paroli, è un'assurdità: anche perché la cittadella tanto sponsorizzata dall'amministrazione comunale, alla quale bisogna aggiungere i 30mila mq di abitazioni "di lusso", secondo i progetti dovrebbe essere costruita vicino a una discarica di amianto». Proprio così: la Profacta Spa, società del gruppo Faustini, vorrebbe infatti aprire in una cava a ridosso dell'ex area agricola, oggi terreno fertile per cemento sportivo e non, una discarica di amianto. Discarica il cui iter è stato, per ora, bloccato dal Tar grazie a un ricorso dei cittadini di San Polo e Sanpolino e che il 9 novembre verrà analizzato dal Consiglio di stato. In pratica, come svelano i cittadini dei due comitati, il futuro stadio di Brescia dovrebbe sorgere non solo nel bel mezzo del Parco delle Cave, ma addirittura tra progetti di discariche e rifiuti tossici. E a chi sostiene che realizzare il Parco delle Cave sarebbe troppo costoso senza quelle opere di "valorizzazione", dal Codisa spiegano che «ogni cavatore, in cambio dell'autorizzazione a scavare, ha stipulato una convezione con il Comune di Brescia e la Regione Lombardia con la quale si impegna, una volta esaurita la concessione, a ripristinare la naturalità delle aree scavate». Ma un simile quadro sarebbe troppo poco conveniente economicamente: molto meglio "ricattare" la città con un nuovo e moderno stadio e prendere i tifosi per la gola. Peccato, però, che i primi a non prestarsi a questo gioco siano proprio i tifosi, ormai "alleati" con i cittadini del Codisa e del Comitato spontaneo: «non tolleriamo» denunciano gli ultras del Brescia 1911 «che si cerchi di mascherare la costruzione del nuovo stadio come un servizio per la città quanto invece non è altro che una speculazione ai danni dei tifosi e della collettività. La Giunta Paroli fa leva sul fascino di un impianto moderno per concedere permessi, altrimenti difficilmente ottenibili, per la costruzione di nuove abitazioni private e nuovi centri commerciali».
Non solo: costruire un nuovo impianto lontano dal centro della città, in un'area poco altrimenti poco ambita dai costruttori, permetterebbe di liberare il terreno dell'attuale stadio Rigamonti, nella pregiata zona di Monpiano, «che potrebbe così essere» avvertono gli ultras «a disposizione dei costruttori per i loro progetti speculativi». Evidentemente, nonostante provvedimenti restrittivi come la tessera del tifoso introdotta dal ministro Maroni per allontanare la gente dagli stadi e riempire i salotti televisivi, nonostante si parli di nuovi stadi confortevoli ed "europei" solo per interessi speculativi, per qualcuno il calcio «è ancora passione, non business e speculazione». E quel qualcuno sono proprio gli ultras.

Liberazione 23/10/2010, pag 6

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All'orizzonte un'operazione speculativa in grande stile
Cittadella dello sport,
quel progetto non s'ha da fare

Fiorenzo Bertocchi*
L'amministrazione Pdl-Lega che guida il Comune di Brescia ha un'ossessione: eguagliare il "prestigio" raggiunto dai precedenti governanti che con una serie di grandi opere (inceneritore, metropolitana, fiera) hanno segnato il territorio in maniera irreversibile. Unico obiettivo raggiunto: un indubbio ritorno d'immagine che gli permette di vantare pubblicamente una "capacità del fare" sconosciuta ai loro rivali.
A questa sindrome da nanismo amministrativo vanno aggiunte una spiccata propensione alla speculazione affaristica e la necessità di cambiare gli equilibri dei poteri forti presenti in città depotenziando la vecchia struttura vicina al centrosinistra e legata al clero locale e favorendo l'espansione sul territorio dei padroni rampanti legati alla Lega e alla Compagnia delle Opere.
In questo quadro si inserisce il progetto della Cittadella dello sport fortemente voluto dall'amministrazione Paroli che, approfittando dell'innegabile inadeguatezza dell'attuale stadio cittadino, ha ben pensato di costruirne uno tutto nuovo in una zona destinata a parco dal precedente piano regolatore. E già che si stava pensando in grande, oltre allo stadio si sono aggiunti un palazzetto, una pista di atletica, una piscina, alcuni campi da tennis e per compensare i "disagi" dei proprietari delle aree, viene loro concessa la possibilità di costruire una serie di villette e appartamenti fino ad una potenzialità di trecento strutture abitabili.
Non male per una città che vanta 5mila appartamenti vuoti e con il problema di una serie crescente di sfratti in atto al quale le istituzioni locali non sembrano intenzionate a dare risposta.
Vista da quest'angolazione, l'operazione appare chiaramente per quella che è: una mera speculazione da evitare a tutti i costi per un'infinità di motivazioni di carattere politico, sociale, ambientale e culturale.
L'opera è inutile perché un nuovo stadio non serve alla città: con minor spesa è possibile ammodernare l'esistente rendendolo accogliente, fruibile non solo per il calcio e vissuto dalla cittadinanza che deve essere coinvolta in tutte le fasi di programmazione del territorio e deve poter partecipare alle decisioni.
Non possono essere i privati che a seconda dei loro interessi impongono la trasformazione e la destinazione delle aree. E' inutile perché il palazzetto dello sport sarebbe un doppione di una struttura già esistente a Montichiari, da due anni desolatamente vuota e destinata ad essere sottoutilizzata ancora per parecchi anni.
E' inutile perché le altre strutture sono pensate solo per dare risposte a chi pratica sport agonistico e non sono finalizzate a creare una reale cultura dello sport a misura d'uomo.
E' dannoso perché collocato in una zona della città fortemente aggredita dal punto di vista ambientale da cave, discariche e attività industriali nocive che negli anni hanno portato il quartiere di S.Polo ai vertici delle classifiche per patologie territoriali.
Il parco delle cave è la giusta compensazione per gli abitanti di quel quartiere e di tutta la città che per anni hanno subito le angherie di chi si è arricchito sulla pelle dei cittadini.
Un atto di civiltà che potrebbe anche aprire la strada a nuovi orizzonti d'uscita dalla crisi riproponendo argomenti quali il rapporto con l'ambiente, il ripensamento dell'attività produttiva, la riappropriazione dei tempi di vita.
Un lavoro lungo e duro che però dobbiamo fare.
Segretario PRC di Brescia

Liberazione 23/10/2010, pag 6

Da Wikileaks le prove: la guerra in Iraq è un bagno di sangue

La più grande fuga di notizie nella storia dell'esercito Usa. Centinaia di torturati

