domenica 27 febbraio 2011

Un appunto sulle relazioni tra Hugo Chávez e Muammar Gheddafi

di Gennaro Carotenuto, lunedì 21 febbraio 2011, 16:24

E’ vero che non solo Silvio Berlusconi ha avuto buone relazioni con Muammar Gheddafi. Anche la Gran Bretagna, tra i molti, non ha avuto remore a svendere i morti di Lockerbie per passare oltre e tessere la sua tela energetica anche con il dittatore libico. Gli stessi Stati Uniti dal 2006 hanno relazioni sostanzialmente buone con Tripoli anche se Barack Obama non impegna i cow-boy in rodei con le amazzoni libiche. Soprattutto però, per quanto ci concerne, non sono negabili le buone relazioni diplomatiche tra i paesi integrazionisti latinoamericani e la Libia e nella fattispecie tra Venezuela e Libia.
E’ commendevole la buona relazione tra paesi latinoamericani, il Brasile in primo luogo, e paesi come la Libia o l’Iran?
Dipende da come la si voglia guardare. Da parte occidentale, avere relazioni con la Libia o con l’Iran vuol dire abiurare ogni singolo discorso sulla democrazia e sui diritti umani sull’altare di interessi economici. Germania e Italia, che a parole disdegnano Ahmedinejad, sono i principali partner commerciali dell’Iran. Detto della Gran Bretagna e di Lockerbie, o di Nicolas Sarkozy che si offre di mandare l’esercito per aiutare Ben Alì in Tunisia, l’Italia di Silvio Berlusconi ha trasformato Gheddafi in un “campione delle libertà” non solo per gli eccellenti affari ma soprattutto per le sue mani libere nel massacrare i migranti. Non è esagerato dire che Gheddafi ha fatto in questi anni quello che Calderoli, Salvini e Tosi vorrebbero ma non possono fare.
Inoltre, e infine, i paesi ex-colonizzatori, per esempio l’Italia verso la Libia, hanno responsabilità storiche e geopolitiche incomparabilmente superiori nell’avere relazioni con governi scarsamente difendibili. Le relazioni dell’Italia verso la Libia (dimenticando per carità di patria la Somalia), degli Stati Uniti rispetto all’Honduras, del Giappone o l’India con la Birmania, della Cina verso la Corea del Nord hanno un peso politico non comparabile di quelle tra Brasile e Iran o Venezuela e Libia perché diversissime per natura, intensità, motivazioni.
Uno dei grandi risultati della diplomazia latinoamericana degli ultimi dieci anni è stata quella di rompere le catene del modello economico coloniale e post-coloniale, per il quale ad ogni paese periferico era permesso avere relazioni e fare affari solo con il proprio centro imperiale. Così sono fiorite le relazioni politiche ed economiche Sud-Sud. L’America integrazionsta ha guardato all’Africa, all’Asia, al Medio Oriente, regioni con le quali non aveva praticamente mai avuto relazioni nella storia ed ha di recente preso la storica decisione, asperrimamente criticata in Occidente, di riconoscere lo stato di Palestina nei confini del 1967 tagliando il nodo di connivenze e titubanze. Inoltre, di nuovo il Brasile, in sinergia con la Turchia, ha seriamente cercato di trovare una soluzione, peraltro disdegnata dagli occidentali, al problema nucleare iraniano.
Quindi il punto nodale delle relazioni tra America latina e Libia o Iran o altri paesi con regimi in tutto o parzialmente esecrabili non è la sintonia politica. Nulla è comparabile, per esempio, dal punto di vista della democraticità, del rispetto dei diritti umani, del ruolo della donna. Tuttavia, che piaccia o no, vi sono convergenze e interessi concreti che vanno ben oltre l’assonanza di una certa retorica antimperialista.
Chiunque sia al governo in America Latina o in Libia o in Iran o nel Medio oriente in senso più amplio, gli interessi delle due regioni hanno molteplici convergenze, nell’esperienza storica coloniale, nella persistente aggressività occidentale nei loro confronti, nei modelli economici basati sull’estrazione e l’esportazione di combustibili, nell’interesse ad un mondo multipolare, nell’alternativa rappresentata da sempre più intense relazioni Sud-Sud. Inoltre se i paesi occidentali hanno in genere innegabili responsabilità dirette nel sostentare regimi autoritari in tutto il mondo è difficile sostenere che un solo regime si regga per l’eventuale sostegno brasiliano o venezuelano o boliviano.
La verità è che ancora una dozzina di anni fa i paesi latinoamericani si sarebbero fatti dettare da Washington con chi avere relazioni economiche e politiche (e quindi per esempio non avevano relazioni con Cuba). Durante tutto il XX secolo, a comando, in molteplici casi, tutti o quasi i paesi latinoamericani hanno riconosciuto o disconosciuto governi agendo come una claque per le decisioni e gli interessi di Washington.
Oggi non è più così. I governi latinoamericani ragionano con la loro testa e sanno sbagliare per conto loro. Uno dei fattori principali di cambiamento in America Latina è proprio il fatto che rispetto agli anni ’80-’90, quando l’unico partner strategico del continente erano gli Stati Uniti, è che adesso l’economia latinoamericana può servirsi ad un numero molteplice di forni. C’è quello cinese che è oggi un mercato fondamentale, le relazioni con l’India si approfondiscono giorno per giorno, si è ricostruito un mercato interno regionale che era crollato ai minimi storici negli anni ’90, e in generale le relazioni sud-sud sono in crescita, dall’Africa al Medio Oriente.
Poter scegliere, avere finalmente il diritto di scegliere ed avere un mondo intero e non un mondo unipolare come partner, a poter in qualche caso esercitare una certa realpolitik è il principale fattore di consolidamento dei processi sociali e politici che stanno cambiando l’America latina e il pianeta.
Tutto ciò non verrà mai spiegato dai giornali che strumentalizzano quelle relazioni svuotandole del loro senso liberatorio. Resta, nonostante tutto, il senso di disagio per le photo opportunity, gli abbracci, tra Lula o Evo o Chávez e un Ahmedinejad o un Gheddafi. Forse è anche espressione di trasparenza ma con la testa si capiscono, con il cuore c’è più difficoltà.

http://www.gennarocarotenuto.it/15047-un-appunto-sulle-relazioni-tra-hugo-chavez-e-muammar-gheddafi/

venerdì 25 febbraio 2011

Ecco la Roma da bere che piace agli imprenditori

Gli Stati generali di Alemanno preparano il sacco della capitale. Olimpiadi, presentato il comitato d'onore

Daniele Nalbone
Non certo un bel finale quello che il premier Berlusconi, il ministro Tremonti e la presidente di Confindustria Marcegaglia hanno regalato, ieri, alla platea di politici e imprenditori presenti al Palazzo dei Congressi per la seconda e conclusiva giornata degli Stati Generali di Roma in cui sono stati presentati il Piano Strategico di Sviluppo e il Comitato promotore per le Olimpiadi del 2020. O meglio, un bel finale solo per politici e imprenditori presenti. Il premier Silvio Berlusconi che attacca il Parlamento: «il Governo ha solo il nome, la figura, l'immagine del potere». E ancora «da imprenditore avevo maggiori poteri che da presidente del Consiglio». La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che avverte: «Abbassare le tasse per le imprese, con i lavoratori coloro che sostengono l'economia». Infine, il Ministro dell'Economia Giulio Tremonti che "risponde" mettendo nel mirino i vincoli e le regolamentazioni urbanistiche: «Se uno guarda al mondo degli anni '60 e lo proietta nel 2020, quando a Roma ci saranno le Olimpiadi, c'è una grande differenza: il villaggio olimpico fu costruito a ridosso del Ponte Milvio. Pensate cosa sarebbe quella tecnica di costruzione e scavo con i vincoli odierni. Se ci fossero stati tutti quei vincoli, non avreste le opere del Bernini perché quella fontana (il riferimento è alla Fontana dei Quattro Fiumi di Piazza Navona, ndr) fu fatta demolendo quella precedente».
Così, con questi tre avvertimenti e la benedizione di Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, «in rappresentanza delle parti sociali», si è chiusa la due giorni, iniziata martedì, degli Stati Generali di Roma Capitale che hanno di fatto sancito la subalternità della politica di Alemanno agli interessi dei costruttori e degli imprenditori. Manager ad aprire i lavori: Paolo Glisenti, in qualità di responsabile del Comitato di indirizzo del Piano Strategico di Sviluppo. Imprenditori, docenti universitari o uomini di Chiesa a presentare le relazioni sugli obiettivi strategici: Aurelio Regina, presidente Unindustria, per "Roma città nella competizione globale"; Luigi Abete, presidente Bnl, per "Roma città della Cultura e dell'Entertainment"; Livio De Santoli, responsabile Energia dell'università La Sapienza, per "Roma città della sostenibilità ambientale"; Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, per "Roma città policentrica e solidale".
Ognuno a tirar acqua al proprio mulino. Chi, come Regina, verso grandi opere come il raddoppio dell'aeroporto di Fiumicino, presentato come "Nuovo hub del Mediterraneo", cementificando i terreni (agricoli) di proprietà del Gruppo Benetton per favorire gli interessi di Alitalia e Aeroporti di Roma, società partecipate dal Gruppo Benetton stesso. Altri, come Abete che oltre ad essere presidente di Bnl e a capo dell'Ieg (Italian Entertainment Group, società proprietaria di Cinecittà e concessionaria del LunEur), a spiegare come «è necessario sviluppare Roma nel mercato della cultura e dell'entertainment», facendo crescere quella che è stata ribattezzata «l'economia del tempo libero». Altri, come Roberto Colaninno (presidente Alitalia SpA) a ricordare al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Altero Matteoli, in una tavola rotonda moderata da Bruno Vespa, che «senza Fiumicino 2, Roma non potrà mai conquistare le Olimpiadi».
Quindi, gli "spot" della Giunta Alemanno mostrati in pompa magna: l'abbattimento e la ricostruzione del quartiere popolare di Tor Bella Monaca, spacciato dall'assessore all'Urbanistica di Roma Marco Corsini per «riuso e riqualificazione» ma che in realtà significa cementificare il verde rimasto del quartiere, quindi spostare nel verde diventato palazzi gli abitanti attuali delle famose "Torri", abbattere le "Torri" e, come per magia, nuove case da destinare al mercato privato. E se costruire la Città dei Giovani e della Musica, attuando il progetto di "Fonopoli" tanto caro a Renato Zero, significa per l'amministrazione dotare la centralità di Tor Vergata-Romanina, sulla quale ancora grava il cantiere della Città dello Sport di Calatrava, di servizi per le periferie, in vista delle Olimpiadi del 2020 spiccano i progetti del "Parco Fluviale", ribattezzato «recupero del Tevere come asse vitale della città», e del "Secondo polo turistico", alias «Riqualificazione del Lungomare di Ostia». Cemento in ogni dove, quindi. Perfino a ridosso del Tevere nella zona dell'Idroscalo di Ostia, area non solo ad elevato rischio inondazione (R4) ma addirittura di proprietà demaniale. A meno che i vincoli, come sostenuto dal ministro Tremonti…
E' in questo scenario di "imprenditorializzazione" della pianificazione pubblica che, ieri, è stato presentato il comitato "d'onore" di Roma Olimpica: dietro il presidente Mario Pescante, lavoreranno imprenditori quali Abete, Alessandri, Caltagirone, Montezemolo, De Laurentiis, Della Valle, Elkann, Geronzi, Guerra, Malagò, Marcegaglia, Recchi, Regina. E l'opposizione? Il Pd, più volte richiamato (soprattutto Veltroni) da Letta ed Alemanno e mai in termini negativi, ha fatto la sua parte rispettando così gli appelli di «unità» in nome di Roma olimpica: nel tavolo sulla candidatura di Roma ai giochi del 2020 con Gianni Petrucci (Coni), Gianni Letta e Renata Polverini (regione Lazio), Nicola Zingaretti, presidente delle provincia di Roma e nome caldo come candidato per il centrosinistra a sindaco di Roma, e Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, hanno rappresentato al meglio quella che Renata Polverini e il giornalista-moderatore Enrico Cisnetto hanno definito, tra gli applausi della platea, «l'opposizione moderata».


