mercoledì 13 aprile 2011

Dall'Italia armi alla Libia per 205 milioni di euro

Prima di mandare i nostri aerei e le nostre navi a partecipare all'azione militare capitanata dalla Nato, l'Italia ha inviato in Libia un grande numero di armi (anche in seguito al Trattato di Amicizia firmato nel 2008). Nel biennio 2008-2009 l'Italia ha infatti autorizzato alle proprie ditte l'invio di armamenti per oltre 205 milioni di euro che ricoprono più di un terzo (il 34,5%) di tutte le autorizzazioni rilasciate dall'Unione Europea.
Nel dettaglio si tratta di:
Nel 2006 due elicotteri AB109 militari dell'Agusta del valore di quasi 15 milioni di euro.
Nel 2007 sempre l'Agusta ha incassato 54 milioni di euro per l'ammodernamento degli aeromobili CH47.
Nel 2008 è stato dato il via libera per l'esportazione di otto elicotteri A109 per 59,9 milioni di euro e per un aeromobile ATR42 Maritime Patrol del valore di 29,8 milioni di euro.
Nel 2009 sono stati venduti altri due elicotteri AW139 dell'Augusta per circa 24,9 milioni di euro e quasi 3 milioni per "ricambi e addestramento" per velivoli F260W della Alenia Aermacchi.
E non vanno dimenticate le armi leggere: alla fine del 2009 circa 11.500 pistole e fucili semiautomatici (anche di tipologia militare e con accessori) della Beretta e della Benelli sono finiti nelle mani del governo di Gheddafi, per un controvalore di 8 milioni di euro.

L'export italiano di armamenti, sistemi d'arma e armi da fuoco ad uso militare ha segnato nel 2009 il record di autorizzazioni in venti anni raggiungendo la cifra di 4,9 miliardi di euro (+61% sull'anno precedente). Oltre la metà di queste armi sono finite a paesi non facenti p arte dell'Unione Europea e della Nato.

E non c'è solo quello che vendiamo, ma nche quello che compriamo!
Le spese militari italiane (in controtendenza con tutti gli altri paesi) ammonteranno nel 2011 a circa 24,4 miliardi di euro, di cui complessivi 5,7 miliardi (tra fondi della Difesa e del ministero per lo Sviluppo Economico) saranno impiegati per nuovi sistemi d'arma.
Eurofight, 121 velivoli difesa aerea 18,1 miliardi
Joint Strike Fighter, 131 velivoli di attacco aereo 15,5 miliardi
100 elicotteri di trasporto tattito NH-90 3,9 miliardi
nuova portaerei Cavour 1,4 miliardi
due fregate antiaeree classe "Orizzonte" 1,5 miliardi
dieci fregate europee multi missione Fremm 5,7 miliardi
4 sommergibili U-212 1,8 miliardi
249 veicoli blindati medi VBM 8x8 freccia 1,5 miliardi
Per il solo 2011 gli oneri di questi programmi di armamento per il ministero della Difesa saranno di circa un miliardo.
Il programma più folle in questo senso è quello per i supercaccia d'attacco (con capacità nucleare) F35 Joint Strike Fighter: 131 velivoli previsti con un costo di semplice acquisto (stima attuale, sempre in crescita) di 130 milioni di euro ciascuno.
Rete italiana per il disarmo