Francesca Marretta
Iraq, estate 2005. Un plotone militare americano a cavallo manda civili iracheni in avanscoperta su strade che suppone siano minate. Le "cavie" credono di aver rimediato un lavoretto per la giornata: «ripulire la strada da macerie e rifiuti». Questo racconto da brivido non è estratto da un romanzo. E' la realtà nascosta sul fronte iracheno. Si tratta di uno dei quasi 400mila file secretati resi pubblici dal sito WikiLeaks. Che dopo le rivelazioni dell'estate scorsa sulle omissioni e le menzogne relative alla guerra in Afghanistan, alza ora il sipario sul teatro dell'orrore che è stata la guerra in Iraq. Un conflitto con numeri da riscrivere. Documenti segreti alla mano, il riconteggio dei morti iracheni per cause violente, tra il 2003 e il 2009, è aggiornato a 122mila vittime. Di queste 66mila erano civili. Più della metà del totale.
Secondo l'organizzazione londinese Iraq Body Count, che tiene il conto delle vite spezzate in terra di Babilonia, i morti civili che mancavano all'appello erano ben quindicimila. Gli incidenti in cui questo numero impressionante di iracheni ha perso la vita, erano rimasti del tutto sconosciuti. Morti coperte dal segreto militare, di cui nessuno avrebbe dovuto sapere nulla. Prima della pubblicazione dei file secretati, a Iraq Body Count risultavano infatti 107.369 civili uccisi per la guerra.
Le cifre della morte in Iraq, fanno impallidire, al confronto, la pur terribile situazione in Afghanistan. Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, ha sottolineato ieri che il numero dei morti in Iraq è stato, infatti, «cinque volte più alto». Ma anche sulla guerra in Afghanistan, annuncia WikiLeaks, salteranno fuori tra poco nuovi scottanti documenti, finora sconosciuti.
I file iracheni messi in rete da Wikileaks, frutto di una gola profonda nell'intelligence Usa, sono stati forniti a importanti media come The Guardian, Le Monde, Die Spiegel, il New York Times ed Al Jazeera, che per prima ha scoperchiato questo nuovo vaso di Pandora, mettendo tutto in rete meno di 36 ore fa. In Iraq, tanto per citare solo alcuni degli episodi-vergogna, i militari Usa hanno scoperto cadaveri di «migliaia di uomini e donne vittime di esecuzioni sommarie», mettendo tutto a tacere. Ancora, l'esercito americano si è del resto reso responsabile dell'uccisione, ai check-point, di almeno 681 civili, tra cui molte donne e bambini. Dalle rivelazioni del sito specializzato in Intelligence, emergono sopratutto enormi responsabilità delle forze di sicurezza irachene, regolarmente coperte, dai militari americani e britannici. Un atteggiamento complice che riguarda in particolare episodi di tortura, abusi e violenze sessuali, perpetrate sistematicamente da esercito e polizia iracheni nei confronti di detenuti della loro stessa nazionalità. Nei file si parla ad esempio di prigionieri ammanettati, bendati e appesi per i polsi o per le caviglie che vengono frustati, presi a pugni, o anche sottoposti a elettroshock. In sei di questi documenti viene riportata la morte del detenuto. Un esempio di menzogna e copertura? Il 27 agosto 2009, un referto medico americano parla di «bruciature e lesioni, oltre che evidenti ferite alla testa, braccia, dorso, collo e gambe, sul corpo di un uomo che la polizia irachena dichiara morto per suicidio. Altro esempio? Il 3 dicembre 2008, un detenuto morto ufficialmente per «problemi renali», riportava sul corpo «tracce visibili di procedimenti chirurgici sconosciuti all'addome».
Molti dei documenti secretati relativi a casi del genere, si concludono con la formula: «non essendo coinvolte le forze internazionali nel presunto abuso, non è necessaria alcuna ulteriore indagine». Un portavoce del Pentagono, citato ieri dal New York Times, ha insistito, davanti all'evidenza, che la politica Usa sui detenuti iracheni «è sempre stata conforme al Diritto internazionale». Ma dai documenti pubblicati risultano, persino dopo lo scandalo del carcere di Abu Ghraib, almeno altri 300 casi di abusi di prigionieri iracheni per mano di soldati americani.
E mentre Assange suggerisce ai democratici statunitensi di usare questa massa di rivelazioni per «chiedere conto» ai repubblicani di questa vergogna provocata dall'Amministrazione Bush, il segretario di Sato Usa Clinton gli si rivolta contro, sottolineando piuttosto, che le rivelazioni di WikiLeaks mettono in pericolo gli americani impegnati in Iraq. Analogo atteggiamento è tenuto dal Ministero della Difesa britannico. Durante una conferenza stampa tenuta ieri a Londra, Assange ha difeso la decisione di pubblicare i file per «ristabilire la verità» su quanto accaduto in questi anni in Iraq. E a proposito ha aggiunto: «Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità e così è stato». Ma la sensazione orribile, pensando alle reazioni ufficiali americane e britanniche, è che così è e così sarà.

Liberazione 24/10/2010, pag 6

Honduras, il golpe dimenticato

Luther Castillo, medico garifuna e membro della Commissione Comunicazione del Frente Nacional de Resistencia Popular de Honduras è in Italia per far conoscere l’eroica resistenza del popolo honduregno contro il golpe del 28 giugno 2009 e parlare del progetto di rifondazione del paese dopo le elezioni illegittime del 29 novembre 2009.

A distanza di un anno e mezzo dal golpe, nonostante i tentativi di convincere la comunità internazionale che la situazione nel paese sia stata “normalizzata” sappiamo che le repressioni e le violazioni dei diritti umani continuano, così come la resistenza. Vuoi dirci com’è la situazione oggi in Honduras?
Il 28 giugno 2009 è stato infranto l’ordine costituzionale nel mio paese e il governo illegittimo di Pepe Lobo Sosa rappresenta la continuità di quella rottura: le elezioni del 29 novembre avevano come fondamento il golpe e si sono svolte in un clima militarizzato. Oggi coloro che hanno organizzato il golpe hanno il controllo totale dei tre poteri dello stato: legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè la base della democrazia.
Gli attuali deputati sono per il 70% gli stessi che componevano il Congresso che ha rimosso Zelaya sotto la surreale definizione di “sostituzione costituzionale”. Si sono auto-amistiati e hanno promulgato leggi che garantiscono l’impunità agli autori di crimini durante e dopo il golpe. I componenti della Magistratura e della Corte Suprema di Giustizia coinvolti nel colpo di stato hanno mantenuto i loro incarichi e continuano ad essere strumenti di persecuzione politica e discredito contro Zelaya e contro i membri del FNRP. Molti degli autori materiali del golpe detengono gli incarichi più importanti come il generale Romeo Vasquez, ex capo dell’esercito e ora ministro delle telecomunicazioni.
Per quanto riguarda le violazioni dei diritti umani, i dati del VI rapporto del Comité de Familiares de Detenidos Desaparecidos en Honduras (COFADEH), del marzo 2010, sono illuminanti: si parla di più di 1.000 violazioni ai Diritti Umani e ci sono stati 12 giornalisti assassinati. Inoltre il COFADEH ha le prove dell’esistenza di squadroni della morte (www.cofadeh.org). L’organizzazione Reporter senza Frontiere ha inserito il paese Honduras nella lista dei paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti. In tutto questo, nonostante il governo de facto tenti di frammentare il FNRP manipolando l’informazione, e con la repressione e la persecuzione, il Frente allarga la sua base sociale con una resistenza pacifica e quotidiana, promuovendo il processo di rifondazione del paese attraverso la richiesta di una Assemblea Nazionale Costituente.