Liberazione 24/02/2011, pag 5

giovedì 24 febbraio 2011

Muammar e i suoi figli la dinastia al capolinea

Mohammad, Hannibal, Fatima e gli altri, quando il potere è un affare di famiglia

Francesca Marretta
Quando arrivò per la prima volta in Italia nel 2009, Muammar Gheddafi portò con sè una foto del 1931 di Omar Al Mukhtar, il "Leone del deserto", simbolo della resistenza libica alla colonizzazione italiana. Dal punto di vista diplomatico, si tratta di una stravaganza. Una delle tante provocazioni del Colonnello di Tripoli. La repressione nel sangue delle rivolte di questi giorni in Libia, finirà per oscurare gli aspetti bizzarri della sua personalità. Nelle cronache degli anni a venire Gheddafi sarà ricordato come il macellaio di Bengasi, che non ha esitato a sguinzagliare mercenari per uccidere centinaia di libici. I cartelli e gli striscioni inneggianti a Omar el Mukhtar, sono oggi branditi dai manifestanti che chiedono la fine del suo regime. Dopo 41 anni al potere, quella dei Gheddafi appare come un'altra "Dinasty" del Medio Oriente arrivata al capolinea. Al pari di Mubarak in Egitto, Muammar Gheddafi aveva organizzato la successione al trono, preparandosi al passaggio dello scettro a uno dei suoi otto figli. Si capirà tra breve quanto impiegheranno i protagonisti della "Dinasty" libica a fare le valigie, come i vicini egiziani. Sapranno certo che la possibilità di vedersi recapitare un'ordine di cattura per i massacri di questi giorni dalla Corte penale internazionale, non è affatto remota. Considerato che la famiglia è numerosa, non è poi detto che trovino la porta aperta presso paesi "amici". Oltre al Colonnello, tocca trovare casa sette figli maschi e una femmina. Vediamo chi sono. Il figlio più intelligente di Gheddafi, si dice il prediletto, ha studiato alla London School of Economics ed è architetto. Si chiama Saif al Islam, spada dell'Islam. E' il primo figlio della seconda moglie di Gheddafi, Safia. Il nome affibbiatogli dal babbo è apparso a lungo una contraddizione con l'impegno mostrato da Saif in questioni come la salvaguardia dei diritti umani e le libertà civili.
Presidente della Fondazione Gheddafi, Saif è sempre stato considerato il riformista di famiglia. E' stato lui a imprimere una svolta in senso democratico all'informazione riaprendo un giornale e una televisione, viste come libere se comparate all'informazione di Stato. Ed è grazie a Saif, che è stata avviata la normalizzazione dei rapporti fra Tripoli e l'Occidente. Di recente, le velleità riformiste di Gheddafi Jr numero due, che non ha mai avuto, a differenza di alcuni fratelli, una base di potere nell'esercito e nei servizi di sicurezza, sono state ridimensionate. Tanto che quello che era un giornale esiste solo come sito web, Oea, che ha diffuso informazioni sui morti a Bengasi. Per la serie, il sangue non è acqua, alla prova dei fatti, il colto e riformista Saif si è schierato con papà. Un paio di giorni fa, in un discorso alla nazione via etere della durata di quaranta minuti, ha negato, che nei disordini di questi giorni in Libia vi siano stati centinaia di morti. Ha messo in guardia il popolo dal pericolo di una guerra civile manovrata dall'esterno, in particolare dagli esuli in Gran Bretagna e da chi ha interesse a mettere le mani sul petrolio libico. Se cade papà la Libia sarà divisa in emirati islamici, ha detto in soldoni Saif, che ha invitato a «porre fine allo spargimento di sangue». Come se la repressione non l'avesse ordinata il Colonnello. «Muammar Gheddafi sta guidando la lotta a Tripoli e vinceremo», ha concluso il messaggio televisivo il Gheddafi dotato del maggior quoziente intellettivo.
Il primogenito Mohammed, figlio della Prima moglie di Gheddafi, Fatima, è meno noto ai media e non alrettanto brillante. Nel 2006 disse che Papa Benedetto XVI avrebbe fatto bene a convertirsi all'Islam. Per ovvi motivi ha rimediato lavori buoni, a Tripoli, sia come capo del Comimato Olimpico libico, che nel campo delle telecomunicazioni. Il terzogenito, al-Saadi (o Saad), conosciuto in Italia come calciatore di serie A, ha ricoperto incarichi militari in Libia. E' anche noto alle cronache internazionali per lo sbarco a Hollywood dove ha investito cento milioni di dollari, proventi del greggio di casa. In questi giorni di tumulti e violenze in Libia, si è proposto come sindaco di Bengasi, dove però risulta «persona non grata». Motassin Bilal Gheddafi, per gli amici Hannibal, mise in crisi i rapporti con la Svizzera, quando, fu arrestato nel 2008 a Ginevra, insieme alla moglie incinta per aver picchiato due inservienti, una tunisina e un marocchino. Invece che scuse, dalla Libia scattarono immediatamente ritorsioni. Altre marachelle di Hannibal sono state segnalate, negli anni, anche Roma, Parigi e Coopenaghen. La sorella Aisha, 33 anni, avvocato, ha tirato fuori dai guai il fratello testa-calda in varie occasioni. Più che per le doti professionali, grazie al nome di famiglia. La togata di casa Gheddafi faceva parte del team di difesa di Saddam Hussein. Un'altra figlia femmina, adottata dal Colonnello, Hanna, morì nel bombardamento americano di Tripoli e Bengasi nel 1986. Del quartogenito Mutasim-Billah si dice abbia preso parte a un complotto contro suo padre, che però lo avrebbe perdonato. Tanto che in seguito è diventato consigliere per la sicurezza nazionale. Khamis, è capo del battaglione Jahfal 36. I cui uomini, secondo le testimonianze che arrivano in queste ore dalla Cirenaica, hanno ricevuto ordine di sparare ad altezza d'uomo contro cittadini libici. Il più giovane dei Gheddafi, Saif al-Arab, 29 anni, studia in Germania. Nel 2005 furono trovati fucili d'assalto e munizioni nella Ferrari di cui era alla guida. Buon sangue non mente. Intanto si rincorrono voci sulla fuga all'estero del Colonnello. Forse ha acquistato un pacchetto-famiglia a prezzo scontato. Per la Dinasty libica si avvicina l'ultima puntata.


Liberazione 22/02/2011, pag 3

Capitale della disuguaglianza. Proposte per una città più giusta

Fabio Alberti*
Roma, dopo Milano, è la seconda città più ricca d'Italia, ma anche la seconda più ingiusta. Con un indice di concentrazione della ricchezza (Indice di Gini, con una scala compresa tra 0 e 1, dove 0 indica l'equa distribuzione e 1 la massima concentrazione) di 0,45, contro lo 0,32 italiano, Roma è anche capitale della disuguaglianza. Considerando solo le dichiarazioni dei redditi, il 10% più ricco dei romani percepisce il 34,72% dei redditi dichiarati, contro il 2,12% del 10% più povero. Non ci sono dati disaggregati sulla ricchezza patrimoniale romana, ma è chiaro che la forbice è in realtà ancora maggiore. E le cose tendono a peggiorare. Le famiglie sotto la soglia di povertà relativa sono aumentate in un anno del 4%, contro una media nazionale del 3,3%.
Sono questi alcuni dei dati che abbiamo denunciato a Roma il 20 febbraio, Giornata Mondiale della Giustizia sociale, in occasione della presentazione del dossier su "Disuguaglianze, povertà ed esclusione sociale e impatto del federalismo fiscale a Roma". Dossier dal quale emerge che una famiglia su 6 (+2% sull'anno precedente) è in disagio economico. Una su 10 non paga le bollette, il 5,9% è in difficoltà ad acquistare gli alimenti (contro il 3,9 del 2009), crescono del 15% gli sfratti per morosità e del 36% i pignoramenti immobiliari.
Dove sono finiti i soldi? La realtà è che è avvenuto uno scandaloso trasferimento di reddito. Enormi patrimoni sono stati accumulati con speculazione, evasione fiscale, corruzione, riduzione della progressività delle imposte, mentre si tagliavano i servizi e si aumentavano le tariffe. Non potrebbe essere diversamente: il tasso di disoccupazione si attesta alla cifra record del 10,3% (8,5% in Italia). Nel 2010 sono transitati in cassa integrazione 48.794 lavoratori ed il monte retribuzioni è diminuito di oltre 600 milioni di euro. A fronte di ciò i patrimoni che hanno usufruito dello scudo fiscale nel Lazio (in buona parte a Roma) sono valutati in ben 10 miliardi, mentre vi sono circa 200.00 alloggi vuoti e 30.000 invenduti. In questo scenario, il federalismo fiscale peggiorerà le cose: il saldo tra l'Imu (Imposta Municipale Unica che dovrebbe sostituire i trasferimenti statali) e i trasferimenti stessi è negativo per 129 milioni, che dovranno essere compensati con aumenti tariffari o taglio dei servizi.
Ecco perché non può esistere politica di sinistra che non si ponga esplicitamente l'obiettivo di recuperare lo squilibrio nella distribuzione della ricchezza. Tutte le previsioni indicano che non è più possibile puntare solo sulle politiche di sviluppo: occorre che la torta sia ridistribuita. La tassazione e requisizione delle case sfitte, la progressività della addizionale e delle imposte locali, la patrimoniale comunale, l'allargamento delle fasce esenti e delle tariffe agevolate, sino alla riduzione degli stipendi dei manager pubblici e all'aumento dell'assistenza e dei servizi sono alcune delle politiche che dovrebbero essere messe in campo per fare di Roma una città, se non giusta, almeno un po' mano ingiusta.
*portavoce Federazione della Sinistra, Roma