Liberazione 03/04/2011, pag 3

Guerre

Quella in corso in Libia è solo l'ultima di una lunga serie di conflitti che raramente trovano spazio sui quotidiani nostrani. E' bene qundu ogni tanto ricordarne qualcuna. Nel mondo sono in corso 39 conflitti, alcuni iniziate molti anni prima ma dimenticati rapidamente.
La Somalia dalla caduta di Siad Barre nel 1991 è dilaniata dalla guerra civile tra i clan che si contendono le risorse del territorio. Da 2006 le Corti islamiche hanno iniziato a mettere a ferro e fuoco il Paese.
In Nigeria gli scontri inter-religiosi tra tribù nomadi e stanziali hanno preoccupato il governo per quanto riguarda la sorte dei pozzi di petrolio nell'area del delta del Niger, così sono stati inviati i militari per sopprimere le rivolte nel sangue.
In Sudan il governo è contestato per aver lasciato nella miseria la popolazione dl Darfur. I due gruppi ribelli che dal 2003 contestavano il presidente Omar al-Bashir si sono uniti nel 2006 nel National Redemption Front per continuare le lotte uniti.
La Costa d'Avorio è in preda alla guerra civile dal fallito colpo di stato del 2002 ai danni del presidente Laurent Gbagbo. Il Paese è ora diviso in due aree di influenza.
In Uganda proseguono da più di venti anni gli scontri tra i fondamentalisti cristiani e il governo locale. Scontri religiosi tra cristiani e musulmani che continuano a più riprese dal 1960 caratterizzano anche il Ciad. In Congo e in Burundi continuano i decennali scontri tra le etnie Hutu e Tutsi.
In Medio Oriente la prerenne guerra tra israeliani e palestinesi prosegue senza nessuna pausa. Anche ieri un raid su Gaza ha provocato 3 vittime, e portato il Fronte democratico per la liberazione della Palestina e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina ad annunciare la fine della tregua con Israele.
In Iraq continuano ancora i combattimenti fra le truppe di occupazione americane e gli insorti locali. In Marocco è in corso la rivolta degli saharawi che vivono del Sahara occidentale.
Andando ad est l'Indonesia è sotto effetto di spinte separatiste nell'isola di Sumatra e in Papua Occidentale, mentre nelle Molucche imperversano gli scontri religiosi. Nele Filippine dei gruppi comunisti di stampo marxista si scontrano con il governo cristiano sostenuto dagli Stati Uniti.
Guerre anche in Europa. Si inizia da Cecenia, Inguscezia e Daghestan che lottano per ottenere l'indipendenza dalla Russia. Ai margini dell'ex Unione Sovietica Abkhazia e Ossezia del Sud vogliono separarsi dalla Georgia, così come il Nagorno-Karabakh dall'Azerbaigian. E in Turchia è invece la minoranza curda a chiedere la separazione. Gli attentati proseguono anche dopo l'arresto del leader Ocalan.
E in Colombia i ribelli delle Farc combattono dal 1964 contro i poliziotti e gruppi paramilitari filogovernativi foraggiati dagli Stati Uniti.


Liberazione 03/04/2011, pag 2

Guerra in Libia, l'alba di un'odissea?

Un conflitto che minaccia la Primavera Araba e che ha distolto lo sguardo dai reali cambiamenti