Qual è la situazione in termini di credibilità del governo di Lobo?
Lobo e il suo governo hanno perso di governabilità perché sono incapace di risolvere la grave crisi politica, economica e sociale del paese. Oggi il governo sta mettendo in atto uno dei progetti neoliberisti più aggressivi degli ultimi tempi: con la Ley Reguladora del Regimen de Partecipacion Publico Privada prosegue con la privatizzazione dei servizi pubblici; viene respinta la richiesta di elevare il salario minimo; è stato lanciato un Plan Nacional Solidario de Empleos Anticrisis, che di fatto autorizza le violazioni alla legge nazionale, alla Costituzione, agli accordi dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), spianando la strada al concetto di lavoro a chiamata che porterà precarietà e miseria alla maggior parte della popolazione.
Le continue violazioni ai diritti umani hanno causato perdita di consenso, così come la cancellazione di tutte le misure e i cambiamenti che il governo di Zelaya aveva attuato. Dal punto di vista internazionale il governo non riesce a superare il blocco e l’isolamento che è derivato dall’espulsione dalla Organizzazione degli Stati Americani (Osa): nonostante i vari tentativi e le pressioni anche da parte del segretario di Stato statunitense Hilary Clinton, l’Honduras non è ancora stato riammesso. Inoltre rimane insoluta la questione del ritorno di Zelaya e di tutti gli esiliati dal paese e l’amnistia concessa ai i golpisti. Molti degli autori materiali temono il giudizio internazionale, consapevoli delle loro azioni e del fatto che ci sono precedenti di condanne, come per Pinochet e alcuni militari argentini.

Il prossimo 4 novembre il paese Honduras dovrà presentarsi al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite per il cosiddetto EPU, Esame Periodo Universale per la valutazione sul rispetto dei diritti umani nel paese…
Il quattro novembre il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite avrà il compito di valutare il rispetto e l’adempimento degli obblighi internazionali con rispetto al diritto internazionale umanitario negli ultimi quattro anni in Honduras. Nel mio paese, dall’aprile di quest’anno, si è costituito un Gruppo strategico EPU-Honduras, formato da varie realtà tra cui l’Associazione dei Giudici per la Democrazia, il Collettivo delle Donne dell’Honduras (Codemuh), il Frente degli Avvocati in Resistenza. Rappresentanti del Gruppo si recheranno a Ginevra in occasione dell’EPU presentando un documento da loro elaborato dal titolo “Principali preoccupazioni sulla situazione dei Diritti Umani in Honduras – periodo 2006-2010”
In questa occasione qualunque tipo di pressione può essere di aiuto. Chiediamo che i rappresentanti dei paesi membri del Consiglio non accettino la posizione di Lobo e che tengano in considerazione le denunce sulle continue e quotidiane violazioni dei diritti umani in Honduras.

La rifondazione del paese attraverso la convocazione di una Assemblea Nazionale Costituente è il progetto del Frente. Lobo ha parlato di possibilità di dialogo sulla Costituente…
Il Frente ha raccolto quasi 1.500.000 (1.342.876 sono state presentate il 17 settembre scorso nella sede del Sindacato dei Lavoratori dell’Industria delle Bevande - Stybis – ma continuano ad arrivare dai villaggi meno accessibili). Questa cifra significa più della metà degli aventi diritto al voto: più dei voti con cui è stato “eletto” Lobo. Questa è vera espressione di volontà popolare.
Oggi il governo illegittimo di Lobo sta cercando di assumere come proprie le proposte del Frente cercando così di neutralizzarle. Sotto la direzione del Pentagono e del Dipartimento di Stato degli Usa, stanno cercando di far rivivere il pessimo Accordo di San Josè nelle parti al governo più convenienti: la commissione per la Verità, il Ministero della Giustizia e Diritti Umani, la Riforma della Costituzione attraverso un plebiscito, la Costituente e il recupero del concetto di governo di riconciliazione e unità nazionale.
Durante un’assemblea straordinaria dei delegati del Frente provenienti da tutto l’Honduras, svoltasi in Nicaragua nella prima settimana di ottobre, il Frente ha sancito il suo rifiuto alla proposta di dialogo presentata dal titolare del regime honduregno Porfirio Lobo, per ”discutere” sul progetto di installare un’Assemblea Costituente, ritenendo la proposta una trappola per delegittimare il progetto della resistenza. Per il Frente, accettare questo invito vorrebbe dire permettere al regime di fare un altro passo verso il consolidamento del golpe e il ritorno dell’Honduras nell’Osa. Inoltre hanno invitato la Resistenza, ma escluso il suo coordinatore nazionale, l’ex presidente Zelaya, e hanno anche convocato un’infinità di organizzazioni golpiste. L’obiettivo è lasciarci in minoranza.

Sei un medico Garifuna, e membro del Frente, sei stato vittima di minacce e l’ospedale in cui lavori è stato attaccato e chiuso durante il golpe. Per quale motivo attaccare un ospedale?
Non posso parlare dell’ospedale senza parlare della solidarietà del popolo cubano. Nel 1999, dopo l’invio di medici cubani per aiutare le popolazioni colpite dall’urgano Mitch, è stata fondata all’Avana, in Cuba, la Escuela Latinoamericana di Medicina, ELAM, dove io mi sono laureato come “uomo di scienza e di coscienza”. L’obiettivo della scuola è permettere a coloro che non ne avrebbero la possibilità e che provengono dai paesi poveri (dall’America Latina e Centrale all’Africa fino all’Asia per un totale oggi di studenti provenienti da 76 paesi) di formarsi come medici per poter tornare nei paesi di origine e dare il loro contributo.
L’ospedale “Primo Ospedale Garifuna”, inaugurato nel 2007, si chiama così perché è il primo dopo 214 anni di presenza della comunità indigena Garifuna nel paese. È nato grazie ad un’iniziativa di medici garifuna laureati alla ELAM, costruito materialmente dalla comunità e dalla sua apertura ha fornito assistenza sanitaria gratuita a quasi mezzo milione di persone povere della zona (nda costa atlantica, nord del paese).
Prima del golpe avevamo siglato un accordo con il governo di Zelaya che ci garantiva una fornitura base di medicinali e la possibilità di assumere 4 medici. Con il contributo per pagare 4 medici ne pagavamo 12.
L’ospedale è stato occupato dai militari durante il golpe perché la sua esistenza è una sfida al sistema: con questo progetto dimostriamo che una sanità gratuita è possibile. Ovviamente tutti gli accordi precedenti sono stati annullati.
Oggi abbiamo riaperto ma sopravviviamo grazie a donazioni e rappresentiamo l’unica istituzione che salva vite ad una popolazione privata del diritto alla salute, sancito da innumerevoli dichiarazioni ONU. In Honduras è in atto da tempo, e oggi portato avanti con maggior forza, la privatizzazione della sanità, anche grazie alla cancellazione del debito estero da parte dell’Italia che aveva posto il vincolo che i fondi fossero destinati al progetto di decentralizzazione della sanità: lo stato non è più responsabile e compra i servizi dai privati, mercificando così la salute dei cittadini. Per noi fornire assistenza medica gratuita è uno dei tanti modi di fare resistenza.

Cosa chiede il Frente ai movimenti sociali europei?
Chiediamo che ci accompagnino nella lotta, denunciando le persecuzioni, gli omicidi selettivi di sindacalisti, giornalisti, contadini, donne e uomini in resistenza, le continue violazioni dei diritti umani. Chiediamo che si rompa il cerchio mediatico e si ottenga giustizia per i crimini di lesa umanità commessi durante e dopo il golpe.