Liberazione 22/02/2011, pag 6

Il ricco business delle armi

Tripoli è all'undicesimo posto tra i paesi importatori dall'Italia
Maurizio Simoncelli*
Mentre continuano a pervenire dalla Libia drammatiche notizie sulla violenta repressione ad opera del regime, appare utile ricordare che Tripoli è un partner commerciale importante per l'Italia anche nel settore militare. Infatti in questo paese è diretto circa il 2% delle esportazioni totali dell'Italia, ponendosi come l'undicesimo paese importatore delle armi italiane. Tra l'altro, dopo un leggero calo tra il 2005 e il 2007, nel 2008 il valore delle spese militari libiche ha ricominciato a crescere, raggiungendo la cifra di 1,1 miliardi di dollari nel 2008, aprendo quindi prospettive interessanti alle esportazioni di armi.
In base ai Rapporti del Presidente del Consiglio dei Ministri sui lineamenti di politica del governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, il valore delle esportazioni di armi italiane alla Libia è in costante crescita a partire dal 2006, anno in cui riprendono i flussi commerciali tra i due Stati. Le autorizzazioni alle esportazioni italiane in Libia per il 2009 sono state pari a circa 111,8 milioni di euro, in aumento rispetto ai 93 milioni circa del 2008 (in particolare bombe, siluri, razzi, aeromobili e apparecchiature elettroniche).
E' utile ricordare che negli ultimi dieci anni diversi sono stati gli accordi stipulati con il regime di Gheddafi.
La Agusta Westlands, una società del Gruppo Finmeccanica, ha venduto 10 elicotteri Aw109E Power tra il 2006 e il 2009, per un valore di circa 80 milioni di euro. L'azienda, inoltre, afferma di avere venduto quasi 20 elicotteri negli ultimi anni, tra cui l'aereo monorotore Aw119K per le missioni mediche di emergenza e il bimotore medio Aw139 per le attività di sicurezza generale.
Joint-venture: la Libyan Italian Advanced Technology Company (Liatec), posseduta al 50% dalla Libyan Company for Aviation Industry, al 25% da Finmeccanica e al 25% da Agusta Westlands. Liatec offre servizi di manutenzione e addestramento degli equipaggi dei velivoli Aw119K, Aw109 e Aw139, tra cui servizio di assistenza tecnica, revisioni e fornitura di pezzi diricambio. Nel gennaio 2008 Alenia Aeronautica, un'altra società del Gruppo, ha firmato un accordo con la Libia per la fornitura di un Atr-42Mp Surveyor, un velivolo adibito al pattugliamento marittimo. Inoltre, nel contratto, del valore di 31 milioni di euro, sono compresi l'addestramento dei piloti, degli operatori di sistema, supporto logistico e parti di ricambio.
Itas srl, una società di La Spezia (secondo il Servizio Studi - Dipartimento affari esteri della Camera, doc.140-21/05/2010), cura il controllo tecnico e la manutenzione dei missili Otomat, acquistati a partire degli anni Settanta dal governo di Tripoli. L'Otomat è un missile a lunga gittata antinave.
A seguito degli accordi contenuti nel Trattato di Bengasi, nel maggio 2009, la Guardia di Finanza ha proceduto alla consegna delle prime tre motovedette alla Marina libica per il pattugliamento nel Mar Mediterraneo, seguite nel febbraio 2010 da altre tre imbarcazioni (da una di queste sono state sparate raffiche di mitragliatrice contro un peschereccio italiano nel 2010).
La Finmeccanica ha stipulato accordi con società libiche: nel 2009 ha firmato un Memorandum of Understanding per la promozione di attività di cooperazione strategica con la Lia (Libyan Investment Authority) e con la Lap (la Libya Africa Investment Portfolio).
Selex Sistemi Integrati, società del Gruppo Finmeccanica, ha firmato nell'ottobre 2009 un accordo del valore di 300 milioni di euro per la realizzazione di un grande sistema di protezione e sicurezza dei confini.
Solo ora, di fronte alla rivolta popolare che si sta diffondendo nei paesi nordafricani, si scopre che questi regimi sono illiberali, mentre i governi occidentali li hanno appoggiati a lungo, fornendo armamenti in cambio di materie prime e opportunamente "distraendosi" sui temi fondamentali del rispetto dei diritti umani e delle elementari libertà civili.
*vicepresidente dell'Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo


Liberazione 23/02/2011, pag 4

Il J'accuse della Corte dei conti: «La corruzione male assoluto»

La magistratura contabile boccia tutto l'operato dell'Esecutivo a partire dal Ddl intercettazioni

Castalda Musacchio
La corruzione? E' una vera e propria «patologia», uno tra i mali assoluti dell'Italia tale da essersi trasformato ormai in «cultura». A dirlo e a fotografare un quadro drammatico è il procuratore generale della Corte dei Conti Mario Ristuccia. E' alla presenza di Napolitano, nel corso della cerimonia dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, che il procuratore generale lancia un vero e proprio "j'accuse" nei confronti di un Governo che non fa nulla, anzi il contrario, per contrastare un fenomeno che ha assunto ormai i termini di una vera e propria «questione morale». I dati - come del resto conferma Ristuccia - «non consentono ottimismi». Rispetto allo scorso anno i casi di corruzione sono aumentati del 30,22% (237 le denunce) mentre diminuiscono le persone denunciate: 709 per corruzione (-1,39% rispetto al 2009), 183 per concussione (-18,67%) e 2.290 per abuso di ufficio (-19,99%). Ed è in particolare nel settore della Sanità che - avverte Ristuccia - «si intrecciano con sorprendente facilità veri e propri episodi di malaffare con aspetti di cattive gestioni talvolta favorite dalle carenze del sistema dei controlli».
La magistratura contabile mette quindi in evidenza gli effetti della malasanità: l'importo complessivo di danno erariale contestato ammonta a circa 254 milioni di euro, in gran parte concentrato nella regione Lazio (oltre 130 mln), in Sicilia (oltre 69 mln), in Calabria (oltre 38 mln) ed in Lombardia (oltre 17 mln). Altri consistenti importi attendono verifiche in Campania e Abruzzo. Tra questi di «significativa rilevanza» sono le ipotesi di danno erariale contestato nel Lazio per frodi nella gestione di case di cura convenzionate, «per irregolari erogazioni di prestazioni riabilitativa (quasi 130 mln) e quelli contestati in Sicilia per l'ingiusta erogazione di somme a società (circa 31 mln) e per la costituzione di una società per azioni per l'affidamento dei servizi del 118 (oltre 37 mln)».
E la politica? Certo, non aiuta. Nel mirino della magistratura contabile finisce quasi tutto il lavoro dell'Esecutivo di centrodestra svolto in questi anni. Non solo sono «insoddisfacenti» i risultati degli Enti locali nella lotta contro l'evasione, non solo sono sostanzialmente «inadeguati» tutti gli strumenti adottati nel reperimento del gettito fiscale complessivo, ma, sotto accusa, chiaramente e senza alcuna ambiguità, ci sono tutte le leggi "ad personam", dalla Cirielli al nuovo ddl sulle intercettazioni «che costituiscono invece - sottolinea Ristuccia - uno dei più importanti strumenti investigativi utilizzabili a contrastare le frodi». Così il ddl intercettazioni «non appare indirizzato ad una vera e propria lotta alla corruzione», spiega Ristuccia. Ma la Corte boccia clamorosamente anche la legge Cirielli, che ha dimezzato i termini di prescrizione «con il risultato che molti dei relativi processi si estingueranno poco prima della sentenza finale, sebbene preceduta da una sentenza di condanna». Quanto, ancora, al Ddl sul processo breve, l'auspicio è che «non costituisca un ulteriore ostacolo nella lotta alla corruzione». Tutto si inserisce nella grande riforma federale che il governo ha pianificato. E, dunque, particolarmente ricca di altre criticità è anche "quella" riforma che più preme alla Lega: il federalismo fiscale.
Ad essere smontato, ascoltando Ristuccia, è tutto un "sistema", come se il malaffare fosse diventato costume, buttato giù tassello per tassello perché, e i dati lo dimostrano, le leggi fino ad oggi varate sono andate esattamente nella direzione contraria a contrastare la lotta proprio alla corruzione e alle frodi. «Evidentemente - commenta alla fine Ferrero (Prc) - Berlusconi, nella sua opera di corruzione sistematica della società italiana, dopo i condoni che hanno garantito la libertà di speculare e di evadere il fisco, vuole garantire ora anche la libertà di corrompere e di farsi corrompere. Del resto, è la pratica con cui si garantisce la maggioranza in parlamento».
Non, certamente, nel Paese.


Liberazione 23/02/2011, pag 7

Valerio Verbano, per l'omicidio ci sono due nuovi sospetti

Un gruppo di militanti di destra del quartiere avrebbe compiuto l'azione per accreditarsi con i Nar

Paolo Persichetti
Ufficialmente nessun nome è stato ancora iscritto nel registro degli indagati per le nuove indagini sull'omicidio di Valerio Verbano, il diciannovenne militante dell'Autonomia operaia ucciso il 22 febbraio di 31 anni fa da un commando di tre neofascisti che gli tesero un agguato nella sua abitazione dopo aver immobilizzato i genitori. E' vero tuttavia che l'attenzione degli inquirenti si è concentrata su due personaggi che all'epoca avevano più o meno la sua stessa età. A loro si sarebbe arrivati attraverso un aggiornamento dei vecchi identikit, realizzati sulla base delle testimonianze del padre di Valerio, Sardo Verbano, che aprì la porta agli attentatori e vide uno di loro in faccia, e di un vicino di casa che incrociò i tre sulle scale mentre si allontanavano precipitosamente. Grazie a dei moderni programmi di grafica informatica in uso alle forze di polizia, il Ros dei carabinieri che conduce le indagini per conto dei pm Pietro Saviotti e Erminio Amelio ha invecchiato gli identikit dell'epoca comparandoli con i volti attuali di alcuni sospettati, giungendo a sovrapporli con quelli di due neofascisti di quegli anni. Non ci sarebbero dunque nuovi riconoscimenti. Insomma il quadro probatorio raccolto allo stato sarebbe prettamente indiziario, supportato da ricostruzioni logiche, per questo in procura si procede con cautela. Domani si svolgerà un esame molto importante, un accertamento tecnico irripetibile su quei pochi reperti sfuggiti alla distruzione dei corpi di reato decisi dal giudice istruttore Claudio D'Angelo, che per oltre un decennio ha avuto in mano il dossier. Di fatto la procura sta espletando solo oggi alcune di quelle richieste che nel gennaio 1987 il nuovo pm incaricato delle indagini, Loreto D'Ambrosio, aveva chiesto senza trovare ascolto. Giovedì i tecnici di laboratorio tenteranno di individuare eventuali tracce genetiche dal bottone, gli occhiali e la pistola, una beretta 7,65, lasciati dagli attentatori. Probabilmente verrà svolta anche una perizia comparativa sull'arma per verificare, come chiesto nuovamente dai legali di Carla, la madre di Verbano, l'eventuale compatibilità della pistola con un'arma da fuoco dello stresso calibro impiegata in una rapina realizzata da tre esponenti di Terza posizione nel 1979. Ad individuare i due volti si sarebbe giunti dopo un accurato lavoro di mappatura della violenza politica nei quartieri dell'area nord est della Capitale, una delle zone dove lo scontro tra rossi e neri fu più sanguinoso. Non è escluso che ad indirizzare questo lavoro di analisi vi sia stato il contributo di qualche "gola profonda". Uno o più collaboratori di giustizia a cui sarebbe stato chiesto di raschiare il fondo del barile. L'ipotesi su cui sembrano aver lavorato gli inquirenti è quella di un'azione messa in piedi da un "nucleo di quartiere", appartenente all'area dello spontaneismo armato di destra, per candidarsi all'ingresso nei Nar. Lo scenario è abbastanza verosimile, risponde infatti a delle dinamiche molto frequenti in quegli anni di forte accelerazione militarista, dove gruppi esterni spesso composti da giovanissimi realizzavano azioni indipendenti per accreditarsi presso i gruppi maggiori. I Nuclei armati rivoluzionari erano una sigla aperta che si prestava ad episodi del genere. L'azione venne rivendicata a nome del comando «Thor, Balder e Tir», mai ricomparso successivamente, e fu criticata dai militanti storici dei Nar con un altro comunicato. Secondo quanto riferito da Repubblica, i sospetti si sarebbero incentrati su un «professionista» affermato e su un attivista di estrema destra riparato da molti anni all'estero. I due non sarebbero affatto degli sconosciuti e sicuramente uno di loro sarebbe stato fermato in passato per possesso di armi. La descrizione del militante espatriato lascia pensare ad un latitante riparato in Sud America, in un Paese tuttora coinvolto in una accesa controversia giuridico-diplomatica con l'Italia. Per altro il personaggio è stato condannato per aver partecipato proprio alla rapina del 1979 nella quale venne utilizzata una 7,65, arma di cui si sta cercando di verificare la compatibilità con quella che Valerio Verbano strappo dalle mani dei suoi assassini. Inesatto appare invece è il richiamo al ferimento di Roberto Ugolini, il militante ex di Lc ferito nel marzo 79 da un nucleo di Terza posizione di cui sono noti i nomi. Uno di loro era in carcere al momento dell'assassinio di Verbano, l'altro, Giorgio Vale, nell'80 già faceva parte dei Nar. Identiche modalità d'azione che conducono ad ipotizzare l'intervento di una medesima area armata ma con responsabili diversi.