Toni Maraini
Nel suo libro sulla storia del Maghreb, lo storico Abdallah Laroui nel 1970 scriveva: «il clichè di una società in balia di "una moltitudine di tribù che si dilaniano", e di uno stato di cose inorganico», avanzato per legittimare gli interventi militari coloniali in Nord Africa (XIX/XX sec.) era stato l'obiettivo del colonialismo europeo - volto al controllo di risorse, aree strategiche e genti, ma anche a "decongestionare" le proprie tensioni interne e crisi socio-economiche - e non, come proclamato in nome di un "progetto civilizzatore", la causa degli interventi. Lunghe manovre per minare l'assetto dell'intera area, neutralizzare personaggi e forze vitali, appoggiare infauste figure di comodo e favorire arcaismi e rivalità, avevano preparato il terreno per legittimare l'occupazione. Più di mezzo secolo è passato dalla decolonizzazione, e un giro di boa ha riportato a galla discorsi e strategie che ricordano quelli dell'epoca coloniale. In loro nome, una sequela di guerre ha da tempo provocato - dal Corno d'Africa sin nel cuore dell'Asia (ma non solo) - milioni tra morti, esuli e fuggiaschi, devastato economie, ecosistemi, culture e aree di antica civiltà, provocando regressioni e scardinamenti poi additati come prova d'inciviltà. Da questo desolante panorama restava immune, alle nostre porte, la regione a sud-ovest del Mediterraneo, il Maghreb, che include cinque nazioni (Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia) con assetti storici, politici e culturali molto diversi ma accomunati da molteplici coordinate e inestricabilmente legati alla storia di noi tutti mediterranei. Mezzo secolo o piu d'indipendenza è poco per ricostruire quanto il colonialismo aveva de-costruito e affrontare volta a volta Guerra Fredda, regimi autoritari, problemi sociali, globalizzazione e geo-strategie, ma le società civili - in particolare in Tunisia, Marocco e Algeria - hanno fatto grandi passi in avanti. Lo hanno fatto con sforzi tenaci e sudate conquiste. Sforzi e conquiste poco recepiti dall'Occidente, e poco sostenuti da fallimentari politiche euro-mediterranee. Nonostante l'impegno di tante persone e associazioni, quelle italiane da tempo annaspano, per dirla con Armando Gnisci, «in un mare di chiacchiere». Che il mare di chiacchiere si trasformi in mare di guerra, è una pericolosa deriva. Tanto più che il politologo Gilbert Achcar, intervistato da Stephen Shalom per la rivista Z Magazine di Michael Albert e Noam Chomsky, giudica la risoluzione Onu sulla Libia «straordinariamente confusa» (amazingly confused). Gli analisti spiegheranno in che misura pesano su questo scenario la questione energetica, la "strategia della sicurezza", il mercato delle armi, le rivalità geo-politiche ed economiche mondiali e le contraddizioni dell'Onu. L'eventuale spartizione della Libia e il protrarsi della belligeranza, tra colpi di scena, tregue e battaglie sul terreno, riveleranno forse alcune verità. Ma l'intervento umanitario è il più difficile da spiegare, anche allorquando auspicato e necessario, se si ricorre al buon senso di ciò che poteva e doveva (secondo la Carta statutaria dell'Onu) essere messo preventivamente in opera. O si avanzano altre non irrilevanti obiezioni su tanto sollecito intervento umanitario, che prevede bombe in Libia ma non pane e strutture d'emergenza - umanitarie, appunto - a Lampedusa per parare gli effetti dell'operazione bellica stessa e dei conseguenti scardinamenti regionali. Un altro giro di boa della storia sta portando ad ammettere soluzioni e metodi da "campi di concentramento".
Tutto questo assume un aspetto drammatico se si considera lo sfasamento tra la realtà dei recenti eventi come percepita da gran parte delle donne e degli uomini del Maghreb che si rivolgono speranzosi all'Occidente e la visione che prevale in Occidente. Nonostante una trasversale empatia e spicciola comprensione di quanto iniziato in Tunisia, la copertura mediatica occidentale, con un miscuglio di notizie vere, false, incerte, confuse o teleguidate, con l'immagine di un "Maghreb in fiamme" e "sull'orlo del baratro", con l'irruzione della questione libica e quella dei migranti - questioni sature di rimandi che offuscano ogni percezione razionale del Maghreb - ha creato un clima che ammanta di silenzio i presupposti della "primavera araba" da cui tutto sembrava scaturire.