Anna Camposampiero
in data:23/10/2010

http://www.liberazione.it/news-file/Honduras--il-golpe-dimenticato----LIBERAZIONE-IT.htm

Battaglia dei ponti, Wikileaks sbugiarda anche gli italiani

Nel 2004 i lagunari non furono attaccati. Smentito il suicidio del militare Marracino: colpito da fuoco amico

Daniele Zaccaria
Nella notte tra il 5 e il 6 agosto del 2004 a Nassiriya non ci fu nessuna aggressione alle truppe italiane, non ci fu nessun furgone privo d'insegne con uomini armati a bordo e non ci fu nessun check point ignorato dall'improvvido autista del veicolo.
Contro i soldati dell'operazione "Antica Babilonia" non venne infatti sparato alcun colpo d'arma da fuoco e il furgone crivellato di colpi di cui parlavano le versioni ufficiali era in realtà un'ambulanza che, oltre al personale sanitario, stava trasportando in ospedale quattro civili iracheni: una donna incinta, la madre, la sorella e il marito.
E' quanto emerge dai 400mila file riservati del Pentagono pubblicati dal sito investigativo Wikileaks. Nel mare magno di informazioni confidenziali occhieggia anche un rapporto classificato (numero d'ordine 20048632538RPV) in cui viene raccontato nel dettaglio l'antefatto della cosiddetta "battaglia dei ponti", l'episodio più conytroverso dell'occupazione italiana in Iraq, che vide impegnati il corpo dei lagunari e le milizie sciite fedeli all'imam radicale Moqtada al Sadr. Ecco invece la versione ufficiale, quella data in pasto ai media dalo nostro Stato maggiore: «Alle ore 03.25 un automezzo che transitava sul ponte orientale di Nassiriya non si è fermato al check-point italiano e veniva conseguentemente ingaggiato con armi leggere. Quindi si è prodotta una grande esplosione, seguita da una seconda da cui si è valutato che il veicolo avesse dell'esplosivo». Un racconto verosimile, peccato che fosse soltanto opera della fantasia dei nostri ufficiali.
Oltretutto Kadem Khazal Sabah, l'autista dell'ambulanza, uscì miracolosamente indenne dall'aggressione e riuscì a raccontare tutta la vicenda a un giornalista americano, Micah Garen, il quale filmò con il telefono cellulare la carcassa dell'ambulanza devastata dalle armi leggere italiane: «Avevamo rallentato e accostato al posto di blocco dei militari, ma loro hanno iniziato a spararci», spiega Sabah. La storiella del furgone sospetto che viaggiava ad alta velocità che non si fermò all'alt dei parà è il frutto di una manipolazione che avviene spesso nei teatri dei guerra: citare un fatto realmente accaduto modificando il contesto; effettivamente il 5 agosto del 2004 un veicolo attraversò uno dei ponti sull'Eufrate ignorando il check-point italiano e scatenando una furibonda sparatoria che poi diede luogo alla battaglia di Nassiriya con decine di morti e feriti tra i miliziani sciiti. Ma la sparatoria avvenne alle 4.25 del mattino, cioè esattamente un ora dopo il passaggio dell'ambulanza.
Tra i file messi in rete da Wikileaks e pubblicati dal Guardian e dal New York Times viene a galla un'altra amara verità che riguarda la morte del paracadutista della Folgore Salvatore Marracino. Il sergente perse la vita durante un'esercitazione il 15 marzo 2005, ma stando alle ricostruzioni militari si trattò di un suicidio: «Un colpo d'arma da fuoco partì dal suo fucile che si era inceppato», venne scritto all'epoca dei fatti. Non era vero: Marracino fu raggiunto da un proiettile sparato dai suoi stessi compagni, ossia fu vittima di quello che in gergo militare viene chiamato "fuoco amico". Dopo l'incidente Marracino sarebbe stato portato prima in un ospedale militare a Camp Mittica e poi trasferito in nosocomio di Kuwait City, ma le sue condizioni erano disperate non ci fu nulla da fare.
Le nuove rivelazioni dal sito diretto da Julien Assange mettono in grande imbarazzo il nostro comando militare (e quello statunitense), poiché emerge con chiarezza il tentativo di insabbiare la verità su quella drammatica giornata di guerra e di servire all'opinione pubblica la solita versione edulcorata dei fatti. Non è la prima volta e non sarà neanche l'ultima.

Liberazione 26/10/2010, pag 1 e 5

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Imbarazzato no comment sulle notizie svelate

«Nulla di trascendentale» dice il ministro La Russa

«Non emerge niente di trascendentale». Questa è stata la risposta del ministro della difesa, Ignazio La Russa, alle domande dei cronisti sulle informazioni pubblicate dal sito Wikileaks. Non una parola sull'ambulanza colpita dai militari italiani nell'agosto del 2004 a Nassiriya e sulla morte del parà Marracino, ucciso da una ferita alla testa il 15 marzo del 2005. Secondo le informazioni fornite da Wikileaks dall'ambulanza nessuno sparò ai soldati italiani (come invece sostiene la versione ufficiale che parla di reazione a un attacco) e il parà non si uccise da solo per un fatale errore (come sostengono i risultati di un'inchiesta della procura militare) ma venne «colpito accidentalmente durante una esercitazione». «Mentre il sergente stava cercando di sbloccare l'arma che si era inceppata, partì accidentalmente un colpo» ha ribadito ieri il procuratore militare di Roma, De Paolis. Il sergente Marracino faceva parte di un reparto d'elite e aveva una esperienza tale da far ritener improbabile che, per tentare di risolvere l'inceppamento, abbia rivolto l'arma contro il proprio volto. Inoltre la canna dell'arma in questione è lunga un metro: ci vogliono braccia davvero lunghe per spararsi impugnandola a rovescio. Dall'esame necroscopico risulta un foro d'ingresso sulla fronte, non sotto lo zigomo come era stato detto inizialmente dalle fonti ufficiali.

Liberazione 26/10/2010, pag 5

Grande ambizione e piccole ambizioni

Antonio Gramsci
Può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione? "L'ambizione" ha assunto un significato deteriore e spregevole per due ragioni principali: 1) perché è stata confusa l'ambizione (grande) con le piccole ambizioni; 2) perché l'ambizione ha troppo spesso condotto al più basso opportunismo, al tradimento dei vecchi principi e delle vecchie formazioni sociali che avevano dato all'ambizioso le condizioni per passare a servizio più lucrativo e di più pronto rendimento. In fondo, anche questo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà, o correre troppo grandi pericoli.
E' nel carattere di ogni capo di essere ambizioso, cioè di aspirare con ogni sua forza all'esercizio del potere statale. Un capo non ambizioso non è un capo, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco. (…) La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt'altro: tutto sta nel vedere se l'"ambizioso" si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato consapevolmente dall'elevarsi di tutto uno strato sociale e se l'ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell'elevazione generale.
Di solito, si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo). Queste osservazioni sull'ambizione possono e devono essere collegate con altre sulla così detta demagogia. "Demagogia" vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore, significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l'elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo con i suoi regimi plebiscitari), ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi da buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera "costituente" costruttiva, allora si ha una "demagogia" superiore; le masse non possono non essere aiutate ad elevarsi attraverso l'elevarsi di singoli individui e di intieri strati "culturali". Il "demagogo" deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico) (…) Il capo dalla grande ambizione, invece, tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili "concorrenti" ed uguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa, e questi vogliono che un apparato di conquista e di dominio non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell'impotenza primitiva. Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine "carismatica", deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità.
Antonio Gramsci
(dai "Quaderni del carcere")