Liberazione 23/02/2011, pag 8

lunedì 21 febbraio 2011

Il lavoro domestico in Italia, una guida importante

A cura di Raffaella Sarti, esperta di storia delle donne

Vittorio Bonanni
Raffaella Sarti è ricercatrice presso l'Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo". Specializzata in storia delle donne e dell'identità di genere, ha da tempo dedicato una particolare attenzione alla storia del lavoro domestico e di cura. Per questo ha deciso di realizzare Lavoro domestico e di cura: quali diritti? (Ediesse, pp. 369, euro 18,00, libro più dvd), organizzato in una prima parte, scritta dalla stessa Sarti, dove si traccia da un lato una storia delle leggi che hanno regolamentato il settore e dall'altro un profilo di chi ha fatto, spesso suo malgrado, della cura e dell'accudimento la propria professione; mentre nei capitoli seguenti, realizzati da docenti e sindacalisti, si ripercorre la storia delle colf e delle lavoratrici domestiche, si torna sulle leggi, si parla delle associazioni che si sono impegnate per la loro tutela, le Acli in primo luogo, fino all'intreccio inevitabile tra pubblico e privato e la recente evoluzione, strettamente legata al fenomeno dell'immigrazione. «Questo libro - scrive la Sarti - parla dei diritti dei lavoratori domestici, che in gran parte sono lavoratrici: diritti conquistati con lentezza, ancor oggi limitati rispetto a quelli di molte altre categorie e, per di più, spesso non rispettati». L'occasione per scrivere quella che può essere definita una guida del settore, è stata la commemorazione nel 2008 della legge n. 339 del 1958, «che a tutt'oggi resta la principale legge relativa al lavoro domestico salariato». In occasione di questo anniversario tre anni fa è stata organizzata una giornata di studio che poi ha dato vita a questo libro. Un testo base che dovrebbe essere presente sulle scrivanie dei politici, degli operatori del settore e delle famiglie, tanto è ricco di dati e di valutazioni utili per chi deve, sia pure ricoprendo ruoli diversi, occuparsi del problema. Lavoratrici e lavoratori domestici sono ormai un esercito, le famiglie italiane senza non potrebbero più stare, ma tutti i protagonisti di queste storie continuano a vivere con disagio quella che per tutti/e può essere definita una costrizione. Da qui l'esigenza di leggi più adeguate per migliorare la vita delle famiglie e di chi, all'interno di questi nuclei, si occupa dei più deboli e anziani.


Liberazione 20/02/2011, pag 15

Valerio Verbano, due libri riaprono la vicenda

Ucciso 31 anni fa da un commando dei Nar e poi dalle omissioni e le inadempienze della magistratura
Paolo Persichetti
Il 22 febbraio 1980 moriva a Roma Valerio Verbano, giovanissimo militante dell'autonomia operaia ucciso da un commando neofascista che l'attendeva all'interno della sua abitazione, nel quartiere di Montesacro, dopo aver immobilizzato i genitori. I Nar, Nuclei amati rivoluzionari, sigla "aperta" dello spontaneismo armato della destra estrema, rivendicarono l'azione fornendo alcuni riscontri inequivocabili. A 31 anni di distanza due corposi volumi tornano a scandagliare con cura quella vicenda rimasta senza una verità giudiziaria definita: Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché, di Valerio Lazzaretti, Odradek, 461 pagine, 25 euro; Valerio Verbano, una ferita ancora aperta. Passione e morte di un militante comunista, di Marco Capoccetti Boccia, Castelvecchi, 380 pagine, 19,50.
All'interno dell'area antagonista romana la memoria di Valerio Verbano, e della sua breve e intensa storia politica, si è tramandata con forza. Ogni anno l'anniversario della sua morte è scandito da un corteo che traversa le strade del suo quartiere e da numerose iniziative in suo ricordo. I due volumi appena usciti sono una testimonianza di questa memoria ancora incandescente. E' questa una prima difficoltà per lo storico: districarsi da ciò che i portatori di memoria vogliono affermare nel presente. Due sono i temi caldi che appassionano l'evento memoriale rinnovato attorno alla figura di questo giovane militante comunista: l'identità sconosciuta degli autori dell'assassinio e la volontà di riaffermare la pratica dell'antifascismo militante in un periodo storico che vede diversi esponenti della destra armata degli anni 70, alcuni dei quali persino coinvolti nelle indagini per la sua morte, far parte a pieno titolo del ceto politico-istituzionale. Sia Lazzaretti che Capoccetti attraverso un certosino lavoro di controinchiesta e un'analisi impietosa delle indagini giudiziarie mostrano come gli autori dell'omicidio non siano da ricercare tanto lontano, contrariamente a quanto affermato da Sandro Provvisionato e Adalberto Baldoni in un'intervista apparsa sull'Espresso di qualche tempo fa. Secondo Provvisionato e Baldoni le morti di Verbano e poi quella del picchiatore missino Angelo Mancia, avvenuta poche settimane dopo ed anch'essa rimasta senza responsabili, sarebbero da addebitare ad una «entità» che avrebbe agito per elevare il livello di scontro politico tra aree estreme. Come se a Roma tra il 1979 e l'80 ci fosse stato bisogno di imput del genere. Con la loro inchiesta Lazzaretti e Capoccetti ribadiscono la matrice neofascista dell'assassinio, come testimonia quella prima rivendicazione che per autocertificarsi riportò alcuni dettagli riservati conosciuti solo dagli autori del delitto. Il nucleo dei Nar che rivendicò l'episodio citava i comandi «Thor, Balder e Tir», mai comparsi successivamente. Verbano ingaggiò una lotta furibonda contro i suoi aggressori. La ricostruzione di quanto avvenne sulla scena del delitto fa pensare che egli riuscì a disarmare uno dei tre attentatori e stese a terra gli altri due. Il colpo mortale venne sparato alle sue spalle dal basso verso l'altro mentre stava cercando di raggiungere il balcone. L'omicidio fu probabilmente una forzatura che suscitò discussioni nell'area dello spontaneismo armato neofascista. Un successivo comunicato siglato Nar, poi si seppe scritto da Valerio Fioravanti, criticò l'azione. Arrestato il 20 aprile 79, Verbano venne scarcerato il 22 novembre dello stesso anno. Tre mesi dopo fu ucciso. L'arresto c'entra in qualche modo con con la sua morte perché durante la perquisizione della sua stanza che ne seguì, oltre ad una pistola, la digos scoprì un corposo dossier composto da foto, nomi, indirizzi e schede sull'estrema destra romana. Si trattava di un lavoro di controinformazione che Valerio conduceva insieme ad altri compagni del collettivo che aveva messo in piedi. Uno schedario forse in parte ereditato da precedenti strutture politiche. Fatto sta che quel dossier una volta finito nell'ufficio corpi di reato del tribunale scomparve. In tribunale all'epoca lavorava un magistrato istruttore con molte relazioni, Antonio Alibrandi, padre di Alessandro, esponente di primo piano dei Nar morto tempo dopo in un conflitto a fuoco. Alibrandi padre, spiegavano le cronache dell'epoca, era una pedina di Giulio Andreotti per conto del quale aveva incriminato Paolo Baffi, allora direttore generale della Banca d'Italia, e arrestato nel marzo 1979, Mario Sarcinelli, suo vice. La vicenda del dossier e lo scontro di pazza Annibaliano con un gruppo di fascisti, nel quale Verbano aveva perso i documenti, avevano attirato su di lui l'attenzione trasformandolo in un obiettivo.
Convince meno, in questa battaglia per la memoria, l'idea che dai percorsi giudiziari possa scaturire dopo tanti decenni la verità. I due libri documentano la scandalosa condotta della magistratura, addirittura la distruzione dei corpi di reato lasciati dagli assassini, sottratti così alle nuove tecniche d'indagine. Un paradosso visto che l'omicidio è ormai un crimine imprescrittibile, ragion per cui reperti e corpi di reato dovrebbero essere conservati per sempre. Questo bisogno di un colpevole, richiesta umanamente comprensibile, rischia però di trasformarsi in un boomerang politico. Lo si è già visto con la richiesta della riapertura delle indagini, lo scorso anno. Alemanno aveva incontrato i dirigenti della procura. Si era parlato di 19 casi irrisolti, per poi alla fine assistere soltanto alla riapertura dell'inchiesta sul rogo di Primavalle, unico episodio ad avere una verità processuale accertata ma utile alla retorica vittimista della destra. L'unica strada è l'uscita dalle ipoteche penali accompagnata da una richiesta di trasparenza totale.
Il volume di Lazzaretti, grazie ad un'imponente documentazione archivistica, sgretola la narrazione vittimistica diffusa dalla destra negli ultimi anni. E' impressionante la mole di aggressioni fasciste che avvenivano nella città di Roma. Quello di Capoccetti, ricavato da un ulteriore sviluppo della sua tesi universitaria, ricostruisce attraverso molte interviste il vissuto politico di Verbano, compresa la graduale maturazione di un suo dissenso con la strategia politica dei collettivi autonomi. I due libri tuttavia non sviscerano alcuni non detti confinati nelle pieghe della sua storia. Tra questi, per esempio, il nodo dell'antifascismo militante. Il dissenso contro lo «sparare nel mucchio» che aveva portato Verbano ad intervenire pubblicamente sulle frequenze di radio Onda rossa per criticare l'uccisione di Stefano Cecchetti, che non era fascista, colpito a caso davanti ad un bar frequentato da militanti di destra. Omicidio che per crassa ignoranza gli venne imputato dai suoi assassini nel volantino di rivendicazione. Esistevano all'epoca diverse interpretazioni dell'antifascismo militante, alcuni lo ritenevano tema centrale, altri una questione di retroguardia. Alcuni l'utilizzavano per frenare la spinta verso i gruppi armati (l'esatto contrario di quel che sostiene Guido Panvini in, Ordine Nero, guerriglia rossa, Einaudi 2009). C'erano poi idee diverse sul modo di condurlo. Insomma, da questo punto di vista certamente un'occasione persa.