«Gli straordinari eventi in Tunisia, Egitto e altrove - scrive l'amico giornalista del Marocco, Mohamed Jibril - pongono in modo chiaro questioni, fondamentali per l'insieme dei popoli e paesi del Mediterraneo, e aprono prospettive nuove su cui riflettere per fare avanzare le nostre società». Altre parole potrebbero essere citate, ma basta riassumerle con quelle di Laila Tazi, pediatra e fondatrice nel 1988 di Amrash, Associazione onlus indipendente marocchina pour le développement social et humain durable - una delle tante o.n.g. d'impegno civile nate da uno straordinario movimento associazionista "dal basso" - che scrive : «La nostra "primavera araba" ci ridà giovinezza e gioia. Spero che tutte le persone democratiche d'Italia sapranno trovare modo di sostenerci!». Cosa rispondere loro? Che il concetto di "insieme dei popoli e paesi del Mediterraneo" e i programmi di sviluppo pacifico e condiviso imprescindibile per il bene comune dell'area mediterranea sono stati affossati da questa parte del Mediterraneo? Che gli opinionisti fanno astrazione delle parole "riflessione" e "avanzamento", e ancor più dell'aggettivo "democratico", quando dissertano sul mondo arabo/musulmano sempre presentato come monolitica e minacciosa caricatura? Che i commentatori ignorano le dinamiche di fondo dell‘islam laico moderno nel pensiero, anche giuridico, e vissuto secolare maghrebino e amano unicamente parlare di "incompatibilita dell'islam con la democrazia" dimenticando così i processi e le battaglie storiche dell'Occidente nel suo cammino da leggi canoniche e clericalismo di Stato a libertà civili ? Sostenendo, per spiegare la "primavera araba", che sprazzi di democrazia sono arrivati dall'Occidente tramite internet, molti osservatori hanno minimizzato, con consolidato paternalismo, quel secolo di storia, battaglie politiche e culturali, creazioni, scritti e dibattiti su modernità, laicità e sviluppo - iniziato sulla scia del Risveglio o nahdha della fine del sec. XIX e maturato con le lotte per l'indipendenza - che ha segnato più di tre generazioni maghrebine riverberando sulle istanze sociali partecipative manifestatesi, appunto, nella "primavera araba". Internet ha di certo svolto un ruolo per molti giovani (eppure nell'indice N.R.I la Libia occupa il 103° posto, seguita dall'Algeria), ma a monte c'è altro, e molto di più. Commentando la straripante manifestazione di Casablanca del 20 marzo scorso, un giornalista del Marocco ha scritto: «i cosiddetti facinorosi, vandali, nemici dello Stato, isterici islamisti? Io non li ho visti. Ho visto una marea di gente felice di potersi esprimere, donne e uomini uniti, quali che fossero le loro opinioni politiche, per un Marocco migliore. E i giovani del "Movimento 16 Febbraio" erano lì ad aiutare il buon esito della manifestazione e sfilare tranquillamente». Non possiamo ridurre tutto questo, la sua reale dinamica storica, e la sua "gioia democratica", ad un'occidentalizzazione diffusa via Internet. Ma capirne la dinamica storica presuppone un processo di dialogo, analisi e conoscenza che poco s'addice alla maniera odierna di volgersi verso il sud del Mediterraneo. In molti, nei media, accomunano tutto e tutti, e situazioni molto diverse, nell'espressione "quei paesi li". Così, associazioni di donne, insegnanti, giornalisti, studenti, sindacati, partiti politici, artisti, intellettuali, lavoratori di ogni settore, esponenti delle diverse comunità e diverse generazioni che si solidarizzano per portare avanti le loro società, rimangono invisibili e scomodi - perché estranei alle strategie di "conflitti religiosi, etnici o tribali" sempre tese loro come trappole - e non fanno notizia. Non pesano sulla bilancia quanto le immagini che dalla Libia e da Lampedusa fomentano paure e alimentano contrasti nell'animo del cittadino medio europeo. La guerra ha distolto lo sguardo dalle società civili nordafricane e dai cambiamenti ottenuti con sacrifici e proteste ma senza bombe. Con le sue dispute tra potenze, ha deviato l'attenzione dalle "prospettive su cui riflettere" per il bene comune intermediterraneo e la "primavera araba" è stata occultata. Potrebbe rivelarsi, per gli arcani della politica mondiale, la cosa la meno auspicata. Un articolo della politologa Phyllis Bennis incluso nel dossier sulla Libia di Z Magazine ha come titolo, "L'intervento in Libia minaccia la Primavera Araba", (Lybian intervention threatens Arab Spring). Da canto suo, Marjorie Cohn, Segretario Generale della International Association of Democratic Lawyers, criticando la risoluzione Onu e il vuoto diplomatico che l'accompagna, intitola il suo articolo "Fermate i bombardamenti sulla Libia" e chiede «cosa impedirà adesso di inscenare proteste, magnificandole come azioni di massa tramite i canali dei Corporate Media e poi bombardare o attaccare?». In questo clima, un incidente o evento - casuale o voluto - rischia di scoperchiare il vaso di Pandora e dare ragione a Phyllis Bennis quando, dalla sua postazione al Transnational Institute di Washington D.C. scrive «la guerra in Libia potrebbe provocare una Lunga Guerra». Molti indizi lasciano temere questa disastrosa eventualità. E' questa la risposta alle speranze e aspettative delle cittadine e dei cittadini del Maghreb e all'urgenza di una pacifica interrelazione mediterranea? Difficile dirlo con una guerra in corso. Sarà brevissima, è stato detto. E se non lo fosse? Se, si rivelasse davvero, come il suo suggestivo nome in codice suggerisce, una Odyssey Dawn, ovvero, "l'alba di una odissea"?