Liberazione 26/10/2010, pag 1 e 7

Fondi all'editoria: 100 giornali rischiano di chiudere

Signor Presidente del Senato, Signor Presidente della Camera,

il settore dell'editoria nel nostro Paese è investito da una crisi molto pesante, la più grave dall'ultimo dopoguerra. Oltre cento testate - tra quotidiane e periodiche - di idee, cooperative, non profit, di partito, edite e diffuse all'estero e tante aziende dell'emittenza locale sono sull'orlo della chiusura. Alcune di esse hanno avviato la procedura di liquidazione; altre stanno procedendo a contratti di solidarietà, altre ancora sono comunque appesantite in modo difficilmente sopportabile. Si tratta di una prospettiva drammatica: si perderebbero circa 4500 posti di lavoro, tra giornalisti e poligrafici, senza contare le conseguenze che ricadrebbero sugli enti di previdenza del settore. Il sistema italiano dell'informazione non sarebbe più come prima. Sarebbero scomparsi giornali, anche storici e di grande valore culturale, sarebbe più povero il dibattito politico, marginalizzato dalla precarietà se non dalla chiusura dei giornali di partito, sarebbero spente tante voci e chiuse tante pagine che raccontano la vita di comunità locali e la realtà profonda del Paese, si indebolirebbe il legame con i nostri connazionali all'estero. Il pluralismo riceverebbe un colpo durissimo ed i cittadini sarebbero privati di una parte importante degli strumenti di informazione e conoscenza; il "quarto potere"sarebbe sempre meno "quarto", libero ed indipendente, il controllo democratico subirebbe una drastica limitazione. Conscio della situazione, il Parlamento - nei mesi passati - è più volte intervento ma il Governo ha rifiutato ogni richiesta. Il 18 febbraio u.s. trecentosessanta Deputati hanno chiesto al Governo di prorogare almeno fino al 1° gennaio 2012 il diritto soggettivo, stanziare le risorse necessarie a coprire il fabbisogno e di presentare - entro il 30 giugno 2010 - un DDL di riforma dell'editoria. Mercoledì 10 marzo la Commissione cultura della Camera, con voto unanime, ha chiesto il ristabilimento del diritto soggettivo a ricevere il totale dei contributi diretti derivanti dal calcolo effettuato sulla base della normativa vigente - superando così l'art. 44 del decreto-legge 25 giugno 2008, n.112 - ed il ripristinare dei contributi per i giornali editi e diffusi all'estero nonché all'emittenza locale. Nello stesso periodo il Senato ha impegnato il Governo a prorogare, almeno fino al primo gennaio 2012 il diritto soggettivo ed a presentare entro il 30 giugno 2010 un DDL di riforma dell'editoria finalizzato ad introdurre norme di maggior rigore nei criteri di accesso ai contributi, atte a ridurre il fabbisogno necessario per far fronte all'impegno di tutela del pluralismo, garantendo nel contempo una riduzione dei relativi oneri per lo Stato.
Tutto ciò per evitare che il comparto giungesse alla riforma più che decimato.
E non si è trattato di richieste per esonerare il settore dal farsi carico della esigenza di rigore, di fronte alla situazione del Paese. In poco più di un anno, infatti, il fondo editoria (contributi diretti ed indiretti) non è stato solo ridotto ma più che dimezzato. In queste settimane, infine, numerosi parlamentari si sono mobilitati per porre riparo alla soppressione delle tariffe postali agevolate, soppressione che ha già determinato la sospensione di numerose pubblicazione a causa dei nuovi costi insostenibili.
Crediamo che non sia giusto disattendere la volontà del Parlamento sia dal punto di vista istituzionale né da quello politico e sociale.
Per scongiurare la prospettiva di una decimazione delle fonti dell'informazione e della conoscenza, che penalizzerebbe un settore così importante per lo spessore e qualità della democrazia, ci permettiamo di chiedere, al Presidente del Senato ed al Presidente della Camera, di assumere una iniziativa, nelle forme e nei modi che riterranno più opportuni, affinché la volontà e le decisioni del Parlamento non vengano disattese.
Grati per l'attenzione cogliamo l'occasione per salutare cordialmente.
Cordiali saluti

Dino Greco - Liberazione
Flavia Perina - Il Secolo d'Italia
Stefano Menichini - Europa
Norma Rangeri - il Manifesto
Concita De Gregorio - l'Unità
seguono le firme di decine di direttori di importanti testate locali

Liberazione 23/10/2010, pag 1 e 12

Sito: Redattore Sociale

“Redattore Sociale” è la prima Agenzia giornalistica quotidiana dedicata al disagio e all’impegno sociale in Italia e nel mondo.
È anche la prima testata nel suo genere promossa da un’organizzazione – la Comunità di Capodarco - direttamente coinvolta in queste tematiche. È consultabile in abbonamento all’indirizzo internet www.redattoresociale.it, dove mette a disposizione degli utenti un sistema dinamico che integra attualità e documentazione, notizie e banche dati, dando la possibilità di seguire gli avvenimenti del giorno e nel contempo di svolgere ricerche.
Oltre quelli utilizzabili attraverso il portale, l’Agenzia realizza anche diversi servizi editoriali per committenti istituzionali e non.