Liberazione 20/02/2011, pag 8

Due milioni di euro al giorno per la guerra

Il rifinaziamento alle missioni approvato con voto bipartisan: no solo dall'Idv
Nel silenzio assordante dei media italiani giovedì sera il Senato ha dato il via libera definitiva all'ennesimo rifinanziamento semestrale della missione italiana di guerra in Afghanistan.
Per i 181 giorni di campagna militare che vanno dal 1° gennaio al 30 giugno 2011, è prevista una spesa complessiva di oltre 410 milioni di euro, vale a dire più di 68 milioni al mese (2,26 milioni al giorno).
Un voto quasi unanime visto che solo i nove senatori dell'Idv presenti hanno votato contro il decreto, ed è giusto stavolta a differenza di altre fare i nomi: Felice Belisario, Giuseppe Caforio, Giuliana Carlino, Aniello Di Nardo, Elio Lannutti, Luigi Li Gotti, Alfonso Mascitelli, Francesco Pardi e Stefano Pedica.
Nelle file del Pd solo qualche dissenso, visto che il primo partito di opposizione ha votato compatto il rifinanziamento della missione, ma anche tra i rappresentanti piddini si è registrato un flebile segnale di protesta visto che non hanno partecipato al voto i senatori radicali del gruppo Marco Perduca e Donatella Poretti.
Con l'invio di nuovi rinforzi, nei prossimi mesi il contingente italiano sul fronte afgano arriverà a contare 4.350 uomini, 883 mezzi terrestri (tra blindati leggeri e pesanti, carri armati, camion e ruspe) e 34 velivoli (tra caccia-bombardieri, elicotteri da combattimento e da trasporto e droni).
In nove anni e mezzo (compreso quindi il rifinanziamento attualmente in esame), questa inutile campagna militare ha risucchiato dalle esangui casse dello Stato più di 3 miliardi di euro.
Del sostianziale stanziamento di oltre 754 milioni di euro: 62 milioni sono finalizzati alle alle operazioni di ricostruzione civile, mentre la somma restante - quindi 692 milioni -andranno a coprire le spese per le 28 missioni militari. Il testo prevede inoltre alcuni interventi nel Paese, come il sostegno al programma governativo per la costruzione di strade rurali e distrettuali nella provincia di Herat, il finanziamento di vari interventi nel settore sanitario e a sostegno della piccola e media impresa, con particolare attenzione all'area di frontiera tra Afghanistan e Pakistan e l'erogazione di un contributo al Fondo fiduciario della Nato destinato al sostegno dell'esercito nazionale afghano. Per quanto riguarda l'Africa sub-sahariana, invece, i finanziamenti riguardano soprattutto la missione in Sudan.
Invariati i contingenti italiani nei Balcani, dove sono impegnati 650 militari, e in Libano, dove gli uomini sono 1780.
Intanto in Afghanistan la guerra infuria. A Khost un'utobomba ha provocato la morte di 9 persone, tra cui tre donne. Nel nord del paeseè stato attaccato un avamposto tedesco dove è rimasto ucciso un militare del contingente di Berlino e 8 soldati feriti. Mentre a Kunar, nella parte nord-orientale del Paese - trenta militanti afgani sono rimasti uccisi la scorsa notte, nel corso di uno scontro a fuoco con le forze Nato. Insomma una giornata tranquilla.
S.C.


Liberazione 19/02/2011, pag 3

venerdì 18 febbraio 2011

Roma è un bene comune: liberiamola!

Claudio Ortale, Tiziana Uleri, Luca Fontana*
Da diverse settimane, si è tornati a parlare di Roma e di come poterla ripensare, oltre la stretta mortale che negli ultimi anni la sta via via soffocando. Riteniamo opportuno non far partire le lancette dell'orologio dagli ultimi due anni e mezzo di Alemanno o dalla sua crisi di appena un mese fa perché sarebbe come fissare solo la bisaccia che abbiamo ora davanti senza vedere l'altra che portiamo dietro le spalle e che ha determinato "lo stato delle cose presenti". Ragioniamo su quali sono le cause originali e le ragioni dei nostri guai attuali. Partiamo da una semplice domanda: Alemanno, chi lo ha messo là? Ci sono almeno quattro motivi per i quali anche noi abbiamo dato il nostro contributo per regalare la città alla destra. Il primo è stato quello di essere stati sudditi del "modello Roma" di Veltroni e in parte complici di alcuni poteri forti della nostra città, appena coperti dalla foglia di fico della tristemente nota "alleanza competitiva". Il secondo grave errore fu quello di votare a favore del Nuovo Piano Regolatore Generale, mentre tutti i movimenti di opposizione gremivano il Campidoglio e si scontravano con le forze dell'ordine. Su questo si è spesso affermato che dare un Nprg alla città era l'unico modo per salvaguardarla dai cementificatori. Così non è stato. Ad oggi le varianti si sono ormai trasformate in buchi sempre più frequenti di una groviera interminabile chiamata Roma. Il terzo punto, determinante ai fini del successo delle destre, è stata la nostra accettazione, all'interno della funesta esperienza della Sinistra Arcobaleno di riciclare l'irriciclabile Rutelli, quello che bastava dare un volantino al mercato rionale per averne chiara l'opinione della gente. Un candidato voluto da Veltroni ma affatto ostacolato nella sua candidatura dai nostri dirigenti locali e nazionali. Il presunto ticket tra Rutelli e Sentinelli venne celebrato a via dei Frentani prima delle elezioni dell'aprile 2008, con la benedizione di molti dirigenti che ora sono passati sulla nave guidata dal narratore pugliese. Altri, ancora con noi e che sostennero questo "ticket", dovrebbero ben riflettere sui danni devastanti che le solite scelte guidate dall'alto portano alla sinistra in generale e ai comunisti in modo particolare. A questo basta aggiungere che appena due anni dopo ci ritroviamo l'allora candidato a sindaco di Roma in buona compagnia con l'antiabortista Casini e l'ex Msi Fini. Il quarto errore, venuto alla luce subito dopo ma determinante per rendere chiaro il quadro, sono stati i finanziamenti ricercati da alcuni dirigenti cittadini e ottenuti da costruttori romani. Quegli stessi costruttori che nelle sere di discussione sul Nprg "presidiavano" l'aula e tampinavano i propri terminali di riferimento per essere certi di portare a casa tutto. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. E lo si capì bene stando ai seggi, soprattutto in quelli delle periferie romane: a parità di votanti nello stesso seggio Alemanno vinceva su Rutelli, mentre a Zingaretti accadeva l'esatto contrario. Ora possiamo anche darci una risposta: Alemanno e la sua giunta li abbiamo messi là anche noi, non indicando una strada alternativa ai tanti cittadini romani. Errare è umano. Ma perseverare sembra proprio una grave malattia dalla quale non riusciamo a guarire. Eppure, Roma è una città che merita molto di più che un Partito Comunista e una Federazione della Sinistra dati sotto al 3%. Roma è una città che è stata ferita da un Veltroni che ha deciso di lasciarla dopo neanche due anni del suo secondo mandato e dai tanti numeri sparati sul buco di Bilancio ereditato da Alemanno. Roma è stata maltrattata dal recente scandalo di "parentopoli" e distratta a suon di "progettopoli" mentre le manovre di bilancio arrivano in aula con un anno e mezzo di ritardo. Roma indossa il titolo di "Roma Capitale" ma senza il capitale, i famosi 600 milioni annui che il premier gli aveva più volte fatto balenare. Roma resta al palo senza una vera opposizione, posto che dopo il nostro suicidio elettorale non siamo rappresentati neanche da un solo consigliere in aula e il Pd, a parte il massiccio uso dei manifesti elettorali, non riesce a dare una semplice spallata a un avversario che diventa sempre di più, per dirla come il vecchio cinese, una "tigre di carta". Roma che vede l'opposizione politica spenta e solo quella sociale che continua a prendersi la parola, come nel caso dei movimenti che dalla scorsa estate sono divenuti un problema reale e costante per il sindaco e per la Polverini. Roma è una città che va liberata e non potrà esserlo se non rimetteremo in moto un processo di opposizione che veda i comunisti non più esprimere solo la propria solidarietà alle lotte altrui, ma che li veda nuovamente promotori delle lotte. Roma, infine, è un bene prezioso e irripetibile, un bene comune, per tutti noi che la viviamo ogni giorno e per i tanti che la amano da sempre: liberiamola!
*Federazione di Roma


Liberazione 15/02/2011, pag 10

Berlino ha avuto quorum. In Italia c'è un silenzio assordante

Nella capitale tedesca vince il sì al referendum per riprendersi il servizio idrico
Alfio NIcotra
A Berlino vincono i Si alla ripubblicizzazione del servizio idrico. Dopo Parigi anche dalla capitale tedesca - questa volta con il voto popolare - arriva un cambio di marcia fondamentale: l'acqua è un bene comune e la sua gestione non va privatizzata. Tutti ci dicono di guardare all'Europa quando si tratta d'innalzare l'età pensionabile e far quadrare i bilanci pubblici sforbiciando il welfare state. Dai giornali scompare invece ogni riferimento all'Europa quando amministrazioni pubbliche e movimenti della società civile riconquistano servizi e beni comuni, che inopinatamente negli anni della sbornia neoliberista erano stati consegnati agli appetiti delle multinazionali. Parigi e Berlino ci insegnano che invece si può riportare alla proprietà pubblica l'acqua, che non è un guardare indietro il mondo- come sostengono i nostri detrattori - ma al contrario mettere i piedi ben saldi nel futuro per garantire alle nuove generazioni l'accesso ad una risorsa fondamentale per la vita. Nell'epoca della mercificazione quello della ripubblicizzazione dell'acqua è un segnale di grande controtendenza. Ci insegna che non tutto può essere piegato al profitto, si rompe il luogo comune del "privato più efficiente del pubblico", si rielabora una idea del pubblico legata alla comunità e al controllo democratico delle popolazioni.
Parigi e Berlino chiamano l'Italia. Su due dei tre referendum promossi dal comitato per l'acqua pubblica si voterà in Italia probabilmente il 12 di giugno (l'ultima data utile stabilita dalla legge). E' un appuntamento sul quale è calato un silenzio sospetto, lo stesso che a Berlino ha accompagnato le settimane precedenti il voto referendario. La strategia dei privatizzatori appare chiara: non parlare del referendum ed aspettare che si "scarichi" da solo, collocando il voto al ridosso dell'estate e dopo che gli elettori saranno stati chiamati alle urne per l'elezioni amministrative (turno di ballottaggio incluso). Il Viminale sta lavorando in questa direzione con largo consenso delle forze politiche parlamentari ( è utile ricordare che nessuna di esse ha promosso il referendum e l'Idv ne ha promosso uno "ingannevole" giustamente dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale). La sfida del quorum è complicata e difficile. Da tempo nei referendum non si supera più la fatidica sogna del 50% degli aventi diritto al voto. L'acqua può fare miracoli smuovendo nel profondo la società italiana . Il successo della raccolta delle firme - un milione e 400mila - dimostra tutto il potenziale disponibile per questa battaglia di civiltà . Lo sforzo però si deve moltiplicare. L'acqua pubblica insieme al Si per l'abolizione delle norme che vogliono introdurre il nucleare in Italia, diventa spartiacque decisivo anche nel passaggio elettorale amministrativo. Come si schierano i candidati a sindaco e le forze politiche che concorrono per i consigli comunali e provinciali? A Massimo D'Alema la domanda "cosa fa il Pd ai referendum?" è stata posta anche al Forum Sociale Mondiale svoltosi la scorsa settimana a Dakar. La risposta è stata un misto d'imbarazzo e di fastidio annunciando l'atteggiamento presumibilmente tiepido del Pd che teme - parole della "volpe del Tavoliere" come lo definì un indimenticato Luigi Pintor - che "molte agenzie pubbliche dei servizi siano messe in difficoltà dalla vittoria dei Si". Il rischio concreto è che nel Pd avanzi la strategia del "boicottaggio dolce" e la tesi che il primo quesito quello sul decreto Ronchi "non riguardi solo l'acqua ma tutti servizi privatizzabili" . Argomento che viene già usato oggi per dissuadere i già numerosi sindaci del Pd che hanno sottoscritto i referendum, per mettergli in guardia dell'esito negativo che avrebbe il successo dei referendum sulla vita amministrativa. Questo sarà uno dei leitmotiv che farà da sottofondo alla campagna referendaria di chi, contrario alla ripubblicizzazione dell'acqua, non ha il coraggio di schierarsi apertamente per il No.
Berlino e Parigi però dicono che nella società c'è più consapevolezza che nella sfera esclusivamente politica. Sarà fondamentale far crescere la pressione da basso su tutti gli amministratori pubblici, far girare il passaparola che è importante andare a votare e per questa via rompere l'embargo informativo. Da adesso è utile e necessario costituire i comitati per il Si al referendum in ogni dove, luogo di studio e di lavoro compreso. Questo è un referendum che si vince solo se c'è un risveglio democratico delle coscienze e se all'antipolitica si sostituisce la Politica con La P maiuscola quella fatta per il bene comune e con la partecipazione di tutti e tutte. Il 26 marzo inoltre si terrà a Roma la manifestazione nazionale dei movimenti dell'acqua occasione importantissima per riaccendere i riflettori sull'appuntamento referendario. C'è un quorum da far battere, questa volta non per l'interesse di pochi, ma per l'interesse comune.