Liberazione 01/04/2011, pag 8

Alle banche irlandesi servono altri 24 miliardi

L'istituto centrale a Dublino rivela il risultato di uno stress-test che riapre la voragine della crisi in Europa

Matteo Alviti
Mentre in Germania gli indici economici e occupazionali parlano già di ripresa, la crisi internazionale continua a mordere gli anelli più deboli della catena europea, rischiando di tirare per i piedi anche i più forti.
Ieri era il giorno dell'Irlanda, il giorno della pubblicazione dei risultati di uno stress test su quattro grandi istituti di credito nazionali, condotto dalla banca centrale e da alcuni esperti indipendenti. E come era stato anticipato, il test non ha dato risultati rassicuranti.
Agli istituti irlandesi servono 24 miliardi di euro per riuscire a sopravvivere e non mandare a gambe all'aria il paese. In particolare Allied Irish Bank avrà bisogno di nuovi capitali per 13,3 miliardi di euro, Bank of Ireland per 5,2 miliardi, Irish Life per 4 miliardi ed Ebs Building Society per 1,5 miliardi. «La cifra è necessaria», ha spiegato il professor Honohan, governatore della Banca centrale, «per ridare fiducia al mercato e assicurare che le banche abbiano capitale a sufficienza per far fronte anche alle previsioni più nere».
Il totale degli interventi statali rischia dunque di arrivare a 70 miliardi di euro. Si tratta di una somma che rende insufficiente il contributo di 35 miliardi destinato al settore nel pacchetto di aiuti definito da Dublino lo scorso anno con Ue e Fmi. E così il governo irlandese impiegherà quel che era stato accantonato del prestito da 85 miliardi concesso a novembre per far fronte a questa ricapitalizzazione. Ieri in parlamento il nuovo ministro delle finanze Noonan ha reso noto che Allied Irish Bank ed Ebs Building Society si fonderanno per dare vita a una nuova banca - Dublino già possiede gran parte dei due istituti e di Anglo Irish Bank.
E com'è noto, l'Irlanda è in buona compagnia: la situazione resta gravissima anche per altri paesi. Se il rapporto tra debito e prodotto interno lordo irlandese è infatti al 125%, quello greco oggi è ancora al 160% e quello portoghese al 100%. Per questo il rischio di non riuscire a rimborsare i debiti contratti con l'emissione di titoli resta presente, considerato che, rispettivamente, i tassi di interesse dei bond greci, irlandesi e portoghesi sono del tredici, dieci e otto per cento. Bisognerà intanto vedere come il Portogallo riuscirà a piazzare i titoli nell'asta straordinaria di oggi. E poi in quelle del 6 e 20 aprile, del 4 e 18 maggio e del 1 e 15 giugno. Ieri lo spread tra i titoli tedeschi e portoghesi è schizzato a un nuovo record storico, a 485 punti base.
Moody's infatti non ha escluso ieri ulteriori tagli ai rating sovrani dei paesi euro, visto che le misure annunciate la settimana scorsa dalla Ue non sarebbero, secondo l'agenzia, sufficienti a risolvere la crisi del debito in Europa. Moody's ha spiegato che se anche le misure varate confermano l'impegno dell'Unione europea ad aiutare i paesi in difficoltà, continua a mancare un meccanismo per sostenere la «solvibilità» finanziaria dei 27. «Crediamo che diversi paesi Ue resteranno sotto pressione. E se i costi per finanziarsi continueranno a salire, ulteriori tagli ai rating sovrani potrebbero essere necessari». Nelle settimane scorse l'agenzia aveva già ridotto il rating della Spagna ad Aa2, quello del Portogallo ad A3, quello dell'Irlanda a Baa1 e quello della Grecia a B1.
Alcuni investitori temono che alla fine della fila arrivi anche il nome dell'Italia. Del resto la settimana scorsa anche il membro italiano del board della Banca centrale europea, Lorenzo Bini Smaghi, aveva detto che il rischio di contagio tra i paesi deboli dell'Ue non è insignificante - anche se probabilmente Bini Smaghi non si riferiva al nostro paese.
Per l'Economist in edicola oggi gran parte della responsabilità del peggioramento delle prospettive economiche di Grecia, Irlanda e Portogallo ce l'hanno Bruxelles, Francoforte e Berlino. Molto duro il giudizio sulla cancelliera tedesca: I leader europei «si erano accordati su un meccanismo permanente di soccorso da introdurre nel 2013. Ma non sono riusciti a finanziarlo adeguatamente perché Merkel ha rifiutato di stanziare i fondi che il suo ministro dell'economia aveva impegnato». E come se non bastasse, conclude il settimanale, «la Bce sembra intenzionata ad alzare i tassi, mossa che rafforzerà l'euro e metterà a repentaglio gli sforzi dei paesi periferici per diventare più competitivi».