http://www.redattoresociale.it/

Generazione P, l'informazione embedded è servita

Solitamente, in questa pagina, ospitiamo interviste o pareri "illustri" a sostegno del nostro quotidiano. Stavolta no. Per una volta, lasciamo spazio a un blitz. Un blitz mediatico e generazionale. In fondo, la campagna per Liberazione significa tante cose: non solo la necessità di continuare a sottoscrivere abbonamenti per far sì che questa voce libera dell'informazione italiana continui, ogni giorno, a essere presente in edicola e a far parlare di sé nelle rassegne stampa. Significa anche, soprattutto, agire per difendere un'informazione libera, plurale e vera. Ed è per questo che stavolta abbiamo deciso di confrontarci direttamente con la Generazione P.
L'idea iniziale era quella di intervistare i precari che compongono la Generazione P, ma "purtroppo" ci siamo immediatamente resi conto che la Generazione P non può essere ridotta a una voce, a un "intervistato". Al tempo stesso ci siamo accorti che, inconsapevolmente, già moltissime volte eravamo andati a trovare la Generazione P; che abbiamo seguito molte loro assemblee; che abbiamo camminato fianco a fianco in diverse occasioni, in molti cortei, in alcuni blitz. Raccontando le azioni dei senza casa, dei precari, dei giovani, degli studenti fuorisede abbiamo parlato molte volte della Generazione P. E li abbiamo anche intervistati "collettivamente". Solo che non sempre ce ne siamo resi conto.
E' così che un giorno di ottobre, mentre si avvicinava il grande corteo della Fiom, è stata la stessa Generazione P a sbattere in faccia a tutti noi, cioè a tutti i media, la sua esistenza. Lo ha fatto, per la prima volta, senza scendere in piazza attivamente. Ci è riuscita con un "blitz mediatico" che, per qualche ora, ha messo i bastoni tra le ruote di quella "macchina da guerra" messa in campo per la criminalizzazione di un movimento definito «terrorista», di un "terrorismo" fatto, udite udite, di uova e vernice. Era il 13 ottobre e ne abbiamo parlato su queste colonne: «Uova e vernice contro la Cisl, ma è una bufala».
E' accaduto che i ragazzi di Generazione P con un semplice scherzo hanno mostrato mille verità. È bastato spedire sul web un finto comunicato stampa che rivendicava un altrettanto finto attacco alla sede Cisl del quartiere Casilino, mandare in giro due fotografie artefatte, una con un muro sporco di vernice rossa, l'altra con una parete sulla quale si lanciavano "Polpette al potere", ed il gioco era fatto. Agenzie di stampa e quotidiani si sono affrettati a rilanciare la non-notizia, mentre immediate sono state le solite reazioni scandalizzate di politici e sindacalisti, tanto del centrodestra quanto del centrosinistra, contro un gesto «violento e antidemocratico» (Vannino Chiti, Pd). IGli animi "liberi" e "democratici" si sono placati solo quando è giunto il comunicato che svelava il bluff: tutto falso; nessun attacco a nessuna sede Cisl. «Nemmeno sappiamo se esiste una sede Cisl al Casilino».
Insomma, con una mail e due foto ritoccate la Generazione P è riuscita a smascherare «un sistema mediatico e un dibattito politico talmente ridicolo e lontano dalla realtà da poter essere egemonizzato per una mattina da una notizia palesemente falsa». Il blitz mediatico, però, un fondo di verità lo aveva: a firma delle finte azioni "terroriste" di uova e vernice, c'era la scritta "La Generazione P cerca casa". Perché questa Generazione di Precari una casa la cerca veramente. Peccato però che alla denuncia di una tale drammaticità che coinvolge precari, disoccupati e studenti in tutta Italia, nessuno voglia dare risposte. Molto meglio, per politici e giornalisti, denunciare che qualcuno ha imbrattato un muro.
Così, due giorni dopo lo scherzo, il 15 ottobre, la Generazione P ha occupato uno stabile abbandonato da anni nel cuore della città di Roma, in via Filippo Scolari, nel quartiere Pigneto. Stavolta per davvero. Nessun quotidiano, però, ha sentito il bisogno di raccontare la vicenda: «Avrebbero dovuto spiegare troppe cose - è il laconico commento dei "terroristi mediatici" - Per loro, molto meglio continuare ad aspettare che altre uova e altra vernice imbrattino altre mura».
Quel blitz mediatico e questa occupazione, inconsapevolmente, la Generazione P l'ha fatta anche per Liberazione. E ora che questa occupazione è sotto sgombero, Liberazione non può che mostrarsi solidale e vicina a questi "terroristi" e invitare a prendere parte all'assemblea pubblica di domani in via Scolari per evitare lo sgombero del "laboratorio precario". Perché, ogni giorno che passa, la Generazione P sta diventando sempre di più una vera e propria classe sociale, oscurata dai media e in perenne lotta per uscire dall'anonimato. Una lotta fatta con la testa, con furbizia, con uova e vernice "mediatiche". Così mostrando qual è la vera faccia dell'informazione mainstream.
D.N.

Liberazione 21/10/2010, pag 12

Abusivismo edilizio, lo inventò il fascismo

Un excursus di Paolo Berdini dal Ventennio a oggi

Daniele Nalbone
«Le nostre città sono state devastate dalla speculazione edilizia e dall'abusivismo, e cioè da due segmenti della "libera" iniziativa economica». Nel suo ultimo libro, Breve storia dell'abuso edilizio in Italia, dal ventennio fascista al prossimo futuro (Donzelli, pp. 166, euro 16), l'urbanista Paolo Berdini spiega, in una sola frase, le "politiche-non politiche" abitative del nostro paese. Le origini dell'abusivismo risalgono alla Roma fascista e del dopoguerra. Per capire la dimensione del fenomeno, basta pensare che se nel 1909 gli abitanti nella Roma del sindaco Ernesto Nathan erano 519mila, nel 1931 il numero passò a 930mila. In poche parole, sotto il fascismo nacque quello che Berdini chiama «abusivismo naturale»: niente regole, niente prescrizioni. Era sufficiente il "consenso dell'autorità governatoriale", come riportato all'articolo 14 delle norme tecniche per l'applicazione del piano regolatore di allora, per aggirare qualsiasi divieto. Da quel momento in avanti, borgate e quartieri fantasma crebbero ovunque. Il risultato, come dimostrato da un aneddoto che Berdini porta ad esempio del non funzionamento di quelle non politiche, è che durante la visita di Adolf Hitler del 1938, per celare l'obbrobrio rappresentato da quegli insediamenti spontanei, venne realizzata una quinta di trompe l'oeil lungo via Tiburtina. Da quel momento in poi, ogni tentativo di pianificazione nel nostro paese verrà messo a tacere: il risultato finale è la totale «privatizzazione» dell'urbanistica. Così negli anni del boom economico il tentativo di Fiorentino Sullo di riformare l'urbanistica italiana viene "sventato" dai signori del mattone: subito dopo la frana che nel 1966 distrusse Agrigento, «causata dalla costruzione di 8500 vani in contrasto con le norme», l'allora ministro dei Lavori pubblici del governo democristiano tentò di "condizionare" la speculazione fondiaria concedendo agli enti locali il diritto di esproprio preventivo di tutte le aree fabbricabili incluse nei piani regolatori. Aldo Moro bollò la riforma Sullo, su pressione dei proprietari terrieri e dei "signori del mattone", come un'iniziativa personale del ministro. In pochi mesi, il tutto venne chiuso a doppia mandata in un cassetto. E, per chiudere il cerchio, nel 1974 i sindaci, tecnici comunali e del genio civile rinviati a giudizio per la frana di Agrigento, difesi strenuamente dal sistema politico in generale e dalla Dc in particolare, vennero assolti in blocco per non aver commesso il fatto. Da questo momento in poi, gli unici interventi urbanistici sono i condoni edilizi. Dal primo firmato Craxi nel 1985, pochi mesi prima l'approvazione della legge Galasso sulla tutela del paesaggio italiano, a quello del 1994 che porta la firma di Silvio Berlusconi. «Anche allora - scrive Berdini - come nel 1985 si disse che sarebbe stato l'ultimo». Ultimo fino al 2003, quando la stessa maggioranza, rieletta, approvò il terzo condono edilizio della storia italiana. Quale sia il bilancio economico di queste tre leggi, però, non è dato saperlo: mai è stato presentato un rendiconto. Non un dato su quanti edifici siano stati condonati. Nessuno sa quanti ettari di terreno agricolo sono stati edificati. Non potendo procedere al quarto condono edilizio, il terzo sotto suo mandato, l'attuale governo Berlusconi si è così inventato il famoso Piano casa. Un piano con cui si possono aumentare i volumi degli edifici «a prescindere» ovviamente «da qualsiasi regola urbanistica». Un piano perfettamente in linea con un paese che sta allevando, nel suo grembo, cricche d'affari e lobbies più o meno lecite. Per questo, accanto al ricordo della frana di Sarno, alla denuncia della cementificazione di zone teoricamente da tutelare come il Vesuvio, allo smascheramento di progetti inutili e devastanti come il Ponte sullo stretto, il professor Berdini, per narrare novanta anni di abusi edilizi non manca di raccontare degli ultimi scandali. Lo fa in un capitolo dal titolo inequivocabile: "Il trionfo del paese fai da te". Un paese senza Stato: la legge di riforma urbanistica partorita dall'on. Maurizio Lupi, ex assessore di Milano, equipara il pubblico al privato, soprattutto come interesse da tutelare. Sono infatti il pubblico e il privato, secondo questa legge, a redigere insieme i piani urbanistici, «attraverso atti concertati e non autoritativi». È questo il capolavoro del lasseiz faire berlusconiano. Ma, d'altra parte, è questo il paese in cui alle case pubbliche «che continuano a mancare» si risponde con «l'emergenza come sistema». Un sistema che permette a lorsignori, come il caso dell'ex ministro Claudio Scajola, di essere «sempre più padroni in casa nostra».