Liberazione 16/02/2011, pag 12

Dopositi Atac in svendita, festeggia la speculazione

A Roma ieri occupazione-censimento verso la mobilitazione di sabato contro gli Stati generali di Alemanno
Daniele Nalbone
Roma. Piazza Ragusa. Sono le 10.30 di ieri mattina quando oltre cento persone occupano il deposito Atac, chiuso da tre anni e da allora relegato a sede del dopolavoro dei dipendenti dell'azienda dei trasporti della capitale. Un'occupazione per continuare sul censimento dal basso come pratica di monitoraggio delle strutture pubbliche abbandonate, dismesse o in via di alienazione, terreno fertile per la speculazione e la rendita immobiliare. Un'occupazione come tappa di avvicinamento alla manifestazione di sabato 19 febbraio quando la Roma "dal basso" scenderà in piazza per contrastare l'idea di città che il sindaco Alemanno vuole presentare agli Stati generali del 22 e 23 febbraio all'Eur. Perché «in questa città - si legge nel volantino distribuito ieri a una cittadinanza che si è dimostrata solidale con gli occupanti - c'è un patrimonio pubblico, come il deposito Atac di piazza Ragusa, che rischia di essere venduto al miglior offerente, ad un ricco privato che in cambio di immobili di pregio sia pronto ad elargire denaro per ripianare i conti in rosso dell'amministrazione comunale».
Questo sta succedendo con le 15 caserme transitate dal ministero della Difesa nella disponibilità del Comune di Roma e che ora sono in via di alienazione: l'80% ai privati, il 20% al pubblico in un mix "residuale" di servizi, alloggi a canone calmierato, social housing. Questo sta accadendo con i depositi Atac sparsi per la città: da quello di piazza Ragusa "censito" ieri, parte importante della storia del quartiere «ma il cui utilizzo - ci spiega Paolo Di Vetta di Asia Usb - non prevede consultazioni con la cittadinanza o strumenti partecipativi e di controllo sul suo futuro», a quello di via della Lega Lombarda, a pochi metri dalla stazione Tiburtina, in via di "valorizzazione". E mentre gli attivisti discutevano nei locali del deposito Atac di via Ragusa con i pochi lavoratori presenti nella struttura ormai abbandonata e preparavano la grande assemblea cittadina del pomeriggio alla quale hanno partecipato, oltre ai movimenti di lotta per l'abitare, anche sindacati di base (Usb, Cobas) che hanno rilanciato lo sciopero generale dell'11 marzo, comitati di quartiere, realtà politiche e la presidente del IX Municipio Susi Fantino, dagli uffici del comune di Roma veniva ufficializzata la data per l'incontro, con al centro il tema della casa, tra i movimenti, il sindaco Alemanno e gli assessori Antoniozzi (Casa) e Corsini (Urbanistica): venerdì 18 febbraio alle ore 15.30 in Campidoglio.
Inevitabilmente la sensazione è quella di un'amministrazione comunale "in apprensione" per le manifestazioni in programma sabato 19 dall'Esquilino fin sotto il Campidoglio e il 23 febbraio quando la "Roma dal basso" proverà a cingere d'assedio la Roma-vetrina degli Stati generali. Manifestazioni che alle tematiche "calde" della città, dall'emergenza abitativa alla questione rom tornata sulle prime pagine dei giornali con la tragica morte dei quattro bambini nel rogo di Tor Fiscale, dalle speculazioni dei grandi eventi (le Olimpiadi di Roma 2020 in testa) agli interessi dietro le grandi opere (raddoppio dell'aeroporto di Fiumicino e autostrada Roma-Latina in primis), uniranno anche il tema della mobilità e del trasporto pubblico: «Lo scandalo di parentopoli ha dimostrato - ci spiega Alessio, lavoratore Atac e delegato Usb - che il sindaco è troppo impegnato a sistemare parenti e amici di partito per pensare a uno sviluppo del trasporto pubblico, a una tutela dei redditi più bassi attraverso tariffazioni sociali o gratuità del servizio per disoccupati e studenti».
Gli scioperi del settore delle ultime settimane, «motivati - sottolinea Alessio - da una qualità del servizio insopportabile sia per gli utenti che per noi dipendenti Atac», hanno dimostrato la difficoltà in cui si trova il trasporto pubblico della capitale. Prossima tappa di avvicinamento agli Stati generali, venerdì 18 febbraio (ore 17) per un'assemblea all'interno dell'occupazione di via del Porto Fluviale con al centro l'uso pubblico delle caserme.


Liberazione 15/02/2011, pag 7

Russia, fine crisi e nuovo record: cresce il numero dei miliardari

I miliardari russi sono tornati e sono ancora più numerosi di prima.
Un nuovo record, con Roman Abramovich che tuttavia scende per la prima volta dal podio e nuovi oligarchi vicino al premier Vladimir Putin che continuano a scalare la vetta, anche se nei top ten non ci sono new entry: è la nuova classifica del settimanale Finans, ma anche una ennesima conferma che "la crisi è finita", come titola il periodico. Alla fine del 2010 la Russia contava 114 uomini da oltre un miliardo di dollari, secondo la lista dei 500 super ricchi del Paese pubblicata dalla rivista. L'ultimo record era stato registrato nel 2007 con 101 miliardari. La crisi, però, si fa ancora sentire: i primi 10 paperoni valgono insieme 182 miliardi di dollari, cifra ancora inferiore al picco di 221 miliardi del 2007. La rinascita è spiegabile in parte con la ripresa del mercato azionario russo l'anno scorso e riflette la forte crescita della domanda cinese di materie prime, linfa del business degli oligarchi più ricchi.
Il podio è tutto dedicato ai "re dell'acciaio". Per la seconda volta, la medaglia d'oro è andata a Vladimir Lisin, presidente di Novolipetsk, con una fortuna stimata in 28,3 miliardi di dollari. Argento a Mikhail Prokhorov, con un patrimonio intorno ai 22,7 miliardi di dollari. Il giovane oligarca aveva venduto le sue azioni in Norilsk Nickel quando erano al massimo del valore nella primavera 2008 ed è stato l'unico oligarca ad avere disponibilità economica quando i mercati sono crollati.


Liberazione 15/02/2011, pag 3

Dakar chiude pensando al Cairo. Prossima fermata: Genova

A dieci anni dalla prima volta di Porto Alegre, s'è concluso il forum sociale mondiale. Centomila i partecipanti
«Quando è arrivata la notizia nell'aula è scoppiato un boato. Mubarak è partito, Mubarak è stato deposto. Poi sono stati canti, abbracci e una sola antica parola : "rivoluzione!"». I report da Dakar, come questo di Alfio Nicotra, responsabile Movimenti del Prc, raccontano immancabilmente l'entusiasmo e l'attenzione del Forum sociale mondiale per la rivoluzione egiziana e le rivolte nel Maghreb. «Significa che i popoli possono prendere in mano il proprio destino e cambiare la situazione», ha detto ieri Demba Moussa Dembele, coordinatore del Forum delle Alternative Africane.
Nicotra riportava l'atmosfera dell'assemblea del movimenti sociali, una delle assemblee di convergenza sui temi scaturiti dai seminari che si sono susseguiti nell'Università della capitale del Senegal stravolta letteralmente dall'affluenza superiore alle previsioni e dalla stretta del nuovo rettore che ha negato molti spazi previsti rifiutandosi di interrompere i corsi accademici. Anziché le 45 mila persone previste ne sono giunte più di 90 mila. Tantissime le delegazioni africane provenienti da più di trenta paesi del continente. Un risultato che è stato difficile da gestire per il comitato organizzativo, una disorganizzazione che è stata definita a tratti «paralizzante».
Ieri la cerimonia di chiusura nella stessa università Cheick Anta Diop con presentazione delle convergenze adottate durante il Forum. Tra i temi trattati: strategie tra i movimenti sociali nel quadro internazionle, libera circolazione dei popoli, migrazioni, piano d'azione per Rio+20, acqua bene comune, Africa e diaspora, crisi del capitalismo e lotta al debito, sovranità alimentare, giustizia climatica, accesso alla terra, Forum Mondiale della cultura e dell'educazione, donne e sviluppo.
Prossima stazione Genova, dal 19 al 24 luglio per fare il punto della situazione esattamente dieci anni dopo le giornate del social forum italiano e della mattanza da parte delle polizie del G8. Proposta, per il decennale, una carta di intenti nel corso di un'assemblea con oltre cento partecipanti, mercoledì sera. Presenti Arci, Flare, Punto Rosso, Cgil, Un Ponte Per, Mani Tese, Cospe, Legambiente, Caritas Migrantes, Uisp; tra gli altri Alex Zanotelli e alcuni studenti della Sapienza impegnati come volontari a Dakar. Tra i promotori dell'iniziativa Vittorio Agnoletto, oggi direttore culturale di Flare: «Dieci anni dopo possiamo dire che avevamo ragione sui contenuti. A Genova abbiamo anticipato la crisi economica, la situazione climatica, le migrazioni; è da qui che dobbiamo ripartire. Vedere che oggi a Dakar siamo più di un centinaio ci fa capire che tutto quello che è stato seminato è ancora presente». Sabato 19 febbraio è convocata a Genova una riunione dei movimenti per lavorare al programma e per allargare la rete (a Dakar mancano quasi tutti coloro che si sono trovati a Mestre all'assemblea nazionale di Uniti contro la crisi).
Già dal 25 giugno sarà allestita una mostra, "Cassandra", ideata dal Progetto Comunicazione di Milano sulle ragioni dei movimenti sociali altermondialisti. I contenuiti del Forum saranno articolati in sei macrotemi: economia e finanza, lavoro e precarietà, migranti e tematiche dei diritti, beni comuni, guerra e pace, il percorso fatto da Genova 2001 a Genova 2011. Il Fsm ha compiuto 10 anni.
«Da Porto Alegre 2001
a questa edizione ci sono stati gli appuntamenti di Mumbai e
l'India, Bamako e Nairobi e l'Africa, Caracas e Belem e la nuova
America Latina - scrive Giorgio Riolo di Punto Rosso - resta sempre il dilemma, usando la efficace formula di François Houtart: la Scilla della "Woodstock sociale", una sorta di fiera delle alternative, o la Cariddi della nuova Internazionale. La soluzione prospettata da molti di noi, per evitare i due estremi, è stata la "convergenza nella diversità",
politicamente impegnativa, con misure politiche condivise e vincolanti per tutti i soggetti che si riconoscono nel Fsm».
Nella sala del consiglio regionale di Dakar, messa a disposizione del gruppo consiliare della sinistra della capitale, s'è svolto il consueto incontro tra le sinistre di tre continenti. «Quelle tra Il Partito della Sinistra Europea (21 partiti tra i quali Rifondazione, più due partiti osservatori) e il Foro di S.Paolo è ormai una consuetudine che risale al primo Porto Alegre - ricorda Alfio Nicotra - l'estensione agli africani di questa consuetudine non è stata facile. In particolare il Pt di Lula ha tnuto a precisare che la scelta storica del Foro di S.Paolo nato nel 1990 è quali di mantenere in Europa relazioni duplici, con il Partito della Sinistra Europea ma anche con il Partito Socialista Europeo. Per cui alla fine di questa trilaterale, che ha discusso anche di politiche migratorie e di lotta agli accordi commerciali, è riuscita a fare solo una dichiarazione congiunta di solidarietà con i popoli tunisino ed egiziano e a favore del processo di pace in Colombia».
Francesco Ruggeri