Liberazione 01/04/2011, pag 6

Il Brasile vuole acquistare il debito del Portogallo

Da ex colonia a salvatore

Il Brasile della neopresidente Dilma Rousseff sembra intenzionato a dare una mano a Lisbona e ha fatto sapere di stare già valutando «la migliore strada da percorrere» per prendere parte al processo di ripresa economica del Portogallo. Anche in questo caso una delle ipotesi è l'acquisto diretto «di debito sovrano portoghese», una proposta che ha il sapore della beffa storica se si considera che il paese sudamericano un tempo era un'ex colonia portoghese. Lo ha ribadito la stessa Rousseff, in visita ufficiale nel paese europeo, in un'intervista rilasciata al "Diario Economico", aggiungendo peraltro di voler cercare anche soluzioni "alternative", come "il rimborso anticipato di titoli brasiliani attualmente nelle mani del governo portoghese". La sostanza non cambierebbe di molto: anziché sottoscrivere nuovi titoli di stato o acquistarli sul mercato, il Brasile rimborserebbe anticipatamente i propri finora detenuti da Lisbona, liberando così risorse preziose per il paese lusitano, che ha visto ieri Starndard & Poor's tagliare ulteriormente il rating da "BBB" a "BBB-", ultimo livello prima del "junk" (spazzatura), con un outlook che rimane negativo.
Una decisione che viene del resto avvalorata dall'annuncio giunto oggi dalla banca centrale del Portogallo, che ha limato ulteriormente le previsioni sul Pil 2011, visto ora in calo dell'1,4% (rispetto al -1,3% precedente), a conferma che se la crisi della Grecia è stata dovuta a una serie di "trucchi" messi in atto per non mostrare i buchi che andavano aprendosi nei conti pubblici e se quella d'Irlanda è in buona misura legata ai problemi del settore creditizio e alle storture createsi dopo anni di crescita "drogata" dagli incentivi fiscali di Dublino, quella di Lisbona è più propriamente una crisi economica legata all'insoddisfacente redditività dell'economia portoghese.
Una situazione questa che potrebbe accomunare il Portogallo alla Spagna e in qualche misura all'Italia (se non fosse per le differenti dimensioni economiche) e che spiega anche l'interesse del Brasile (come già della Cina, del resto) a offrire un proprio soccorso. Non solo vincoli culturali e storici legano infatti i due paesi, ma anche un solido interscambio commerciale. In più Lisbona può essere in futuro la porta d'ingresso per merci e servizi (e soprattutto investimenti finanziari e industriali) brasiliani, essendo difficile pensare che verranno posti domani barriere e rifiuti nei confronti di chi oggi si prodiga per levare qualche castagna dal fuoco all'agonizzante economia lusitana.


Liberazione 31/03/2011, pag 6

Todo cambia

TODO CAMBIA di Julio Numhauser
“Cambia lo superficial Cambia tambien lo profondo Cambia el modo de pensar Cambia el clima con los anos...Cambia todo cambia...Y asi como todo cambia Que yo cambie no es extrano...Pero no cambia mi amor Por mas lejos que me enquentre Ni el recuerdo ni el dolor De mi pueblo, de mi gente"

TODO CAMBIA di Julio Numhauser


“Cambia lo superficial

Cambia tambien lo profondo

Cambia el modo de pensar

Cambia el clima con los anos

Cambia el pastor su rebano

Y asi como todo cambia

Que yo cambie no es extrano.


Cambia el mas fino brillante

De mano en mano su brillo

Cambia el nido el pajarillo
Cambia el sentir un amante

Canbia el rumbo el caminante

Aunque esto le cause dano

Y asi como todo cambia

Que yo cambie no es extrano


Cambia todo cambia


Cambia el sol en su carrera

Quando la noche subsiste

Cambia la planta y se viste

De verde en la primavera

Cambia el cabelloel anciano

Y asi como todo cambia

Que yo cambie no es extrano


Pero no cambia mi amor

Por mas lejos que me enquentre

Ni el recuerdo ni el dolor

De mi pueblo, de mi gente.”


Julio Numhauser


Riprodotta ai fini di diffusione e informazione non commerciale

http://guide.supereva.it/psicoterapia_ericksoniana/interventi/2004/07/169009.shtml

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Mercedes Sosa - Todo cambia

http://www.youtube.com/watch?v=g8VqIFSrFUU

sabato 9 aprile 2011

Casa editrice Jouvence

http://www.jouvence.it/