Liberazione 21/10/2010, pag 9

Il film del capitalismo Un incubo di celluloide

Da Charlie Chaplin a Michael Moore, vita morte e miracoli del Dio denaro

Nicola Melloni
Come qualsiasi forma artistica, il cinema è stato spesso specchio fedele dei tempi, proponendo non solo pellicole di puro intrattenimento ma anche analisi del reale e descrizione della società. In qualche maniera, quindi, la storia del cinema è anche, certo, non solo, la storia del capitalismo del novecento. Inevitabilmente, la prima immagine che ci viene in mente è un magnifico Charlie Chaplin con la faccia sporca incastrato tra le ruote delle macchine. Era l'epoca delle grandi fabbriche, del nuovo che avanza, dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione, in breve erano Tempi Moderni. La fabbrica era il mito di progresso che si portava però dietro tanti problemi e tanti dubbi sul futuro, il capitale voleva trasformare i lavoratori in macchine e Chaplin diede una magnifica rappresentazione delle contraddizioni e delle paure che quell'epoca di grandi cambiamenti si portava dietro. Intanto, in altre parti del mondo il conflitto capitale-lavoro divampava, le lotte diventavano più aspre e più ampie, la classe operaia si organizzava in partiti e sindacati e nelle fabbriche risuova un grido di lotta e di speranza: Sciopero!, come il titolo del film di Sergei Eijzenstein. Un film di propaganda ma anche di grande realismo, un film, naturalmente, dalla parte dei lavoratori, usato come immagine della repubblica dei Soviet e come ispirazione per i movimenti socialisti che andavano crescendo nei quattro angoli del mondo.
Un filone cinematografico, quello della rappresentazione del lavoro, delle sue speranze e delle sue lotte, che prenderà ancora più forza dopo la seconda guerra mondiale, il neo-realismo e l'avanzata impetuosa della sinistra. Anche negli Stati Uniti il cinema diventa una roccaforte progressista, in grado di descrivere ed anticipare i cambiamenti sociali e di denunciarne le contraddizioni. Il Fronte del porto narra le lotte dei lavoratori americani, dove una classe operaia disorganizzata è spesso vittima del capitale e del racket che cerca di dividere e sabotare il movimento dei lavoratori. Ne emerge una figura tragica ma eroica del protagonista che attraverso un percorso di maturazione umana e civica abbandona la vita precente pure al costo dell'emarginazione sociale. Negli stessi anni l'Italia del neorealismo ci mostra un'immagine ben diversa, si parla di un paese arretrato in cui le relazioni di produzione sono ancora pre-moderne, la miseria contadina è il tratto caratterizzante dell'economia e della società italiana. Non ci sono eroi e modelli da imitare in film come Riso amaro, quanto piuttosto una critica spietata della povertà, dramma collettivo e privato allo stesso tempo. Un tema che si ripete anche quando il panorama si sposta dalle campagne alle fabbriche. La classe operaia va in paradiso ma di certo non lo trova sulla terra, costretta al lavoro a cottimo, al crumiraggio e al servilismo in cambio di modesti miglioramenti economici. Il tema dominante della filmografia impegnata è l'impossibilità di realizzarsi come persona singola e solo lo sviluppo di una vera coscienza di classe può portare ad un vero cambiamento. D'altronde sono gli anni delle grandi lotte sociali e sindacali, gli anni in cui cambiare il mondo non sembra solo un'utopia, magnificamente rappresentati da Monicelli ne I Compagni che pur raccontando la storia di uno sciopero di fine Ottocento in realtà mostra l'emergere del lavoro come alternativa politica in un paese però ancora drammaticamente attraversato da contraddizioni e mancato sviluppo come quello rappresentato da Francesco Rosi ne Le mani sulla città, fedele descrizione del capitalismo arretrato del Mezzogiorno italiano dedito alla speculazione e che rifugge la modernizzazione .
Le cose cambiano drasticamente con il decennio reaganiano ed il rilancio del mito del self-made man.
Ora il successo è personale e alla portata di tutti, mentre nuove categorie sociali iniziano ad affermarsi a cominciare da quella del banker/trader fino ad allora rappresentato come un grigio ed anonimo cinquantenne con una bombetta in testa ed un ombrello nero al braccio (indimenticabile, in questo caso, è un film come Mary Poppins dove i finanzieri sono dei vecchiacci rapaci, senza amore, senza umanità). La finanza crea la moneta facile che è il nuovo sogno alla portata di tutti. Da una parte il finanziere senza scrupoli di Wall Street dall'altra quello umano ed innamorato di Pretty Woman. In mezzo una commedia che dice molto sull'America degli anni Ottanta come Una poltrona per due dove il grande capitale rappresenta il male assoluto ma non è contrapposto al blue collar bensì al dirigente in un ambiente in cui le fortune non si fanno ormai più producendo merci ma speculando in borsa. E' il nuovo capitalismo e la nuova organizzazione aziendale che avanza, le grandi famiglie sono soppiantate dal management e tutti possono avere una possibilità, anche il nero Eddie Murphy che viene dalla strada e non dalla buona borghesia. Una nuova era anche di relazioni sociali che si basa su una forte critica del moralismo puritano e conservatore caraterrizante il vecchio capitalismo industriale. Non a caso sono due prostitute, sia in "Pretty Woman" che in una "Poltrona per due" ad emergere come simbolo di un nuovo ordine economico basato sulla mobilità sociale e sul riscatto individuale e non di classe.
Un modello rilanciato da un altro film di grande successo di quegli anni, Una donna in carriera che ripropone il sogno del successo personale in una società dove tutto è possibile perchè il nuovo capitalismo offre una chance a tutti. La modernizazzione neo-liberista ignora le fabbriche e così in maggior parte fanno i film di Hollywood che si concentrano invece sugli yuppies - i giovani rampanti della borghesia cittadina, belli e ricchi - che rappresentano la nuova versione del sogno americano, spesso spietatamente descritti dalla filmografia (come Il falò delle Vanità) sempre però rimanendo nell'ambito etico/morale e senza avanzare una critica sociale più avanzata confinata quasi solamente a film di nicchia come Il signore del male in cui all'interno di un film horror viene però proposta un'analisi della povertà e della segregazione di classe a Los Angeles. La figura dello yuppie presto varca l'oceano assumendo però nel nostro paese una caraterizzazione positiva. E' il modello berlusconiano che getta le sue basi: mentre il giovane di buona famiglia ma vitellone e scansafatiche era stato nel passato l'anti-eroe per eccellenza (si pensi a Gassman del Sorpasso) ora diventa il modello invidiato proposto dalla filmografia di massa degli Anni Ottanta.
Altrove però la ristrutturazione economica ha dei costi sociali altissimi che non vengono ignorati dal cinema e questo accade soprattutto in Gran Bretagna dove le pellicole di denuncia sociale abbondano. Soprattutto, naturalmente, Ken Loach che con Riff Raff, Piovono Pietre e My Name is Joe rappresenta l'impoverimento della classe operaia inglese sconfitta dalla Thatcher. Tema ricorrente in altri film, dal leggero ma al contempo riflessivo Full Monty in cui un gruppo di operai senza lavoro è costretto a riciclarsi in spogliarellisti per sbarcare il lunario, al musicale Grazie Signora Thatcher che mostra i momenti duri delle chiusure delle miniere, delle lotte e delle sconfitte operaie e che si chiude con un discorso durissimo contro il liberismo (..altri mille uomini hanno perso il loro posto di lavoro, e non è tutto quello che hanno perso, molti di loro hanno perso la voglia di vincere, la voglia di combattere, ma anche la voglia di vivere.. ) che difficilmente si potrebbe sentire nelle aule parlamentari. Ad Hollywood, intanto, inizia il filone che denuncia lo strapotere delle corporations, ormai soggetto impersonale (come già lo erano le banche di Steinbeck negli anni 30), tant'è che il conflitto sociale si sposta dalla fabbrica e dalla piazza alle aule di tribunale come in Erin Bronkovich ed in A civil Action. La commercializzazione culturale rende però questi casi sempre più delle eccezioni. Il film "blockbuster" monopolizza sale cinematrografiche trasformate in catene aziendali e con accesso al grande capitale mentre le proposte di riflessione si riduscono sempre di più. Il prodotto culturale diventa legato semplicemente alla sua capacità di generare profitto e la nuova crisi finanziaria offre l'occasione ai governi come quello italiano di tagliare anche le già misere risorse per il cinema d'autore, proprio mentre cambiamenti epocali avvengono davanti ai nostri occhi ma che, nonostante ciò, non si devono far vedere. Il cinema rischia così di perdere la sua capacità di raccontare il mondo, le sue tragedie, le sue lotte, le sue speranze ed i suoi cambiamenti, marginalizzato tra un piccolo schermo ormai sub-affittato a reality, dottori e poliziotti e un'industria cinematografica sempre più tendente al disimpegno culturale. Proprio il mondo visionariamente descritto in Essi vivono di John Carpenter, un mondo in cui i lavoratori sono ipnotizzati da immagini subliminali e costretti a vivere conformisticamente seguendo la morale dominante. Un finale da horror.