Liberazione 12/02/2011, pag 7

La rapina planetaria detta paradisi fiscali

Prendi i soldi e scappa

Maria R. Calderoni
Addio belle signore, vi saluto e vado a Singapore. Così faceva una canzone di Roberto Vecchioni degli anni Sessanta o giù di lì e nessuno ha mai capito che ci volesse andare a fare, lui, a Singapore. E' però certo, Singapore è una bella "piazza", intesa come paradiso fiscale, una piazza rinomata. Una vera tigre malese: questa piccola repubblica del Commonwealth situata tra la Malaysia e l'Indonesia - caldo umido, foresta tropicale, lingua tamil, 4 milioni circa di abitanti, primo porto commerciale del mondo e terza borsa asiatica - risulta dotata di formidabili forzieri off limits. Andate e portate tutti i soldi che volete, siete al sicuro. Singapore, che in sanscrito vuol dire "città del leone", è lontana, ma soprattutto imprendibile; e in più ha il privilegio di non essere inclusa nella lista dei 40 Paesi-ladroni. Ed è ormai un hub finanziario di importanza mondiale, un'attrazione fatale specialmente per il denaro "europeo". In sostanza, la metà degli investimenti che partono dal nostro continente in direzione Asia, approdano qui felicemente e qui felicemente "spariscono", cioè diventano top secret, volatilizzati attraverso l'ingegnoso sistema bancario qui in atto, degno della migliore tradizione anglosassone (la City se ne intende).
Paradisi fiscali. Loro se ne infischiano della crisi, e non gliene frega niente se l'Ocse agita l'inutile minaccia della "black list", la lista nera degli Stati che inguattano miliardi di miliardi di denaro fatto riparare all'estero e reso inaccessibile a ogni occhio di fisco, pur globale che sia. Paradisi fiscali, prendi i soldi e scappa.
Dicesi "paradiso fiscale", infatti, un territorio fuori controllo, al riparo dalla regolamentazione internazionale, con imposizione fiscale molto ridotta o addirittura assente; e con norme particolarmente rigide sul segreto bancario che consentono di compiere transazioni "coperte". Un territorio, si capisce bene, in grado di attrarre grandi masse di capitale, non importa di quale origine, natura e provenienza, criminale o meno.
Visto da questo punto di vista, insomma, un Territorio Ideale, un Paradiso, appunto. Di tali "paradisi" se ne contano attualmente tra i 40 e gli 80, a seconda delle stime (l'Ocse ne denuncia appunto 40). L'elenco è suggestivo e planetario, va' un po' a vedere dove arriva il Grande Denaro.Tanto per citare (e in ordine alfabetico): Andorra, Antigua, Aruba, Bahamas, Barbados, Belize, Cayman, Costa Rica, Cipro, Hong Kong, Isole Cook, Liberia, Liechtenstein, Lussemburgo, Macao, Mauritius, Panama, Samoa, San Marino, Svizzera (e metteteci anche l'Isola di Man). Le Isole Cook, le Isole Marshall e Madeira e Malta, e pure la piccola Tonga sperduta nel Pacifico ma ben attrezzata, capace di risucchiare svariati bilioni di dollari (vi ricordo che un bilione è uguale a 1.000 miliardi).
Paradisi, là dove si ragiona non in termini di milioni, ma di miliardi di dollari. Prendete le Cayman (30mila abitanti), là risultano imboscati 297.249 miliardi di dollari (di cui quasi 5mila provenienti dall'Italia, 50mila dalla Germania). Prendete la Liberia, africana e povera, là ne sono finiti 16.231. E la fantastica Isola di Man, «senza tempo, eterna e misteriosa», dove Hitchcock ha girato uno dei suoi film? In mezzo al Mar d'Irlanda, 76mila abitanti, dipendenza della Corona Britannica, lei vanta il Tynwald - il parlamento più antico del mondo (979 d.C.) - nonché la Grande Foresta e il Regno delle Fate; ma vanta anche la formidabile attrattiva di essere una specie di Isola del tesoro: 50 miliardi di euro, tesaurizzati e irreprensibilmente custoditi dentro i caveau delle molteplici banche autorizzate ad operare in questo magico rifugio degli "gnomi".
Ma non occorre andare tanto lontano. Più facile raggiungere l'ultimo granducato rimasto al mondo, quel Lussemburgo che è pure uno dei padri fondatori dell'Unione Europea e vanta uno dei redditi pro capite più alti (43mila euro): lì sono pronte 200 banche con oltre 400 miliardi di euro di deposito, e 6.000 fondi, appunto "lussemburghesi", che valgono affari per altri 300 miliardi. Andate tranquilli, per i non residenti lì non esistono tasse né sul reddito, né sui dividendi, né sul capital gain, tampoco si pagano imposte di successione; e inoltre il granducato, noblesse oblige, è assolutamente inespugnabile in fatto di riservatezza. Che volete di più?
E poi, comunque, c'è sempre la nostra immarcescibile Svizzera, l'ex Elvezia amata dagli anarchici - prima piazza offshore del mondo, 2.000 miliardi di dollari di fondi esteri in gestione - dove oltre 500 banche e assicurazioni fanno al caso vostro e dove il segreto bancario è un comandamento (rivelare il nome di un correntista può anche voler dire 6 mesi di galera). Oggi è Zug, il più piccolo e il più ricco dei cantoni, ad attrarre irresistibilmente i capitali fuggitivi: tra le stradine medievali e all'ombra della famosa Torre del Tempo, trovate infatti centinaia di palazzi modernissimi che ospitano le sedi delle ventisettemila imprese registrate alla locale Camera di Commercio (chissà perché proprio lì...). E se non la Svizzera, c'è sempre il Liechtenstein, 35mila abitanti e 100mila miliardi di euro ben custoditi nelle 15 banche del Principato.
Si potrebbe passare in rassegna uno per uno tutti i 40 e più Stati-ladroni, ma crediamo di aver reso l'idea con i pochi esempi descritti. "Paradisi fiscali: uno scippo planetario", questo il titolo del libro-dossier pubblicato nel 2002 per le edizioni Malatempora a cura di "Ares 200 Onlus" . Secondo i dati del volume, il giro d'affari dei paradisi è di circa 1.800 miliardi di dollari l'anno. Di essi, il 40 per cento riguarda capitali provenienti da criminalità organizzata, traffico d'armi compreso; il 45 da "pianificazione fiscale" (eufemismo che sta per furto al fisco) derivanti per la maggior parte da società multinazionali, ma anche da persone fisiche, uomini d'affari, star dello spettacolo, ecc; il 15 da corruzione e saccheggi politici.
Il libro è un vaso di Pandora: le società offshore sparse sul pianeta sono 680.000; i trust 1.200.000; le banche con agenzie nei paradisi circa 10.000; l'evasione fiscale nel mondo 292 milioni di dollari Usa l'anno; il riciclaggio di denaro sporco circa 600 miliardi di dollari annui.
I paradisi fiscali non nascono da soli. La City di Londra ne sa qualcosa. E' un fatto, l'Inghilterra ad esempio domina incontrastata su più di venti paradisi dell'arcipelago fiscale fuorilegge, dalle Cayman a Man, alle isole del Canale; e ben può essere considerata un "portale" di lusso per introiettare capitali in transito e in cerca di "protezione".
Né l'Italia sta a guardare. Secondo la sezione antiriciclaggio dell'Ufficio Italiano Cambi, nel 1999 erano non meno di 10mila miliardi di lire i capitali che lasciavano l'Italia per emigrare nei forzieri offshore; e non risulta che il cosiddetto scudo fiscale, introdotto a beneficio dei capitali che rientrano, abbia sortito un effetto decente. Anzi, il denaro ha continuato a battere le solite strade occulte. Anzi, tutto risulta ancora più facile oggi, e anche incredibilmente veloce, grazie al trasferimento elettronico: in meno di 24 ore - vi assicurano - potete "movimentare" il vostro denaro ben 72 volte in giro per il mondo.
Ci provò De Gaulle. Nel 1962 organizzò una specie di spedizione militare inviando a Monaco centinaia di doganieri per pretendere dal Principato l'impegno a tassare i residenti francesi. Più recentemente, Angela Merkel ha mosso i servizi segreti e stanziato 5 milioni di euro per corrompere un funzionario di banca del Liechtenstein e indurlo a rivelare i nutriti elenchi di cittadini tedeschi con patrimoni imbucati a Vaduz. Ora ci prova l'Europarlamento: non più tardi di qualche giorno fa ha chiesto la chiusura delle piazze finanziarie offshore, prevedendo sanzioni già a partire dal Supervertice, quello del G20 fissato a Londra il 2 aprile. In pratica crollerebbe un Muro anche nel 2009, andrebbe in frantumi una Superpotenza detta Segreto Bancario.
Sì, chi ci crede.


Liberazione 22/03/2009, pag 8

Migranti, le condizioni bestiali delle lavoratrici

Rapporto Onu sui flussi dall'Asia ai paesi arabi: sfruttamento, violenze, Aids

Daniela Bernaschi
Migrano verso gli Stati arabi in cerca di un'occupazione come collaboratrici domestiche. Una ricerca che, in molti casi, ha un finale amaro: vittime di sfruttamento lavorativo, violenze sessuali e contagiate dal virus dell'Hiv Questo il destino di migliaia di donne asiatiche che, ogni anno, lasciano la loro terra con la speranza di fuggire dalla povertà. A denunciarlo è un report delle Nazioni Unite, pubblicato la scorsa settimana e realizzato con la collaborazione di Undp (Programma di sviluppo delle Nazioni Unite), Unaids, Caram Asia, Oim ( Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), Unifeme Centro migranti in Libano.
Il report delle Nazioni Unite si basa su più di 600 interviste a lavoratrici migranti, provenienti da: Bangladesh, Pakistan, Filippine e Sri Lanka. I paesi di destinazione sono: Bahrein, Libano e gli Emirati Arabi.
Secondo il rapporto "Hiv vulnerabilità delle donne migranti: dall'Asia verso gli Stati arabi": «L'attuale crisi economica mondiale e la crescente disoccupazione, producono l'effetto di indebolire la posizione contrattuale delle lavoratrici migranti».
«Nei casi in cui la domanda di lavoro diminuisce, i soggetti più a rischio sono i lavoratori migranti temporanei, in particolare quelli non in possesso di documenti. Pertanto, i migranti, pur di mantenere il loro posto di lavoro, sono disposti ad accettare qualsiasi condizione», Renaud Meyer, direttore Undp nelle Filippine.
«La combinazione di salari bassi ed elevate tasse da pagare alle agenzie d'impiego - continua Meyer- spinge le lavoratrici migranti nelle trappole del debito, che può a sua volta condurre allo sfruttamento sessuale e a una maggiore vulnerabilità al virus dell'Hiv».
La relazione ha osservato che, il 70- 80% degli immigrati provenienti dallo Sri Lanka, Filippine e diretti verso gli Stati arabi, sono donne. Per la maggior parte delle lavoratrici migranti, il settore occupazionale è quello domestico.
Il lavoro delle migranti apporta benefici non solo ai paesi d'accoglienza ma anche ai paesi di emigrazione. Nel 2007, le rimesse dei lavoratori- provenienti dallo Sri Lanka- ammontavano a 3 miliardi di dollari.
In molti casi, inoltre, queste donne, si indebitano ancor prima di lasciare la loro terra, a cause delle alte tasse imposte dalle agenzie di assunzione del personale. Lo studio rivela anche che, tra le migranti, vi è una bassa consapevolezza sul problema dell'Hiv/Aids e della relativa prevenzione. In Sri Lanka, oltre il 50% delle donne, crede ancora che l'Hiv possa essere trasmessa dalle zanzare; il 25% non è a conoscenza del fatto che i preservativi prevengono il contagio di infezioni a trasmissione sessuale; l'88% delle donne pakistane non ha accesso a informazioni sull'Hiv.
Le migranti si accorgono di essere state contagiate in seguito a degli accertamenti sanitari necessari per il rinnovo del contratto. Gli accertamenti sono obbligatori e vengono effettuati ogni due anni.
Malu Marin, direttore della sede di "Action for Health Iniziative" di Manila - organizzazione no-profit che attua programmi di ricerca/azione sulla mobilità e salute dei lavoratori migranti-, spiega che: « Una volta identificate come sieropositive, il datore di lavoro viene informato. Le donne vengono trasferite in un centro di detenzione, in ospedale, fino alla loro partenza. Non sono autorizzate ad uscire dal centro e sono espulse senza la possibilità di preparare i loro bagagli o addirittura senza ottenere le retribuzioni dovute. Queste donne, una volta espulse, non potranno tornare a lavorare in questi paesi».
Ajay Chibber, direttore regionale Undp Asia, precisa che: «Tornate nei loro paesi d'origine, le donne espulse, non riescono a trovare un lavoro. Affrontano la discriminazione e l'isolamento sociale».
Secondo la relazione delle Nazioni Unite, in assenza di programmi di reinserimento, «la deportazione di lavoratori sieropositivi, risulta devastante per la salute, il benessere e il tenore di vita dei migranti e delle loro famiglie. La prospettiva di non poter più lavorare all'estero, le espone al rischio della tratta».
Lo studio, condotto dalle Nazioni Unite, nasce anche sulla spinta delle preoccupazioni espresse dal Pakistan, nel corso dell'assemblea annuale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), tenutasi nel 2007 a Ginevra. Nel corso di tale riunione, il Pakistan sollevò la questione dei lavoratori migranti deportati, dopo aver contratto il virus dell'Hiv.
Il report si conclude con delle raccomandazione che l'Onu rivolge sia ai paesi ospitanti che ai paesi di emigrazione, sollecitandoli ad intraprendere iniziative volte a promuovere una "migrazione sicura e informata". Le Nazioni Unite invitano, inoltre, i paesi del Medio Oriente a ratificare la convenzione 181 dell'Oil (Organizzazione Internazionale del Lavoro), che controlla e regolamenta le agenzie d'impiego private, indicando chiaramente che: le attività di intermediazione privata non devono comportare oneri economici per il lavoratore.


Liberazione 24/03/2009, pag 13

martedì 15 febbraio 2011

Medvedev: shopping in Italia

MARTEDÌ 15 FEBBRAIO 2011 00:00
di Carlo Benedetti

MOSCA. Il 16-17 febbraio Dmitrij Medvedev, Presidente della Russia, sarà in Italia su invito di Giorgio Napolitano. I due presidenti daranno il via all’Anno della lingua e della cultura russa in Italia e della lingua e della cultura italiana in Russia. Nell’agenda romana - segnata da forti motivazioni di politica internazionale - ci saranno ovviamente colloqui con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Poi una visita al Vaticano per incontrare il papa tedesco.

E sin qui, a parlare, é il freddo comunicato delle due diplomazie. Del resto è difficile aggiungere qualcosa oltre l’ufficialità del programma. I tempi non sono dei migliori. E a Mosca, con una buona dose di rude ironia slava, si dice che se la Russia non ride anche l’Italia non ha di che stare allegra. Si insiste, pertanto, nel “capire” il senso reale della missione di un Medvedev in libera uscita oltre le mura del Cremlino, perché sarebbe più logico, visti i precedenti, un blitz di Putin tutto concentrato sul rapporto con l’amico Silvio.

Tenendo conto, tra l’altro, che i veri amici si scoprono nei momenti di difficoltà… Misteri russi e roulette politica a parte ecco, quindi, il Medvedev in formato export che arriva per rivelare, forse, dinamiche nascoste o per mettere in luce, con un preciso percorso politico, trasformazioni sinora occultate.

Con Napolitano l’incontro sarà tutto in discesa. Non c’è alcun contenzioso da affrontare perché le grandi questioni tra i due Stati sono state da tempo appianate. Le “questioni” dei soldati italiani morti (o dispersi) in Russia - le tombe dell’Armir, i cimiteri di guerra - sono già accantonate e sistemate nei dossier della Storia. Sorte analoga per quei lontanissimi italiani (pugliesi) che andarono - prima della Rivoluzione d’Ottobre - a colonizzare le terre della Crimea: di loro restano in alcune remote valli solo i cognomi tramandati ormai da qualche generazione. E ancora: non ci sono problemi per la sparuta comunità “italiana” presente in varie località russe.

Complesso, quanto a tematiche, è invece quel dossier da esaminare con Berlusconi che - a livello dei due governi - si è andato formando sotto la gestione di Putin. Qui entrano in campo quadri politici e diplomatici di varia natura e spesso motivo di dibattito. Perché ci sono innanzitutto le conseguenze della globalizzazione che segnano fortemente le sfere politiche ed economiche dei due paesi. Il che, tra l’altro, comporta un’influenza smisurata, sulla vita degli stati, di istituzioni come il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).

Sul piano della bilateralità, intanto, va rilevato che l’Italia ha sviluppato con la Russia relazioni di un'intensità tale da poterle qualificare come "rapporto privilegiato". Si tratta tuttavia di un edificio che trova le sue fondamenta nella storia e, più di recente, nel sincero sostegno dell'Italia al progressivo avvicinamento della Russia alla "comunità occidentale" (UE, NATO, OMC, OCSE). Nel corso degli ultimi anni, appunto, le relazioni fra l'Italia e la Russia hanno conosciuto una fase d’intenso sviluppo che ha permesso non solo un approfondimento dei rapporti fra i due Paesi ma anche la realizzazione di progetti comuni in molteplici settori che spaziano dall'ambito culturale a quello economico.

Su queste basi, dalla formazione del governo Prodi in poi, si sono già svolte diverse visite ad alto livello: il Presidente del Consiglio ed il ministro degli Esteri si sono recati più volte in visita in Russia. E, in merito, una data importante fu quella del 14 marzo 2007 quando al vertice intergovernativo di Bari le relazioni bilaterali italo-russe trovarono un fondamentale momento di consolidamento e ulteriore slancio. Ci fu, tra l’altro, la missione di Putin, che incontrò Napolitano e Prodi e che contribuì ad avviare quel partenariato strategico articolato in un crescendo di dialogo politico e di collaborazione economica in svariati campi di primario interesse.

Notevoli poi quegli accordi intergovernativi come l’Accordo per la reciproca protezione della proprietà intellettuale nell'ambito della cooperazione tecnico-militare, il Protocollo sulla collaborazione per la realizzazione del Progetto "Super Jet 100" ed il Programma Esecutivo di Collaborazione Culturale 2007-2009. I vertici bilaterali hanno anche portato ad accordi tra banche, imprese ed enti. Tra questi, l'Accordo di Cooperazione tra Finmeccanica e Ferrovie Russe, gli accordi tra IntesaSan Paolo e le banche russe VTB e Sberbank, gli accordi finanziari tra Mediobanca e le banche russe VTB e VEB, il memorandum d'Intesa tra ENEL e ROSATOM e l'accordo fra la Città di Ferrara ed il Museo Ermitage per l'istituzione a Ferrara di una prima sede estera dell'Ermitage.

Più complessi sono, invece, i dossier di natura prettamente geopolitica. E questo tenendo conto che la Russia registra spinte contrapposte: una rivolta al passato, l’altra proiettata verso il futuro. A Mosca dominano, infatti, apparati politici, economici e militari che rivelano attitudini conservatrici. E ci sono anche forze che s’ispirano a gruppi economici internazionali e che, di conseguenza, operano per far entrare nel paese gruppi economici che potrebbero divenire forze di pressione.

Ed è proprio in questo contesto che si delinea la presidenza di Medvedev. Un personaggio del quale non si conoscono ancora a fondo gli obiettivi. Considerato come un liberale si dice che vorrebbe dare un volto liberista alla sua presidenza guardando più all’economia sociale di mercato sul modello tedesco che al liberismo di stampo anglosassone. Ma si dice anche che Medvedev starebbe lavorando in disaccordo, fosse anche solo parziale, con il suo mentore e attuale Primo Ministro Putin.

E non è un caso se nell’entourage del Cremlino si torna a porre l’accento su alcuni personaggi italiani (che avrebbero una certa influenza su Berlusconi) con i quali il giovane ed “inesperto” Medvedev si potrebbe trovare ad operare avendoli come interlocutori. Ma in questo rapporto di lavoro dovrebbe segnare la sua “diversità” da Putin.

I personaggi in questione, noti a Mosca, sono Valentino Valentini, strettissimo collaboratore di Berlusconi specialista nel tessere i rapporti tra L’Eni e i russi; Antonio Fallico (presidente di Intesa Sanpaolo Russia, advisor di Gazprom per l'Italia e interlocutore abituale di Eni ed Enel, profondo conoscitore dell’oligarchia russa ed insignito da Putin dell’Ordine di Lomonosov) e Bruno Mentasti, un manager di grande intelligenza legato agli ambienti economici della nuova Russia con una joint-venture personale collegata al Gazprom e basata a Vienna.

E’ questa, in sintesi, l’anticipazione sintetica delle questioni legate allo shopping italiano del presidente russo. Il quale, per rafforzare il suo prestigio dovrà necessariamente riportare a casa qualcosa di fondamentale. E potrebbe essere la volta buona (l’incontro con il papa tedesco che da tempo scalpita per arrivare accanto alle mura del Cremlino) per spianare definitivamente la strada dei rapporti tra il Vaticano e l’ortodossia russa. Per il suo paese Medvedev diverrebbe così il vero uomo-artefice del dialogo religioso.

http://www.altrenotizie.org/esteri/3823-medvedev-shopping-in-italia.html