Liberazione 22/10/2010, pag 6

Il declino degli yuppies e la carica degli insider Wall Street 23 anni dopo

Nel sequel del fim di Oliver Stone la parabola del neocapitalismo americano

Roberta Ronconi
Il primo fu profetico, uscendo in sala pochi giorni prima del crollo della Borsa americana del 1987. Il secondo si affaccia al mondo con qualche ritardo rispetto al cuore dell'attuale crisi, ma è stato realizzato nei tempi giusti. Come a dire che Stone marca stretta la salute del capitale.
La struttura del racconto di Wall Street 2 - elaborato da una serie di penne, tra cui quella del broker Allan Loeb - è fedele alla tradizione. Gordon Gekko (il consumato broker, interpretato da Michael Douglas) esce di prigione con i canini a dir poco spuntati. Si è fatto otto anni («a quelli che ammazzano ne danno al massimo cinque», si lamenta) per frode, riciclaccio e insider trading. Ad aspettarlo al cancello del penitenziario non c'è nessuno. La reclusione gli ha dato modo di riflettere sul vero senso della vita («i soldi non hanno più valore per me, il tempo sì») e su ciò che conta davvero, come l'affetto della figlia Winnie (Carey Mulligan) che lo ha cancellato dalla sua agendina dopo la morte per overdose del fratello e il ricovero psichiatrico della madre. La piccola è un'attivista di sinistra, che se ne frega del danaro e combatte solo per le cause giuste, come la salvaguardia dell'ambiente. Anche per questo si è innamorata di Jake (Shia LaBeouf), broker accanito ma che spende tutti i suoi guadagni per finanziare la ricerca sulle energie alternative. Versione buona di papà.
Tutto andrebbe al posto giusto se l'avidità ("greed" in inglese) non prendesse di nuovo il sopravvento.
«Greed is good» («l'avidità è buona», «e poi non ammazza nessuno, è solo una questione di soldi») era il grido di battaglia di Gekko nel primo Wall Street. Una frase - e un antieroe - che Stone aveva coniato per far venire bolle di ribrezzo sulla pelle degli americani. E invece quelli - e non solo - si appassionarono talmente tanto al motto da farlo diventare legge, incoronando Gekko idolo degli yuppies anni Ottanta. La sua fama è stata tanto duratura che persino a distanza di 23 anni tutto il mondo della finanza e delle banche ha fatto a spallate per partecipare anche solo come comparsa a questo sequel, spalancando porte di uffici e palazzi a Stone e ai suoi. Gekko se la ride: «ai miei tempi l'avidità era solo buona. Ora è diventata anche legale».
«Nel 2008 personaggi come Gekko non hanno in realtà più possibilità di esistere», racconta Stone della sua creatura. «In venti anni lui è stato sostituito da istituti che un tempo avevano regole da rispettare. Una volta una banca era una banca e una compagnia di assicurazione una compagnia di assicurazione. Oggi, dopo venti anni di deregulation, non esiste più alcuna regola che limiti le funzioni di questi istituti».
Contro gli eroi cattivi di questa storia gli sceneggiatori di Wall Street 2 scatenano la coppietta di innamorati, in verità assai scialbi, coadiuvati da scienziato pazzo alla ricerca della formula dell'energia pulitissima proveniente dall'Oceano. Un mondo piccolo piccolo, senza forma né nerbo, che rende assai fiacca la struttura narrativa di Stone. E' lui stesso a dire: «questo film si differenzia dall'altro perché qui in gioco ci sono da una parte il denaro, dall'altra l'amore. Due elementi su una bilancia, con cui l'ambiguità di ogni personaggio deve fare i conti».
In realtà l'amore - rappresentato da una squadretta assai misera - da questo Wall Street 2 ne esce a pezzi, uno straccetto piagnucoloso e logoro nei cui confronti la sete di potere fa gran miglior figura. Per questo il film alla fine risulta meno riuscito del suo prototipo, in cui l'avidità non se la doveva vedere con nessun altro annacquato sentimentalismo.
Non parliamo poi dell'alternativa al brutto capitalismo. Se deve essere quella dello scienziato pazzo affiancato da Winnie (the Pooh) stiamo freschi! Lo sa bene anche l'impavido Stone, che alla domanda birichina sui mali del capitalismo, presentando il film al Festival di Cannes rispose: «E' un sistema che non sembra funzionare, troppa gente continua a soffrire. Ci avevano detto che il sistema si sarebbe alla lunga corretto da solo, ma non è vero. Le disparità aumentano e quelli che ci rimettono più di tutti sono i lavoratori. Un mondo di ingiustizie che andrebbe corretto».
Parole sante, ma non proprio illuminanti. Certo, il compito di illuminare la via non spetta a Stone o a Michael Douglas, ci mancherebbe. Ma se nemmeno loro riescono a mettere in piedi una battagliuccia di fiction un po' più sostanziosa tra le forze del male e quelle del bene, allora stiamo alla frutta. Quando neppure l'amore ci aiuta più a sognare, vuol dire che ci siamo accomodati nella bocca del pescecane e che non ne usciremo tanto presto.

Liberazione 22/10/2010, pag 6